OMNIS POTESTAS NON A DEO

Voglio accompagnarmi a te con fare gentile e tendenzioso

mentre il Burian grida sconfortato dal profondo Nord

in questa giornata tutta siberiana

il suo desiderio di gioia e di felicità

in tanto tormento dei sensi brutti e cattivi.

Voglio sedermi vicino a te sulla seggiola impagliata dei sogni

e rassicurarti sul futuro atomico dell’umanità,

sulle balle che racconta il solito fesso in tivvù e sui giornali,

sulla donna angelicata che offre il fianco alla vecchiezza

cucinando una zuppa di farro e di ceci

sopra la stufa di antica ghisa e macchiata di tanta usura.

Voglio rasserenarti

raccontandoti le barzellette del Barbazucon,

le sciocchezze di Giufà,

le monellerie del Mazariol

in questi tempi di trista ignoranza

e dedicati alle fiabe dei saggi scorreggioni made in usa

e alle favole dei paranoici di ferro dal viso d’angelo.

Quando la dispensa sarà piena di carne Simmenthal,

allora,

soltanto allora,

si potrà fare un buon brodo al plutonio

nell’attesa dello scoppio di quella bomba

tanto amata e tanto temuta,

preparata da tempo con gusto certosino

e con cautela benedettina dai mostri di turno,

una patatona accurata e liscia

come il culo di un monaco ortodosso,

nascosta dentro quel ventre ingordo

che non conosce frontiere praticabili,

che non indugia in forti ritardi mestruali

per creare un mostro lucidato anzichenò.

Adesso siamo ancora in Bielorussia,

devi pazientemente attendere,

o angelo del cielo,

che si passi il confine verso l’assurdo

in questo giorno di festa che onora Cirillo,

quel Cirillo col cazzo a spillo,

quello che nei canti goliardici inculava i microbi,

quel santo attualmente nelle braccia di un pope papa

che grida rincoglionito alla neve violenta

“omnis potestas non a deo”,

che ripete inebetito,

“omnis potestas non a deo”,

che insiste basarocco,

“omnis potestas non a deo”.

Signorsì!

Fiat voluntas sua sicut in coelo et in terra,

mentre un sonoro e spedito “Tiremm innanz”,

ribatte al maramaldo autarca e al ribaldo impostore

il prode Amatore Sciesa di fronte ai figli e alla moglie

scegliendo di combattere in Cecenia con i poveri di spirito

per vincere la solita guerra di Piero.

Adesso che sei tranquilla,

ti lascio riposare,

ma sempre con fare gentile e tendenzioso.

Attenta alla minestra che è sul fuoco.

Salvatore Vallone

Carancino di Belvedere, 16, 03, 2022

LA SAGA DI GRAZIELLA

Graziella è una donna istruita

che in Sicilia parla in italiano.

Graziella è una donna del popolo

che studia per maestra dalle suore Orsoline.

Graziella è figlia di Pietro,

fratello di nonno Giovanni.

Graziella è una donna composta

che sposa Giuseppe, detto Pippino.

Graziella ama Pippino,

sergente della regia Marina italica.

Graziella è una mamma complessa

che ha quattro figli preziosi.

Graziella li chiama Maria, Lello, Maria e Piero

e la meningite ruba i tredici anni della prima Maria.

Graziella accudisce amorevolmente Lello

che nasce con il forcipe.

Graziella lo trascina in carrozzella

in questo grigio novembre del 1943.

Graziella è investita dal vento misto alla neve

in questo freddo novembre del ‘43.

Graziella è in fuga da Pola

in questo tragico novembre del ‘43.

Graziella è fermata da un povero soldato

tra Pola e Fiume in questo inumano novembre del ‘43.

Graziella copre Lello con il suo corpo

di fronte al mitra che spara la morte.

Graziella muore con Lello

e lascia sulla neve la rossa impronta della memoria.

Graziella ha il petto e il grembo squarciati

e Lello ha un foro nella testa e nel cuore.

La figlia Maria è testimone di questo terribile amore

fino a quando l’angoscia di morte le toglie l’identità.

Salvatore Vallone pone nel giorno della Memoria

e nel dolce ricordo di mamma Graziella e dell’incolpevole Lello.



