POESIA IN FA MAGGIORE

Adorata e fermentata Antonia,

mia Antonia indorata e fomentata,

pillola agognata e nutrimento ad hoc

per i crudi nel cuore e nelle carni,

è Fernando che ti scrive,

il tuo Fernando,

Fernando il Savio,

nostromo dell’Hispaniola e Re di tutte le Hispanie,

e ti parla come il Grande Giovanni

di quel Tempo che verrà,

l’annunciatore in tv e in press

dell’avvento dell’Apocalisse

e del ritorno del Verbo

per mietere il loglio

e fare finalmente un buon pane di casada

con il nostro grano quotidiano,

un Fernando Giovanni che non sa chi tu sei,

chi ti ingloba

e ti satolla tra le sue spire vitali,

chi gode dei tuoi ardenti baci

e compra le tue cartoline libiche,

di quella Libia che non c’è più

e dove ancora dorme mio fratello Giovanni,

non quello di Ugo,

quello di Salvatore,

un Fernando Giovanni che ben sa sulla sua pelle

quanto di giorno tu turbi i sonni miei

con i deliri quotidiani di tante vere e vane verità,

russe e non russe,

antirusse e filorusse,

condite con le mille vanità di journal et journalistes,

con le pose antiche di Senechi e di Seneche

in attesa della volontà perversa di Nerone

durante l’ultima sciocchezza quotidiana

inferta allo schermo lucido di rate senza interesse,

con le movenze truffaldine di una Mafalda in ghingheri,

di una donna che non so chi sia

quando si sposa con il turpe Narciso

e si accoppia con le sue mille bellissime immagini.

Io non so chi tu sei,

ma Tosca mi sembri dalla tua favella del tempo di mezzo,

in questo Mare di mezzo alle Terre emerse e scomparse,

in questo Atlantide crollato dopo l’ultima barzelletta sui caramba

recitata agli amici dal Puffo Paffo inpiduato,

la rovina d’Italia postcraxista e pulita nelle mani,

pur sempre ricca d’ignoranza e di ignoranti,

di netturbini imboscati e di spazzatura immobiliare,

Tosca tu sei

e vieni dalla regione aulica dove il Sì suona,

dove si posa e si deposita in quella favella disonesta

alla qual, forse, io fui troppo molesto e maldestro,

nonché inetto, indolente, accidioso, incurioso.

Ma se le mie parole esser dien seme

che frutti infamia alla tua persona,

mi vedrai urlare e lagrimare insieme

e insieme alla premiata ditta Pippo & Paolo

in quel paese in cui la nonna Pina,

famosa con i caroselli danteschi

e fumosa con le sue mannaie di terracotta,

ancora impasta le tagliatelle con la farina dell’Ucraina,

dove ancora ti danno del tu e del ti

insieme a un maschio e una femmina a volontè,

come democrazia rousseauiana vuole

e impone con tanto di gentilezza e di buona crianza.

Adorata e crogiolata Antonia,

non curare la mia punteggiatura,

non emendare la mia eccelsa Logica,

non censurare i miei sensi e controsensi,

io sono vittima insana di dissennatori acuti e persistenti,

piacciati di restare in esto loco,

piacciati di liberare le affannate anse

che divulgano quelle verità umide

che si nascondono tra le tue sapienti cosce,

sempre disposte a non far niente con un maschio,

come le donne fasciste di quella volta in cui

io provai a chiedere un contatto del mio tipo.

Ebbene,

mia cara Lucia,

tu mi hai respinto,

mi hai bocciato,

mi hai scartato,

quella volta tu mi hai respinto, bocciato, scartato.

Allora e soltanto allora mi hai detto

che tuo zio abitava da quelle parti

e che, se ti avesse visto con un giovane ragazzo lindo e savio,

ti avrebbe ucciso insieme a lui

per la quotidiana e normale pratica della violenza

in quel mondo di terroristi malvagi,

di uomini poveri in camicia di un tetro colore

e di donne in cammino chirurgico

verso la maternità di un maschio migliore.

So che sei rimasta incinta di un mio bel pargoletto

durante quel san Lorenzo che ti ha portato in cielo

tra le mille e mille fiammelle fatue di un cimitero extraterrestre.

Fanne tesoro

e custodiscilo in saecula saeculorum.

Amen.

Salvatore Vallone

Carancino di Belvedere, 15, 05, 2022

GOVERNO LADRO

Piove,

oggi piove anche sull’Impossibile,

omnia non potest in omnibus rebus,

deus ex machina sine iniquis temporibus quiescit,

piove sull’impostura salmastra ed arsa,

sui vestimenti cinesi del bazar di Chi a Zè

vestita d’anoressia in taglia quarta all’insù e all’ingiù,

sine terga,

senza chiappe,

insomma,

piove sui freschi meloni di una donna mulatta

in cerca di avocado nel bazar di via del Campo,

cade sabbia gialla sahariana dal cielo amaranto,

un cielo rosso sangue

come la camicia dei garibaldini di Giuseppe,

come le mutande marxiste-leniniste della nonna Lucia

quando cantava imperterrita e gaudente l’Internazionale

aspettando il marito Giovanni appena partito per l’America,

seduta davanti alla toletta nera di mogano antico,

là dove aveva appena recitato la santa messa

nel suo latino maccheronico

e condito con il ragù di donna Ciuzza,

le patate affettate e messe a solaio

nella pentola d’argento luminosa di mia madre Tita.

Anche il Cielo ci ha abbandonato

in questa deriva della nostra esistenza

e del rimanente da vivere

con la parsimonia di colui

che ha anche risparmiato sul proprio seme,

di colei che ha contato sin da piccola le proprie uova.

Cosa ci resta di questa splendida giornata

velata con la veletta rossa prima delle nozze arabe

di una bambina promessa a suo tempo dal nonno e dal padre

ai briganti della tribù dei Bungabunga,

una giornata turbata dai tanti diamanti

ritrovati nelle tasche dei già e sempre nullatenenti

in bolletta con il fisco

e in fiasco con le bollette della luce e del gas,

dell’acqua e della fogna,

della spazzatura e del senso civico.

La Morale del pudore è normale

in questo giorno di pioggia rossa del Sahara,

come la Civiltà è in regola con i pagamenti

e tribuisce a ognuno rose rosse provenienti dall’Est.