Carancino di Belvedere 27, 01, 2022





30 SETTEMBRE

Seduto in questo caffè di piazza del Duomo,

pensavo a te,

a te che non sei la solita donna eternamente angelica

o improvvidamente angelicata,

la solita donna immarcescibile

come il fiore dei defunti nelle botteghe cristiane,

la solita donna compromessa in una canzone dell’Equipe 84

mentre si giocava alla rivoluzione culturale,

la solita donna portata in piazza dal maschio di turno

per esibire il trofeo borghese dell’ignoranza.

Tu non sei la solita donna da menare sugli altari della ribalta

o nel web come influencer truccata o opinionista alle vongole,

tu non sei da menare neanche dove la notizia striscia

come un verme malsano o un tarlo rasato.

Ebbene,

in questo café alla moda di Floridia io pensavo a te

che non sei una femmina da intrallazzo occulto o da rifugio antiaereo,

un personaggio tutto Lolita e per niente Nannarella,

pensavo semplicemente a te in questo settembre afoso,

oltremodo odoroso di spazzatura putrida e inzuppata nel finocchietto,

che asciuga le stanche ossa di barocco calcare

e le prepara con noncuranza alla benefica cenere,

al vaso ventoso di marmo che Pandora non aprirà mai,

pensavo al prezzo esagerato di uno shakerato alla caffeina

in questo castello Maniace tanto amato da Federico di Svevia,

un cimelio tanto bistrattato dai soliti ignoti indolenti

che lamentano la noia e l’accidia del tosco

che per la città del foco ancora vivo sen va così parlando onesto,

pensavo al fetore del lesso di maiale,

intriso di succo di limone femminello,

che la zia Violanda accudiva per comporre la sua gelatina

e per tirare un’altra paga proprio con il lesso.

Pensavo

che in questo giorno di ordinaria follia

manca all’appello don Peppino pallemoscie,

il famigerato professore di storia e filosofia

in quel Liceo storico intitolato a Tommaso Gargallo,

poeta sicano ed erudito siculo,

amante di Quinto Orazio Flacco e delle sue donne,

pensavo

che mancano le quattro ossa malferme del prof

affossate in una sedia di lurido vimini in via Cavour,

presso il negozio d’arte delle stoffe varie e variopinte,

che manca la bocca color nicotina di don Peppino

che rinserra il ciuccio toscanello e la bava inamidata sulle labbra,

che manca la vecchia copia dell’Unità nella tasca del vestito coloniale,

intriso di sudore a mo’ di carta geografica,

un giornale ardito e un residuo archeologico

in vendita nel negozio di Santino u cumunista

in quella incomprensibile via delle Vergini al civico 68.

In questo giorno banale di fine settembre

pensavo a Vittoriu u babbu e a sua sorella Milina

che si compiacciono di litigare con la loro loquela antica

che li fa manifesti di quella nobil patria natii

alla qual io fui e sono ancora troppo molesto.

Ma, girando e rigirando per vicoli e viuzze,

m’imbatto in un amico vero e sincero

che mi offre di mandorla la granita e la brioscia col tuppo,

mi annido nel migliore caffè del borgo,

con tanto di tendone e cameriere,

un amico di lunga data e di vasta battuta

che insegna il canto gregoriano e il ricamo clandestino

presso il collegio delle suore di sant’Orsola,

in quel di Ortigia,

in quel piazzale san Giacono,

altrimenti noto come ricettacolo della faccia disperata

delle madri e delle mogli

che attendevano i figli e i mariti pescatori

rientrare in porto all’imbrunire

senza pesce ma con la vita ancora in mano.

Il mio amico vero e sincero si chiama Pietro,

detto e conosciuto come Piero Pierin,

come Piero Pierot dai tosti cingot,

un gatto meticcio di color rossiccio e bianco,

un micio senza tempo che vive al presente,

alla giornata,

al momento,

non quello a quo pendet aeternitas di Augustinus,

ma quello dal quale dipende il rancio e il vitto,

l’alloggio e l’albergo,

il dritto e il rovescio di malfamata fame.

Un gatto non è semplicemente un felino,

è un mondo incantato dalle mille virtù e dai mille peccati,

una Peyton Place di anarchia sincera,

alla Sacco,

alla Vanzetti,

alla faccia di quell’America balorda e fumosa

che ieri m’illuse,

che oggi ti bastona,

o piccolo mondo di vita dalle vibrisse color della cenere

come le palle dei giovani nelle canzoni goliardiche di ieri,

dalle fusa che tendono il fuso

come nei migliori affreschi della casa dei Vettii

sotto la cenere di Pompei

in quel 30 settembre di allora che dirti non so.

Salvatore Vallone

Carancino di Belvedere, 30, 09, 2021

LA MOGLIE DEL SOLDATO

La vitalità è isteria di vivere,

la naturale conversione dell’angoscia di morire e di perdere tutto,

un patrimonio da lasciare in questo mondo infame,

un ex intruglio di spermatozoi ossidati

e di uova ancora buone per la frittata.

Il conflitto è un pane casereccio,

condito con le olive e il peperoncino,

con una fetta di pecorino e olio d’oliva extra,

quello di Carancino,

nonché origano in abbondanza

e quel pizzico di sale che non guasta mai,

come lo zucchero semolato,

extrafino e vanigliato nel budino al cioccolato della nonna.

Il gioco dei ruoli non funziona più,

come i programmi televisivi dei cuochi,

i nuovi messia di questo oltremodo attillato e dilatato paese.

Tu dimentichi chi sei

variando continuamente lo stato di coscienza

con hashish e mariagiovanna,

con coca e con cola,

e ti frastorni fino a far nascere e crescere in te

quel canovaccio umano che non hai mai recitato

nel sofisticato teatro della tua strana vita.

Il sodato ha ballato tutta la notte nel bordello di Malta

tra le signorine inglesi e le geishe nostrane,

tra poppe ruspanti e culi cadenti,

e all’alba ha visto tra la folla una nera signora

dai capelli ardenti e corvini,

una donna a metà tra madre e matrigna,

una dea a metà tra Afrodite e Atena,

una mezzo maschio e una mezza femmina.

Il soldato ha cantato e bevuto,

ha cantato canzoni porno con le mabrucche,

ha bevuto la sciobba con le indigene di Tripoli,

ha mangiato il quatrucco di mandorle e miele.

Il soldato ha recitato la parte giusta

per festeggiare la sua salvezza dai mali della Morte,

per andare in culo alle Moire,

alla troia di Cloto che fila,

alla malefica Lachesi che intesse,

alla famigerata Atropo che taglia.

Ma la sua fu la guerra di Piero,

sparagli adesso,

sparagli addosso,

e a nulla valse il fanatismo del siciliano,

mezzo cafone e mezzo arabo,

mezzo anarchico e mezzo fascista,

quando si accorse

che la Morte cercava proprio lui.

Quella donnaccia da bordello cercava proprio lui,

quella donna del malaffare ce l’aveva con lui,

proprio con lui.

La paura fu tanta e l’orgoglio quasi niente.

Il soldato Biagio Scarpel gridò al cielo lacerandolo:

Padre mio, aiutami!

Aiutami e non mi abbandonare!

Alla parata Lei mi stava vicino

e mi guardava con malignità.

Nella mia vita mi sono sempre ricordato della Morte,

ma Lei è stata tanto cattiva con me.

Voglio la vitalità,

il sangue caldo che mi scorre nelle vene,

tutta la forza dei miei istinti,

la follia di un uomo unico ed eccezionale.

Ancora una volta mi sia data la fuga in groppa all’anarchia.

Mi frastornerò ancora,

forza,

fino a Calascibbetta guiderò il cavallo dei miei pantaloni.

Mi illuderò di avere trovato finalmente l’amore di una vera donna,

una siciliana dall’accento matriarcale,

dai seni enormi ed efficaci,

non mi fermerò,

volerò,

mi butterò a capofitto in una vecchia avventura

per subire nuovamente la vertigine della vita.

E canterò,

io canterò la mia ninnananna

come faceva la mia mamma

quando mi regalava la ninna e la nanna.”

Avia nu sciccareddru,

ma tantu sapuritu,

a’mia mi l’ammazzaru

poviru sceccu miu.

Chi beddra vuci avia,

paria nu gran tinuri,

sceccu beddru di lu mi cori

comu iu t’aia scurdà.”