Mi porterai al ristorante delle stelle,

più di cinque per favore e senza buffoni,

mi comprerai una rosa blu da tatuare sul petto villoso

e mi dirai maschilista nell’animo e nel corpo.

Io non sono famoso,

ma abito in un’isola fiera della sua decadenza.

 

Salvatore Vallone

 

Carancino di Belvedere, 22, 05, 2022

 

MISTURA

La sera fresca bruiva con le sue parole tiepide,

parole fuggitive fruite in forma di commiato lacrimoso

in questa strana primavera di Libeccio bellico

che è veramente un primo tempo alla francese,

printemps a rien ne va plus jamais,

in questa sera operosa del dì di festa

vissuta alla finestra del cortile antico di Alfred,

consunta in famiglia tra le Asteracee,

il cardo minore,

buono per il cuore,

il cardo saettone,

buono per il fegato,

il cardo dentellato,

buono per lo stomaco,

il cardo rosso,

buono per il sangue,

il carduus siculus,

buono per tutte le stagioni,

nonché il cardo mariano,

buono per i miracoli,

bollito prima che il frutto si esalti nel fiore,

il fiore blu come la rosa di Michele,

l’oggetto del mistero innamorato dell’impossibile.

E’ tutto all’incontrario in questa sera rusticana

trascorsa con solerte cavalleria sicula

insieme alla bella e procace Lola

e al magico e terrestre compare Turiddru,

senza il solito cornuto di don Alfio

sullo schermo lucido di serale follia,

senza essere necessariamente soli sopra questa terra,

tanto meno trafitti dai raggi obliqui del sole saputello

anche se la sera puttana arriva sempre subito

e in qualsiasi strabenedetta stagione.

Joe lo sa

e canta a squarciagola da uno sgangherato grammofono

per i poveri nel corpo e i senza spirito della via Resalibera.

Era Natale,

il giorno della carne bollita con le polpettine di nonna Tita,

l’occasionale rinascita dei furori ardenti ed eroici

per quello squarcio cosmico di miseria antica e disonesta

che si spaccava fino al quartiere degli Ebrei.

C’era la guerra,

c’era la pace,

c’erano la guerra e la pace,

c’eravamo noi,

i figli del conte e del marchese,

gli eredi dei Gargallo e dei Pupillo,

io e te ignoti a noi stessi e ai nostri simili o affini,

tra un ballo lento e un twist scatenato,

tu che finivi sul divano per eccesso di foga,

la giovanile irruenza di chi nulla si aspetta dalla vita

e tutto pretende dagli altri,

quei simili dissimili e quasi identici.

Beatrice era di Dante,

Laura era di Francesco,

Fiammetta era di Giovanni.

Restava Lucia per ogni evenienza umana e inumana

in questa guerra disumana tra poveri bottoni

da espiantare dalla logora giacchetta della domenica,

per giocarli in quel gratta e vinci degli esperti kamikaze.

Ma Lucia era di Lorenzo il fesso,

era una sposa promessa,

era in piena peste all’italiana

tra virologi e giornalisti,

tra politici e papponi,

tra monatti e untori,

era nel Lazzaretto delle mie brame,

era nel più squallido reame di Gianbattista

in via del Corso e del Ricorso storico

a perpetuare la specie e la stirpe

in questa domenica odorosa di manzo lesso

e di cardi amari come la sfiga latente

che ormai non si nasconde

e si manifesta come le parole del tuo sogno

quando al mattino mi racconti di te e dei tuoi tatuaggi.

Di te dicono nel giro che ci stai

e che fai tutte le cose previste nel codice dei cencelli,

il kamasutra degli arricchiti sotto gli occhi socialisti

di quella Milano da bere e da vomitare subito

a che più oltre l’Uomo vero non si metta.

Una notte da leone vale più di una messa

cantata sotto il Portico dipinto di Zenone e dei suoi seguaci,

sotto un sole greco che si taglia a spicchi

come il melone retato di questa laboriosa Pachino.

Domani è un altro giorno,

la sera che bruiva sarà già passata

anche tra i cipressi e i cipressetti

che dal cimitero vanno verso Floridia in un solo filare.

Domani si vedrà.

 

Salvatore Vallone

 

Carancino di Belvedere 20, 05, 2022

 

 

IL CIELO

L’universo è selvaggio

come l’uomo rosso di latta,

altro che ordinato e perfetto

come l’uomo bianco di una volta.

Quello sì che era un uomo,

quello di Primo in Torino

e di Adolfo in nostra sora terra di Alemagna,

quello di Ecce homo o come si diventa ciò che si è,

quello del matto Friedrich Wilhelm

che abbraccia le cheval in Turin.

L’universo è entropico

come la città di Aretusa,

casino su casino in strade fatiscenti

e in cervelli post archimedici,

altro che armonico ed equilibrato

come l’uomo greco di una volta,

quello che non peccava di ubris

e non disturbava le proficue scopate di Zeus,

quello che non danzava nel bosco futurista

e non sbranava il povero capretto di Dioniso.

L’universo è fuori di testa e imbrogliato

come un matto savio sulla via di Damasco,

è cattivo

come l’homo homini lupus di Machiavelli e Hobbes,

è ferino

come i mangiatori dell’agnello pasquale

con le patate rosse novelle di Bologna

e le cipolle bianche antiche di Giarratana.

Ma quale universo?

Amore, amore, amore,

non c’è più pellet per scaldarti il cuore e il culo

in queste funeste e funeree giornate di ordinaria follia.

Fuori tutto è magnifico,

dice la dolce Francesca da Bassano,

quasi svarionato,

dice la meravigliosa Sofia da Bergamo,

non c’è un pallet di pellet in nessun mercato,

super o mega,

di questa striscia di terra

baciata dagli dei siculi e sicani,

greci e fenici,

romani e cristiani,

arabi e normanni,

svevi e spagnoli,

savoiardi e italiani,

beati Paoli e cose nostre,

minchioni a cinque punte,

leghisti a buon mercato.

Chi più ne ha,

più ne metta

in questo lurido albergo a cinque stelle,

in questo mondo dei puffi e dei buffoni.

E noi?

Cossa fene noialtri?