Forza,

coraggio,

questa è una nuova realtà tutta da vivere.

Innocenti ed effimere sono le conquiste,

ma c’era tra la folla quella nera signora

perché non ho mai dimenticato quella Morte

a cui indolente ormai mi inchino.

Era tra la gente nella capitale del Nulla

e ora la ritrovo qua.

Ma tu, o Morte, non appartenevi agli altri?

So che mi guardavi con malignità.

Perché sei così cattiva con me?

Sono scappato in mezzo ai grilli e alle cicale,

mi sono perso nella terra di Utopia,

nella triste ricerca di un luogo tanto decantato che non esiste,

sono scappato via,

ma ti ritrovo qua,

in pieno centro a Calascibbetta.

Adesso, da fallito, ti ritrovo fuori dalla porta.”

Disse allora la gentildonna interpellata:

Sbagli,

t’inganni,

ti sbagli soldato.

Ti sei illuso anche in questo,

mio caro rivoluzionario.

Io non ti guardavo con malvagità,

io non ho nessun motivo per essere crudele con te.

Il mio era solamente uno sguardo stupito.

Ero soltanto meravigliata del fatto che tu mi cercavi.

Cosa ci facevi l’altro ieri là?

Io t’aspettavo qui e oggi,

aqui y ahora,

hic et nunc,

l’appuntamento giusto era proprio questo

e tu eri lontanissimo due giorni fa

e stavi quasi per mancarlo.

Ho temuto che per ascoltar la banda a Malta

ti fossi dimenticato del nostro happening,

del nostro cocktail d’amore.

Ho avuto paura

che, per frastornarti ancora con Stefania,

non facessi in tempo ad arrivare qua

e perdessi il tuo luogo e il tuo momento,

momentum a quo pendet aeternitas,

la tua ultima utopia.

Non è poi così lontana Calascibbetta,

non è poi così difficile morire,

la vita stessa ti ci porta naturalmente

se non ti opponi alle banalità.

Hai cantato con me tutta la vita,

non mi hai mai dimenticata un solo istante,

hai vissuto con la morte addosso,

e, dopo il canto del cigno, sei fuggito con il vento

e hai finalmente trovato la tua vera dimensione vitale.

Cosa vuoi di più?”

L’asinello è veramente morto,

è stato ucciso dal padrino Marlon Brando

per farti quel favore

che non potrai mai ricambiare.

Avia nu sciccareddru,

ma tantu sapuritu,

a ‘mia mi l’ammazzaru

poviru sceccu miu.

Chi beddra vuci avia,

paria nu gran tinuri,

sceccu beddru ri lu mi cori

comu iu t’aia scurdà.”

 

Salvatore Vallone

 

Carancino di Belvedere, 20, 10, 2020

ODE IN LODE DI PIETRO

ODE IN LODE DI PIETRO,

IL GENTILGATTO DETTO PIERO

“Piero Pierin,

Piero Pierin,

Piero Pierot,

nel caffellatte io c’intingo i tuoi cingot.

Il gattone me lo mangio con la panna e col giambon,

Piero Pierin,

Piero Pierin,

Piero Pieron.”

Se tu sei un felino,

io sono Raul Siddharta Encumeni:

un nessuno muschiato con un niente,

un chissachì oltremodo anonimo e ignoto,

un quaracquacquà inetto e indolente

di cui a suo tempo parlò Leonardo Zarathustra

insieme alla sua civetta e nel giorno a lei dedicato.

Eppure io sono io e tu sei tu,

io sono Salvuccio Sinagra,

detto padre Carnazza,

tu sei Pietro,

detto Piero,

un soriano orientale alla Sandokan

che salta e s’avventa sui sorcini di campagna,

un molle pagliaccio francese

che ama i massaggi shiatsu sul collo pendulo

in ricordo della mamma gatta.

Eppure tu non sei un gatto,

perché si vede e si sente da lontano

che sei un gran pezzo di pane casereccio

condito con olio extra-illibato e origano dei monti Iblei,

perché si vede e si sente da vicino

che sei un favo ripieno di miele dolciastro e appiccicoso,

sempre degli stessi monti annoiati e distesi presso Sortino,

perché si vede e si sente da lontano

che sei un vivente dai miti consigli e dai pessimi intrighi,

un incallito e irresponsabile seduttore

che non ha scritto nessun diario

perché vive la sua vita alla menomale,

alla menopeggio,

alla menesbatto,

alla menopiù, più che alla menomeno,

ma soprattutto sei un vivente libero

che non si lega a nisciuno

semplicemente perché non sei un fesso

e accà tutti lo sanno.

E tutto questo si vede e si sente da lontano e da vicino.

“Piero Pierin,

Piero Pierin,

Piero Pierot,

nel caffellatte io c’intingo i tuoi cingot.

Il gattone me lo mangio con la panna e col giambon,

Piero Pierin,

Piero Pierin,

Piero Pieron.”

E allora?

Allora,

dimmi orsù,

o signor Pietro,

cosa nascondi di buffo sotto i baffi a sventola,

mentre rumini le salsiccette texane di un siculo Mc Donald?

Non gradisci la paprika perché ti irrita il retto?

Sai quante slinguate occorrono

per richiamare all’ordine la mucosa e le sue degne comari?

Lo sai, lo so.

Lo so che lo sai.

Tu sai tante cose

perché hai il gusto e l’olfatto delle cose:

poche, ma buone e al momento giusto.

Tu non parli il greco e il latino,

non conosci l’inglese e l’arabo,

il russo e il cinese,

ma hai mille e mille altre virtù,

come diceva Giosuè ai cipressetti di Bolgheri

e alla sua Tittì che piangente l’aspettava.

Tu sai sculettare di sbieco e di squincio

sulla strada che porta da Detroit a Santafè

passando per una mitica Cefalù,

sai balzare da una sponda all’altra di oceani maldestri

per accalappiare al volo un cefalo sciocco

da arrostire dentro un cartoccio argentato.

Tu sei per me una presenza inquietante,

un ectoplasma girovago e clandestino dentro un castello medioevale,

un inciucio etologico tra professori illustri e gattofile massaie,

un insulto all’homo sapiens e ai facsimili cosiddetti,

un nobile puttaniere da bordello di Malta

che aspetta nella Marina di Ortigia il panfilo delle belle ragazze

per attraversare il siculo canale

tra acide tempeste ormonali

e schizzi volanti di piscio maleodorante

incisi sui bianchi muri della mia modesta e modica magione.

O gatto infame e in odore di mafia,

lasciati sognare con la libido genitale in corpo

e con gli investimenti psicofisici giusti e naturali,

lasciati adorare la vecchia pellaccia rossa e bianca,

linda e tersa come le trippe del megastore dei nuovi dettaglianti,

lasciati onorare sul tuo altare di solitudine

con le penne al vento degli sciocchi bersaglieri

che sempre corrono e mai si fermano,

come i pompieri di Viggiù che quando passano i cuori infiammano,

lasciati afferrare con le cariche di bellezza dei tuoi irruenti atomi

destinati a un obbrobrioso spezzatino di manzo e maiale,

lasciati blandire con le solite litanie di nonna Lucia

e delle vecchiette intrepide e sempre in lutto

che nella chiesa di san Paolo celebrano i loro nobili trofei.

Lasciati fare e lasciati servire, o gatto delle mie brame!

Sai che non sono buddista e tanto meno cristiano.

Mi porto dietro qualcosa di arabo

da sotto le sottane di mia madre

per la solita paura di essere lasciato da solo

a ballare il paso doble

in un convento di frati o in un collegio di suore,

come gli orfanelli politici del Fascismo e delle sue guerre intelligenti.

Sai che preferisco camuffarmi da ebreo errante

solo perché mi piace andare in giro su evanescenti vascelli

e non perché sono convinto della bontà

di questa logorata e logorante giostra religiosa

dei cavallucci penduli e impennacchiati

e delle macchinette appositamente gommate per lo scontro.

Io,

di mio e d’altrui,

non credo a quello che vedo.

Figurati se mi abbandono a quello che tocco!

Non sono mica Masino,

il direttore della nuova novella 2000,

non voglio mica la luna,

come la cantante dal fiore liso.