Non ci resta che andare alla Marina sul far della sera

a vedere il meraviglioso tramonto

della nostra povera stella ammalata,

questo sole

che si sta spegnendo in un bagno di lacrime incandescenti

insieme alla madonnina di gesso del santuario,

questo sole

che muore di covid 19 dentro un ricovero anticovid

che funziona alla siciliana,

come i cannoli di ricotta e cioccolata

nella psicoterapia dell’anoressia.

Non ci resta che Vladimiro,

l’oscuro come Eraclito,

per avere un po’ di umano calore,

per un pallet di pellet omologato

e al dolce sapore di faggio,

intriso dei dolciastri effluvi

nella sempre atomica centrale di Chernobyl,

già saltata in aria in illo tempore

come un ramoscello della pace all’olivo

durante le grandi e le piccole Dionisiache

dei soliti santoni nostrani in tuta mimetica

e delle solite baldracche vostrane in costume carnascialesco.

Guarda,

o damigella vestita in luminoso tailleur,

giallo come la paura e la gelosia,

la desolazione anfibia marinara

e la fatiscenza atavica di questo ricettacolo patriottico,

fulmina il quadro terrestre e celeste

come un’aquila dell’acuto Montecitorio

e trema con i visitatori incauti

come un parkinsoniano appena in fiore.

Un pianeta è solo,

è senza la sua stella,

è stato abbandonato nel cosmo

dalla madre ignuda e a gambe aperte,

dal solito padre ignoto

andato sul fronte a belligerare e a stuprare.

Un altro pianeta si è perso negli spazi interstellari

tra tante madri sogghignanti e senza cuore,

tra tanti padri fottuti dalla tubercolosi a furia di fottere

e ingravidare le pulzelle indifese e virginee di Orleans.

Che generazione malata nel corpo e nella mente!

Che stirpe indegna di celebri avi e di tante ave!

E tu dove sei?

Dove sei finita?

Tu sei alla deriva nella nostra galassia,

fluttui nella via Lattea senza una stella ospite,

senza una stella che ti accoglie,

ti abbraccia

e ti lascia riposare su un giaciglio di polvere,

la polvere delle stelle,

la polvere del cosmo che fa sempre un leggero rumore,

la polvere sul comò antico di mogano della mia nonna Lucia.

O nonna, o nonna,

nonna iuventina vestita di nero e di bianco,

cantami la nenia religiosa del peccatore e del peccato,

recitami ancora la santa messa sopra la tua toletta del 1881,

introibo ad altarem dei,

ad deum qui letificat iuventutem meam,

sollevami al cielo

come fece il padre di Kuntakinde,

dimmi che sono sceso su questa terra

soltanto per puro amore e non per sesso,

non per sgraffignare il companatico senza il pane,

non per far saltare gli ospedali di Mariupol.

Ogni universo ha bisogno di Mary Poppins,

un poco di zucchero e la pillola va giù,

di una madre

surrogata al cioccolato amaro delle Antille francesi

e affossata nello spazio vuoto di due braccia ormai sterili,

di un grembo da tempo andato in stramona.

Appena nato,

ho brillato anch’io di un calore residuo nel mio cielo

al calduccio astronomico di colori sorgenti di luce,

rogue planets,

io,

un oggetto sfuggente al suo passato e al suo destino,

sottratto alle Moire come il figlio di una dea puttana,

Afrodite nel mar Ionio intrisa dello sperma

di un Urano senza fallo,

io,

un soggetto esente dal grande Nulla,

presente e vivo in un universo vuoto

ed emergente dalle onde di questo greco mare

da cui vergine nacque quella Venere di dianzi

che fea quest’isole feconde con il suo primo sorriso,

io,

un uomo che abita la sferica regione del globo terracqueo

contaminata dal napalm americano e dal plutonio russo,

un uomo cullato in tante galassie

disposte come una ragnatela gigante,

un poeta benedetto che razzola gallinaceo

in questa enorme stalla di anime

dannate dal pope e dal papa.

Ognuno ha i suoi ragni.

La tegenaria domestica e il pholcus ballerino sputano nel cosmo

i loro escrementi sacri al filo di seta antica,

quella cinese di Marco Polo da Venezia,

avvolgono strutture barocche di rara perfezione

e con i filamenti rococò di un ossobuco

ancora umido di cipolle e di carote,

adornano ammassi di galassie in concentrazione spersa

condite al pomodoro ciliegino rigorosamente di Pachino,

si ritrovano tra grandi affetti familiari

e illegalmente costituiti

attorno a un desco fiorito di rosse lingue di fuoco

ed enormi vuoti ripieni di menzogne lapalissiane,

quasi un Supervuoto di mini vuoti cerebrali

indignato del suo essere quel Tutto

che turba la Scienza

o quel Nulla

che è sempre un Qualcosa.

La Guerra non c’è,

non c’è la Pace,

la Guerra e la Pace non ci sono.

Ti prego,

cara Jean Rhies,

di non raccontarmi balle,

specialmente adesso che la Moskva è colata a picco

nel tuo vasto mare dei Sargassi.

Ti prego, animula blandula!

Dal dolore ne morirei.

Morirei di dolore.



Salvatore Vallone



Carancino di Belvedere 15, 04, 2022

DEDICATA A MIMMO LUCANO

Carissimo,

verecondo,

anima pura,

è vero,

è proprio vero

quello che oggi dicono i vecchi:

il segno dei tempi è orrendo”.

Viviamo in un disumano reale

che ci consuma momento per momento

secondo le regole assurde di un bieco assassinio,

di un lento suicidio,

di un linciaggio mediatico,

di uno spread immane che tende all’infinito,

che tende,

che tende

e mai va giù,

come la torre di Pisa ancora oggi.

Quanta tempesta per le carrette dei mari!

Quante giovani vite, profughe e diseredate, condannate a morte!

Quanta infanzia negata e rubata dall’infamia solerte dei moralisti!

Quanta gioventù annegata in una pozza di mare fognante!

Quanta vanagloria per politici e giornalisti in tivvù!

Quanto amore tra le tue braccia immense e illegali!

Mimmo,

Mimmuzzu,

gioia ri lu me cori,

anche Tideo e Anfiarao da Argo ti battono le mani di bronzo.

Quando ritornerà il sereno in questo paese di plastica,

in questa terra governata da ignoranti

venuti dalle stalle e saliti alle stelle,

le caretta-caretta depositeranno le uova

anche sulle spiagge arenose della Calabria,

là dove un uomo osò,

come le vere aquile,

andare incontro al disumano esodo,

aprire le arterie del cuore,

simile simili cognoscitur,

abbracciare il fratello e la sorella,

come nei trasgressivi Evangeli,

come negli umani Manoscritti di Karl,

come nelle ampie tuniche di Teresa,

come nelle parole accorate di nonna Lucia.

Omnia munda mundis.

Cerca solo di star bene,

o amico del mio vecchio cuore.



Salvatore Vallone



Carancino di Belvedere 20, 03, 2022

APPUNTI DI VIAGGIO

Camminavo per caso tra i vicoli della Giudecca,

il quartiere degli Ebrei

quando gli Ebrei abitavano in Ortigia

e frequentavano i loro bagni.

Pensavo alle parole come segni colorati per un quadro,

come segni colorati di un quadro.

Il poeta è un pittore.

Pensavo che io sono un pittore

che non frequenta accademie e botteghe,

che non compra alcunché,

che tutto regala.

Mi imbatto nell’antro di un pittore siracusano.

Mi fa vedere l’opera di tutte le opere

e mi parla della sua enorme tela su Lucia e Siracusa.

Vi lavora da due anni e mezzo.

Lux fiat et lux facta est.

Lascio un pensiero scritto sul vanitoso quadernone grigioperla.

La Giudecca mi inghiotte,

Carancino mi accoglie.

Ed ecco che tu mi dici del quadro,

della tela e delle mie parole,

del poetapittore.

La magia esiste.

In due giorni il poeta e il mago si sono meravigliati

del ritorno del sentire romantico:

il poetamago è meglio del poetagenio.

Un’acquasantiera senza aspersorio non esiste,

neanche nella puritana chiesa di san Filippo.

Ti apprezzo.

Sì,

la magia esiste.

La mente e il cuore umani hanno soltanto bisogno

di non essere sedati dalle blandizie di una comodità ordinaria,

hanno bisogno di allertare sempre i sensi,

di muovere i flussi,

di spostare gli influssi,

come fanno le vecchie zingare

quando leggono le autostrade della tua mano.

Fiat lux:

se ci pensi, con due parole Dio ha dipinto il mondo.

C’è qualcosa di nuovo,

qualcosa di profondo e prima taciuto,

nel tuo quadro,

o Mago,

o Poeta,

o Pittore.

Aggiungerò ai tuoi i miei appunti di viaggio,

ma solo in qualità di modella in posa,

integra e integrale.

Sono un essere fuori dagli schemi,

mi meraviglio sempre.

A presto, o Fingitore.

 

Sava

 

Carancino di Belvedere 20, settembre, 2021

 

COME FACETTE MAMMETA

Aujourd’hui l’è arivada da Venessia Lusia

con le sue quattro ossa ados

e le sue quattro strasse in de a valisa,

senza i pozzi petroliferi del Texas e gli eurobond de Bruxelles,

senza i bitcoin fantasma e i schei colorati del monopoli.

L’è arivada netta e cruda come una partita iva

in attesa di foraggio e in odore di formaggio,

senza valori aggiunti,

senza valori detratti,

tutta quella che vedi e che tocchi,

Lusia la buona,

Lusia la brava,

Lusia la bella,

quella delle tre B,

quella non rifatta dal botulo e dal silikon,

quella che non abbisogna dello Svitol,

quella oscura nel viso e nel corpo,

mai limpida,

sempre contaminata nella testa e nella mente,

quella che non va dalla Lily e dalla Barby

a menare il can foresto per l’aia,

quella che non è assicurata con la Juventus

e non va allo stadio dell’infida e crumira Alleata.

Noi siamo i so fioi,

i figli di Lusy,

i so putei,

i suoi gioielli,

noi siamo quelli dello sciscì,

quelli che in questo mondo non hanno alcun perché,

alcuna voglia di fare un cazzo di niente e niente di un cazzo,

un mondo che non ci vuole più,

che non ci ha mai cagato,

che ci ha sedotto in un cesso pubblico a 5 stelle e a 5 canali,

gli accidiosi alla Dante e gli annoiati alla Arthur

che aspettano il suicidio al dolce sapore dell’eutanasia,

quelli dell’amore che può colpire anche te

dentro un frac attillato e pronto per la Scala de Milan,

la metropoli del pan de Tony,

quello delle tre marie che aspettano i tre cristi

dentro l’involucro di un avvenente cartone,

quelli del frac a pinguino che ci tormenta una cifra,

mentre le scarpe dei Cinesi fan cic ciac,

fan cic ciac

e noi che cerchiamo il ritmo giusto per l’amor,

possibilmente con una donna e con un uomo,

come li ha fatti mammeta,

come li ha fatti Siena durante l’antico Palio del torrone e del panforte,

come li ha disfatti Maremma con le sue zanzare malariche.

Tutto questo io u sacciu meglio e te,

comme facette mammeta,

comme mammeta t’ha fatto

senza essere inanellata e disposata con alcuna gemma,

comme facette Lusy,

l’australopithecus afarensis.

Salvatore Vallone

Carancino di Belvedere 15, 12, 2021

TUTTA COLPA DI TUA MADRE

La montagna non fa per me e il mare mi deprime.

Vivevo con la mia famiglia in una verde collina di Treviso,

un paradiso chiamato Col San Martino,

e non vedevo l’ora di scappare dalla mia famiglia e dalla mia collina.

Esco, allora, da questa famiglia ed entro in un’altra famiglia,

ma la cosa non funziona.

Scappo da questa collina e mi ritrovo in un’altra verde collina di Treviso,

un paradiso chiamato Tarzo,

ma la cosa non funziona.

I confronti sono inevitabili, ma non quadrano mai.

Avevo l’idea di star fuori finalmente dalla mia famiglia e dalla mia collina.

Poteva succedere e lo speravo.

Anche il calcolo delle probabilità era dalla mia parte.

Era previsto che poteva succedere.

Quanto egoismo da proprietà privata!

Tutto questo succedeva grazie a te, mio enigmatico uomo.

La tua famiglia m’intrippa,

la tua collina mi disorienta.