Io sono soltanto un assaggio del linguaggio del Verbo,

un misero cumulo di parole a tinchitè

che oggi ti sparo con la mia scacciacani nuova di zecca,

io sono un bossolo verbale

che ti arriva prepotente addosso

soltanto per amore e per rispetto,

che a te chiede e da te vuole sapere la verità,

l’aletheia,

quella che non si nasconde dietro quello che si vede,

il noumeno nel culo del fenomeno.

Io voglio sapere chi sei in persona,

o brutta bestiaccia

dalla lingua ruspata tra rosee labbra

che penzola da due occhi serrati

e dondola tra le meraviglie dei soliti due occhi di verdastro incantati

e conditi con scaglie di pistacchio speciale di Bronte.

Io voglio ancora sapere perché,

quando arrivo,

tu mi senti,

mi vedi,

fai la tua pipì sul mio davanzale

e fuggi nell’eden dell’ameno Carancino

mostrandoti ai miei occhi increduli e incerti

nella forgia del severo padrone di un lindo b&b

deluso dal suo ospite ingrato

che gli ha fregato la trombetta a sonagli

e gli asciugamani colorati da bidet,

arrabbiato con il governo ladro di polli

e fornitore indiscusso di pampers televisivi agli incontinenti.

Perché questa insolenza d’amore e odio, o mio gatto preferito?

Merita tutto questo Salvuccio Sinagra, detto padre Carnazza?

Non pensi che meriti di peggio?

E poi, perché fuggi?

Non vuoi mostrarmi i tuoi occhi appiccicati dall’umore delle lacrime

e arrossati dal siero di un pesante raffreddore da fieno?

Tu sei un signore sensibile,

ancor prima di essere gentile

e allora giri,

rigiri

e non ti lasci corrompere dalle nuove fattezze

che i tristi tempi impongono dall’alto di un Comitato scientifico:

la mascherina di gran moda e la distanza di sicurezza,

l’assembramento fuori moda e fuori stagione,

il cu futti futti e dio pirdona a tutti,

i dindi,

i tanti dindi che non piovono mai e abbastanza

sul desco fiorito di occhi di bambini,

i skei,

i tanti skei che cadono sempre sul bagnato

per la voracità dei soliti ignoti

che mangiano e cagano continuamente le polpette di zio lupo,

per l’accidia degli stenterelli

che non conoscono la lingua patria

e parlano alla Jacques,

senza capirci un cazzo e tanto per dire.

E dove mettiamo

i soliti narcisi che hanno ingoiato una superba caretta caretta

che è rimasta proprio sullo stomaco

e le varie e vaste mele al sole in attesa di disidratarsi

con lo spaghetto tra le labbra grandi e piccole

sulla sabbia dorata della spiaggia di una pazzoide Avola

tra cosce cadenti e lune pensanti,

tra mandarini tardivi da sbucciare e mandorle amare da gustare,

tra carati di carrube e intingoli di creme alla marinara.

Vedi cosa mi tocca vedere,

o gatto delle mie brame,

o gatto delle mie speranze perdute in un cesso pubblico

del lindo autogrill dell’autostrada

che da Firenze Scandicci porta ad Arezzo nord,

da Matteo l’evangelista ad Amintore il chierico!

Ormai si sa anche nel quartier del Piave

che tu sei un gatto codardo e infingardo,

una bestia rara senza stivali

che salta su un olivo antico

per nascondersi agli occhi delle gentili donzelle

che al tempo giusto bramano i cingotti,

quelli che hai ben sistemato ed esibisci prima della coda,

quella coda che non mordi e non rincorri più

da quando hai capito il bello e il ballo della vita.

Altro dirti non so,

credimi

e credi sempre al tuo persistente Salvuccio Sinagra,

detto padre Carnazza,

e alle sue parole sparse noiosamente allo Scirocco

e riprese al volo da quel severo Libeccio

che di certo non benedice quello che tocca

con le sue sonore frustate di bianco vestite

tra i massi di languido calcare

e pronti per un anonimo e tisico scalpellino

che rifonderà il Barocco

attendendo la silicosi per sé e per i suoi dodici figli.

“Piero Pierin,

Piero Pierin,

Piero Pierot,

nel caffellatte io ci intingo i tuoi cingot.

Il gattone me lo mangio con la panna e col giambon,

Piero Pierin,

Piero Pierin,

Piero Pieron.”

Salvatore Vallone

Carancino di Belvedere, 16 settembre 2020