Vuoi loro o vuoi me?

C’è sempre da dire,

da ridire,

da discutere,

da cosare,

da brigare,

da litigare.

Mi dispiace, ma tutto ha un limite.

Si può arrivare fino a un certo punto,

dopo scatta il divieto di circolazione,

dopo scatta il divieto di accesso.

Io mi devo difendere.

Non si può dire tutto,

non si può aprire il bagagliaio agli sconosciuti.

Io potrei scendere dal tram

per evitare le interferenze disturbanti dei tuoi parenti serpenti.

Tu mi chiedi di capire, ma non c’è niente da capire.

Io spero sempre

che questa sia l’ultima volta

che i tuoi mi disturbano con le loro stronzate di merda.

La verità è che io sono allergica all’istituto famiglia.

Non ho sopportato e non sopporto la mia famiglia

e, allora, figurati se digerisco la tua.

Non voglio essere ospite da nessuna parte,

non voglio il ruolo di ospite in alcun caso.

Una parte di me, purtroppo, mi dice

che non riesco a vivere da sola.

E allora?

Allora vorrei e non vorrei,

credimi,

ma io non faccio parte di questa tua famiglia

e tanto meno di quella che mi proponi di formare,

la nostra,

tutta nuova

e tutta da costruire secondo le regole del “facciamo da noi”.

Questa non è libertà.

Questa è bieca improvvisazione.

Sono senza entusiasmo e sensibile alle bidonate.

Questo tu lo sai.

“Vediamo soltanto come va”, tu mi dici oggi.

“Non creare tensioni incomprensibili agli altri. Vivi e lascia vivere.”

Così tu mi continui a dire.

Io lo so,

io so già quello che mi dirai domani

perché me l’hai già detto ieri.

La vera verità è che sei attaccatissimo a tua madre,

che non vedevi l’ora di tornare da lei insieme a una donna

per darti una veste di quasi normalità,

ma il morboso legame tu non lo sai nascondere,

lei non lo sa nascondere

e a me non resta che assistere alla vostra sordida tresca.

La tua intimità con lei mi dà un fastidio enorme.

Ti sei fottuto la libertà

perché lei ti prepara la vita

sotto la forma di una minestra e di una finestra.

O mangi o ti butti giù.

Il mio non è egoismo,

il mio non è bisogno di possesso.

Io possiedo la verità.

Tu sei attaccatissimo a tua madre.

E allora io chi sono?

Vuoi me o la tua mamma?

Ma siamo due cose diverse,

mio emerito ignorante,

mio povero deficiente,

mio nobile impotente.

Io dico e ridico,

ma tu non capisci

e vuoi stare seduto su due sedie

a testimoniare il tuo attaccamento morboso

a chi ti ha soltanto procreato per necessità biologica

a confermare il complesso di Edipo per i dizionari di scuola psicoanalitica.

Ma io sono la tua donna,

io sono la tua promessa sposa,

io sono la tua Lucia Mondella,

mio caro Lorenzo Tramaglino.

Ma cosa t’importa?

A te tutto questo non tange.

Tu vuoi da me un’amicizia libera,

un rapporto senza indagini e al di sopra di ogni sospetto.

No!

No, mio caro coglione, io scendo dal tram.

Io scappo perché non ho smanie di nessun tipo,

non ho l’elasticità mentale che si richiede ai moribondi,

non ho la rassegnazione eroica dei morituri.

Io non ho nessuna intenzione di morire insieme a te per colpa tua.

Ti ricordi il capodanno dello scorso anno?

Che massacro di palle seduti sul divano,

incollati alla cosa luccicante e suonante

in quella tua casa con tutti i tuoi parenti e i tuoi affini,

costretti ad ascoltare il concerto della Filarmonica di Vienna

diretta dal maestro Ciccio Busacca.

Ma vaffanculo tu e i tuoi!

Vaffanculo tu, Ciccio Busacca e tuo zio Alfio Curcuzza, il pedofilo!

Quante scemenze!

Che orribile errore vivere in un cesso pubblico!

Io mi ero adagiata sulla merda

perché è già morbida di suo

e ci ero caduta per ignoranza e per comodità.

Pensavo e si pensava che da puzzolenti si stesse bene insieme.

Ma no, ma cosa ho pensato e cosa si è pensato?

Non parlare,

non discutere,

non litigare è la morte della coppia,

la tomba del cosiddetto grande amore

a cui tutti come tordi aspiriamo.

Noi si viveva in un caos di perbenismo, di tolleranza, di libertarietà.

Quanti elogi sperticati alla monotonia dell’apparente diverso!

Meglio stare alla larga per non aver pesi

e per raggiungere l’atarassia e l’apatia.

Ma se tu non parli, non si sa cosa pensi.

C’è chi parla troppo e non capisce niente degli altri

perché è interessato a dire soltanto di sé.

Se tu non parli e non mi parli,

allora evviva il veneziano ciacolone che mi fa sentir viva,

evviva il trevigiano millantatore che mi fa scoprire innamorata.

Ben vengano gli amici e gli amanti con cui far due parole,

con cui scambiare le merci preziose e gli accessori firmati,

con cui mangiare “poenta e osei”.

Ma oggi non voglio aver nessuno,

oggi non voglio stare con nessuno,

oggi voglio stare per i fatti miei.

In fondo io sono una donna solitaria e mi piace tanto pregare.

Per non lasciare il pensiero pensare,

io prego

e così non prendo il “lexotan”.

Ma quali aperture!

Quale disposizione all’altro, anche se intimo!

Nessuna!

Viva il silenzio e viva la libertà!

Quant’è bello pensare ai cazzi propri!

E tu?

Tu sei uno schiavo dalla pelle bianca.

Tu hai ancora bisogno di tua madre,

di un miscuglio di madre e di amante,

di un omogeneizzato di ruoli diversi.

Vergognati!

Ma vergognati, per favore!

Autonomia su, autonomia!

La tua vita è un sordido appiccicaticcio tra generazioni diverse.

La giovane è invecchiata e la vecchia è ringiovanita.

Io sono la tua donna e non tua madre.

E’ talmente evidente la cosa

che non abbisogna di parole e di test.

Meglio star zitti

e mettere a tacere la propria espressività.

Cancello dal mio volto le posture espressive per non tradirmi.

Tra quello che è e quello che non è, qual’è la misura?

Tu dove stai, tu dove sei?

Su e giù, di qua e di là,

tutto ti sembra,

“tibi videtur”,

nessuna verità,

nessuna certezza,

tanta opinione.

Quante “doxa”!

Ma chi siamo noi?

Chi siamo io e te che rincorriamo le “doxa” e le “aletheia”?

Una grande comitiva, una grande famiglia, un tutti insieme appassionatamente?

Che confusione epidermica!

Che striature sulla pelle!

Peggio del fuoco di sant’Antonio.

Necessariamente abbiamo litigato io e te

essendo infognati tra le “doxa” e le “aletheia”.

Questo è vero e giusto allo stesso tempo.

Ma un genitore tra me e te,

una madre in mezzo è disdicevole,

è immorale,

sta a guardare,

fa la voyeur,

fa male all’equilibrio mentale.

A suo tempo io ho detto e ti ho parlato.

Uomo avvisato è mezzo salvato.

Donna salvata non è stata mezza avvisata,

conosce la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità,

ha certezze.

Senza la fobia di spazi vuoti,

senza fuochi d’artificio,

i miei occhi non reggono i lampi

e si perdono in un palazzo veneziano,

antico e austero,

con stanze grandi,

con grida soffocate,

con urla inibite.

Gli specchi riflettono i soffitti alti del settecento

e nasce l’idea di traumi consumati nelle alcove e nei giardini,

idea paurosa dei primi tempi della mia vita

quando dovevo ritirarmi nelle mie stanze

per la paura che le porte si aprissero

costringendomi al coraggio di vedere camicie di forza e armature

al posto di un erotico body a losanghe

che lascia trasparire i capezzoli, l’ombelico e i peli del pube.

Quanta tensione!

Il mio stomaco adesso ha la gastrite,

bruciori intensi causati da involontari danni.

Non so, è tutto così strano!

E’ così strano sapere le verità fino a un certo punto

senza dover render conto a nessuno.

Nessuno che ti dice “redde rationem”

e alla fine la mia libertà va a finire tra le corna

che tu mi fai con tua madre.

Tutto va a finire in merda.

Che senso estetico!

Che chic!

Io danneggio tutto quello che tocco,

per cui rovinerò anche il tuo paltò di montone affumicato

e anche i miei ragionamenti oculati,

sconvolgendo i soggetti per restare sul vago

e lasciando i predicati sul fatuo, sull’effimero, sull’assente.

La verità è che tu e tua madre avete da tempo rovinato tutto.

Adesso è troppo tardi

e io ho altre cose più importanti da fare.

Le rinunce sono dei santi

e io, invece, pecco “fortiter” e non credo “fortius”.

Io ti mollo insieme alla tua augusta genitrice.

Tu dirai che tutto sommato è meglio così

e che è colpa della mia natura puttana di femmina caliente

e nient’altro.

Tu non aggiungerai nulla di altro.

Io, domani, sciando sulle piste innevate di San Martino di Castrozza,

ricomincerò la solita vita

con la libertà e la sicurezza delle mie cose usate.

Salvatore Vallone

Pieve di Soligo, 23, 06, 1999

DEDICATO A LUCIA

Avrei potuto incontrarti in un luogo qualsiasi,

con te sarebbe sempre stata la Giudecca o Ortigia

isole sospese in un miraggio,

mentre vanno lentamente alla deriva.

Eri un’isola anche tu,

avvolta nella luce del tuo sguardo

che decifrava i segni e le parole

per poterli fissare sulla tela,

tu che eri sempre sola in mezzo alle altre.

Hai sempre avuto il dono della visione.

Camminavi lungo la promenade,

lasciandoti alle spalle il Redentore,

le grandi chiese,

le orde di curiosi a bocca aperta

e lo sciacquio delle acque ferme,

mentre dentro di te capivi il mondo.

Non eri mai dove ti pensavo,

eri altrove,

nel tuo antro pieno di tele e di sogni.

Mi spogliavo degli abiti

e posavo davanti a te.

Il corpo perdeva la sua forma

e si trasformava in un disegno.

Rinascevo con nuove vesti

a coprire parole sciupate in rime semplici

come cuore-amore.

Non mi hai mai svilito,

mi hai dipinto

perché mi guardassero al di fuori della grande vetrina dei like.

Lo sanno?

No,

non lo sanno.

Lo so io

e vorrei tanto essere l’uomo della mia Lucia di Siracusa

anche qua,

in questa immobile Giudecca settembrina.

 

Sava

 

Carancino di Belvedere, 10, settembre, 2021

 

 

IL MIO COMPLEANNO ZEN

TRAMA DEL SOGNO

“Il luogo era un insieme della casa in campagna di mia nonna, di un monastero Zen e di un campeggio per artisti di strada in cui si allenavano con i numeri di giocoleria e costruivano amache e altre cose da vendere.

Lì viveva una comunità folta e l’atmosfera che dominava era di serenità e di grande equilibrio. Io ero arrivata da poco e abbastanza inaspettatamente e sentivo quel posto come la mia vera casa.

Erano i giorni attorno al mio compleanno. Lì c’era mia madre che sorseggiava una tisana e mi teneva la mano, contenta per il fatto che avrei passato il mio compleanno insieme a lei.

C’era anche una donna di cui sono stata innamorata nella vita lucida, che vive in Brasile e che non vedo da due anni, e io ero curiosa di cosa avrei provato a passare il giorno del mio compleanno insieme a lei.

Lei era molto sorridente e amorevole, come tutti là, ed era felice che fossi là. I sorrisi non erano mai espressione di un’allegria frizzante o esplosiva, ma come di una calma interiore, un’amorevolezza profonda e gratitudine.

Io e mia madre guardavamo la foto dei miei due fratelli maschi: erano seduti su un tronco e guardavano davanti a loro verso l’orizzonte con lo sguardo assorto, erano seri nel volto ma sereni, assolutamente presenti nei loro corpi.”

Io sono Lucia.

INTERPRETAZIONE DEL SOGNO

Il luogo era un insieme della casa in campagna di mia nonna, di un monastero Zen e di un campeggio per artisti di strada in cui si allenavano con i numeri di giocoleria e costruivano amache e altre cose da vendere.”

Lucia parla di sé in maniera gentile e garbata, come si conviene a una donna giovane che si trova sul cammino della sua vita a percorrere le strade che portano alla riflessione sulle proprie radici, sulla spiritualità elevata al Buddismo Zen e sull’arte dei giocolieri e dei “vocumprà”. Questi sono i tre pilastri su cui poggia l’esistenza in atto di Lucia, tre colonne su cui poggia anche la Sicilia nella tradizione popolare di Colapesce. La “nonna” è stata una figura importante per la formazione psichica di Lucia. Da lei ha mutuato lo slancio verso l’originalità o la tendenza a non massificarsi, nonché un buon pragmatismo e una altrettanto buona manualità. Arte e spiritualità attestano della “sublimazione della libido” da parte di Lucia come difesa dall’angoscia di vivere e il processo difensivo si riversa sulle spalle e sulla pelle delle proprie pulsioni erotiche e sessuali. La “casa di campagna” della nonna rievoca Cappuccetto rosso e le sue arcinote traversie, ma non mi dilungo in questo riferimento. Lucia è in preparazione di un evento da celebrare in questo luogo e insieme a questa gente, un luogo dell’anima nonostante le apparenze materiali, un luogo Zen, un monastero dello Spirito con i dintorni artistici e creativi tanto forieri della Bellezza e dell’Armonia. Anche attraverso il gioco e la “giocoleria” si arriva nelle sfere alte dei cieli e nei luoghi delle reincarnazioni. Ognuno ha il destino che si è scelto a suo tempo, come Lucia, la nonna, i monaci, i giocolieri, gli artisti di strada. Tutti abbiamo anche un’amaca su cui distenderci per la meditazione e su cui dondolarci in armonia con le oscillazioni dell’intero universo.

Lucia esordisce con le sue complessità psichiche e decodificandole si corre il rischio di banalizzarle. Comunque sorridere non guasta mai e soprattutto se si sa sorridere nel vero senso della parola e non lasciandosi suggestionare da temi antichi e moderni come la cocaina o l’oppio dei popoli.

Lì viveva una comunità folta e l’atmosfera che dominava era di serenità e di grande equilibrio. Io ero arrivata da poco e abbastanza inaspettatamente e sentivo quel posto come la mia vera casa.”

Dopo i trambusti formativi Lucia ha trovato un equilibrio psicofisico mettendo insieme il meglio delle sue esperienze vissute nel privato e nel sociale. “Quella serenità e quell’equilibrio” sono decisamente aspirazioni di una donna che è venuta appena fuori da una tempesta dei sensi e da un trambusto delle emozioni. Lucia si è acquietata e adesso ama stare in mezzo alla gente della sua pasta, persone creative e dalle forti tendenze a “sublimare” nell’Arte il corpo e i suoi annessi e connessi. Lucia “era arrivata da poco”, Lucia ha conosciuto altre turbolenze per poter affermare che quel posto era la sua “vera casa”. Lei stessa si meraviglia di questo approdo inaspettato in una comunità pneumatica dove domina “serenità” e “grande equilibrio”, tutto il contrario di quello che Lucia ha vissuto in precedenza e che volentieri vuole lasciarsi alle spalle. E’ evidente che Lucia si trova sulla strada di Damasco, la strada delle turbolenze magnetiche e psichiche, quella che volge all’incontrario tutto quello che l’attraversa, viventi e uomini compresi. Dopo una vita spericolata e vissuta alla grande Lucia sente il bisogno di convertirsi, volgersi nel contrario, di fare una conversione nell’opposto, dalla materia allo spirito, dall’esaltazione della prima all’esaltazione del secondo, dal processo psichico di difesa della “materializzazione” al processo psichico di difesa della “sublimazione”, difese sempre dall’angoscia esistenziale collettiva e dall’angoscia depressiva personale. Il sogno di Lucia si snoda per eccessi e non contempla una linea mediana su cui scorrere senza scompensi e salti mortali senza rete. Si presenta un “Io” pienamente consapevole del suo misticismo e di usare la “sublimazione della libido” come l’unica panacea della brutta esistenza e dei peccatori carnali. In ogni caso Lucia “sente quel posto come la sua vera casa” e allora non resta che visitarla con reverenza e con rispetto, visto che si tratta di una dimora ad alto tasso di celeste essenza.

Erano i giorni attorno al mio compleanno. Lì c’era mia madre che sorseggiava una tisana e mi teneva la mano, contenta per il fatto che avrei passato il mio compleanno insieme a lei.”

Continua la rassegna delle presenze psichiche di Lucia, delle persone particolarmente significative da ammettere alla sua visione e al mistico consesso. Le radici chiamano e chiedono la soluzione del tributo. Il giorno genetliaco di Lucia si festeggia insieme alla “madre”, la diretta responsabile di tanto travaglio e di tanta figlia. In precedenza era stata chiamata in causa la “nonna” nella sua “casa di campagna” per allietare questo sogno nel segno del Femminile e del lieto evento. Sono presenti tre donne, due mamme e una figlia; di uomini neanche l’ombra, almeno fino adesso. Una “madre” che “sorseggia una tisana” e tiene la mano alla figlia è una scena idilliaca e orientale, così come la “nonna” nel contesto bucolico risulta più casereccia del pane di casa e più concreta della bottegaia che vende il baccalà presso il mercato del popolo. Lucia costruisce in sogno atmosfere rarefatte e rilassamenti da nirvana o da fumatori di oppio. Manca la verve energetica in maniera direttamente proporzionale all’intensità delle energie investite nella precedente vita, meglio nel precedente modo di pensare e di vivere di Lucia. La fusione con la madre attraverso un cordone ombelicale adulto è una larvata dipendenza da questa figura anche se vissuta più come sorella e compagna di viaggio da parte di una figlia chiaramente cresciuta e consapevole dei suoi vissuti. La rievocazione della scena del parto è pronta e i festeggiamenti si snodano tra ricordi e nostalgie. La rinascita in vita come evoluzione spirituale si attesta nel compleanno che Lucia vive giustamente in compagnia della madre carnale. Dal corpo allo spirito il passo non è di certo breve e poco impegnativo, perché si tratta di anni luce da impiegare nel percorrere la linea dello “spaziotempo” proprio quando s’incurva. Il compleanno Zen merita tanta prosopopea in un locale dove si serve esclusivamente estasi e atarassia in versione chiaramente analcolica.

C‘era anche una donna di cui sono stata innamorata nella vita lucida, che vive in Brasile e che non vedo da due anni, e io ero curiosa di cosa avrei provato a passare il giorno del mio compleanno insieme a lei.”

E’ un sogno tutto al Femminile e secondo i dettami del “principio psichico femminile”. Adesso subentra “una donna di cui sono stata innamorata nella vita lucida”, la terza donna del sogno di Lucia. Questa figura rappresenta simbolicamente la “vita lucida”, la coscienza vigilante e la materia vivente, il “principio di realtà” e l’istanza psichica dell’Io concreto e pragmatico che usa la “libido” in maniera godereccia. Lucia è stata legata a questa donna secondo i canoni dell’innamoramento e della passione e conosce molto bene questo trasporto sensoriale e affettivo. Lucia conosce bene se stessa quando si è vissuta nella realtà di una relazione grassa e crassa. Di poi ha iniziato a sperimentarsi in questa nuova dimensione di “libido” sublimata e vuole condividerla con questa donna che nel recente passato aveva investito in pieno della sua originaria “libido”. Da buona e brava materialista, Lucia ha detto basta al corpo e ai suoi bisogni per risorgere nella spiritualità. Celebra il primo compleanno di rinascita in vita dopo la conversione alla pratica spirituale buddista Zen e vuole sperimentare i suoi sensi e i suoi affetti nella circoscrizione della “sublimazione”, nella nobiltà aristocratica dell’Arte e dello Zen. Quante nascite ha celebrato e celebra oggi Lucia? Sicuramente due, quella “materiale” e quella “spirituale” restando dentro lo stesso corpo. Ricordo che il Buddismo predica la reincarnazione o la rinascita. Quante volte è rinata Lucia, il sogno non lo dice anche perché non tocca questo punto metafisico della Filosofia buddista o del Buddismo, se vi aggrada.

Lei era molto sorridente e amorevole, come tutti là, ed era felice che fossi là. I sorrisi non erano mai espressione di un’allegria frizzante o esplosiva, ma come di una calma interiore, un’amorevolezza profonda e gratitudine.”

Anche questa donna, l’innamorata della “vita lucida”, è affascinata dalla presenza di Lucia in questa vita Zen e in questa comunità spirituale dove l’allegria non è fare bordello e disinibirsi sbevazzando, ma vivere la calma interiore. Lucia ha raggiunto un traguardo psicofisico veramente invidiabile perché è riuscita a ripulire dalla materia volgare le attività sentimentali e affettive. La bontà della “sublimazione” e la bontà della spiritualità si sommano in un ampio crogiolo orientale che rievoca società comunitarie avulse dai torbidi intrighi dell’Occidente. Lucia si è elevata dalla materia che in passato ha contrassegnato la sua vita e le sue scelte e dopo un processo di crescita si è riconciliata con se stessa e con gli altri. Ha visto la sua femminilità e l’amore attraverso la nonna, la madre, la sua donna e può esulare verso le pulsioni umane più nobili e può contemplare la verità profonda che governa l’uomo e l’universo.

Io e mia madre guardavamo la foto dei miei due fratelli maschi: erano seduti su un tronco e guardavano davanti a loro verso l’orizzonte con lo sguardo assorto, erano seri nel volto ma sereni, assolutamente presenti nei loro corpi.”

Finalmente Lucia tira in ballo l’universo maschile nelle figure “dei due fratelli” anche se in versione fotografica. La solidarietà madre-figlia si rafforza in questa prospettiva nostalgica che vuole i fratelli maschi in gran forma materiale e spirituale: “seduti, sguardo assorto, seri, sereni, presenti nei corpi”. Anche loro, pur tuttavia, sono stati sublimati dalla sorella e deprivati di quella umanità massiccia di natura libidica che connota due giovani uomini che hanno davanti tutta una vita da vivere e che puzzano di testosterone. Eppure Lucia ne fa due aspiranti al Buddismo e due asceti pronti alla meditazione, li colora nel volto di una tinta orientale che coniuga la serietà alla serenità, lo sguardo assorto all’orizzonte e vigilanti dentro i loro corpi. Non è, di certo, un’immagine goliardica quella che Lucia compone per i suoi fratelli, è un quadretto affettuoso e ben augurante in linea con l’atmosfera rarefatta e quasi perfetta degli asceti orientali che possono stare seduti su un tronco a guardare l’orizzonte.

Questa è l’interpretazione del sogno di Lucia nel giorno del suo primo compleanno Zen.

Alcune riflessioni sono importanti per meglio inquadrare il sogno di Lucia. Il prodotto psichico risente chiaramente della sua conversione al Buddismo Zen e al superamento della modalità di vita occidentale. L’ottica del sogno è prettamente femminile e la protagonista rileva con pacatezza le figure femminili che l’hanno formata a livello psichico e in cui si è in parte identificata in attesa di un suo personale superamento spirituale verso le alte sfere delle pratiche ascetiche dei monaci buddisti. La causa di questa evoluzione spirituale il sogno non la contempla, ma si può rilevare una vita pienamente vissuta all’occidentale da Lucia anche con innovazioni sul tema della coppia: amore saffico. Tutto il sogno è impostato sul processo psichico di difesa dall’angoscia della “sublimazione della libido”.

Un ultimo particolare non indifferente si attesta nell’interpretazione del sogno fatta da un occidentale prettamente materialista come il sottoscritto. Questo sogno doveva essere interpretato da un collega buddista che prontamente ho reperito. Questo è stato il suo lapidario giudizio: “il sogno è la chiara riflessione di Lucia sulla liberazione della sofferenza attraverso la meditazione e dopo la razionalizzazione della sofferenza stessa. Spirito e Materia si fondono in un tutto unico, olismo. Il Buddismo non conosce queste classiche differenze e opposizioni della cultura occidentale”

Io ho ragionato da uomo occidentale proprio usando la classica opposizione mente e corpo, psiche e soma, spirito e materia. Me ne scuso con Lucia e con i marinai.

Alla prossima e con la speranza che non mi capiti il sogno di un certo Siddharta Gautama da interpretare.