“Al
di là di quello che pareva l’orto della casa dei miei genitori, si
apre una grande distesa di acqua cristallina dalle sfumature
acquamarina.
L’acqua
sale e io sono in cima a un sasso che guardo l’acqua limpida
arrivare ai mie piedi.
Al
di là, giusto al confine di quello che era l’orto dei miei
genitori e questa distesa d’acqua, sento un miagolio.
Un
animale ha azzannato un gatto. Si tratta forse di un cane… e io mi
sveglio urlando con un senso di tenerezza dispiacere e anche un po’
di disperazione per quel mio micio che forse ha perso la vita…”
Ecco
il mio sogno!
Agata
DECODIFICAZIONE
E CONTENUTO LATENTE
“Al
di là di quello che pareva l’orto della casa dei miei genitori, si
apre una grande distesa di acqua cristallina dalle sfumature
acquamarina.”
Agata
esordisce con i suoi forti bisogni di autonomia psichica e di
emancipazione dalle dipendenze affettive. Rievoca la vita all’interno
della sua famiglia, in particolare l’ambito relazionale e la
socializzazione, e offre le figure di genitori aperti che non l’hanno
bloccata e rinchiusa in carcere. Non solo, ma questi genitori hanno
favorito lo sguardo “al di là” della loro convivenza proprio
perché Agata “apre davanti a sé una grande distesa di acqua
cristallina con sfumature acquamarina”.
Cosa
significherà questo insieme di parole in versione apparentemente
estetica e retorica?
Agata
in sogno si sta dicendo che fuori dalla famiglia le sembrava,
“pareva”, di aver trovato la sua identità di donna e il suo
universo femminile, una crescita ben gradita e vissuta senza alcun
senso di colpa. Agata non aveva maturato conflitti e contrasti nel
suo essere donna e nel suo evolversi al femminile. Tutto questo era
stato consentito dall’autonomia che le era stata insegnata e che
aveva acquisito in ambito familiare. In sogno Agata rielabora la
scoperta della sua femminilità, il tempo in cui si viveva bene ed
era contenta della sua prosperità.
La
simbologia vuole che “l’orto” rappresenti l’affettività
familiare e che “l’acqua” si traduca nell’universo
psicofisico femminile, che “al di là” è una tensione a crescere
con le gioie e le paure connesse, che “pareva” ha il sapore della
nostalgia e dell’illusione, un “phainomen”, un fenomeno,
qualcosa che appare e che suppone dietro di sé un’essenza o una
sostanza da cui proviene, almeno secondo il pensiero filosofico.
Secondo la Psicoanalisi fenomenologica “pareva” è la verità del
vissuto e a quella ci si attiene senza la necessità di ricercare e
di approfondire almeno per quel momento in cui emerge. Ricordo che
questo “pareva” è un punto cardine nell’interpretazione del
sogno di Agata perché allude a una illusione, richiama il dolore di
un vissuto che da bello traligna in brutto, da buono in cattivo, da
positivo in negativo. In effetti si tratta di un vissuto e basta,
formativo e da ascrivere all’evoluzione della “organizzazione
psichica reattiva” di Agata.
Procedendo
si chiarisce il quadro psicodinamico.
“L’acqua
sale e io sono in cima a un sasso che guardo l’acqua limpida
arrivare ai mie piedi.”
In
questa formazione psicofisica del suo essere femminile Agata rimette
l’accento sull’autonomia dalla famiglia e sulla personale
formazione attraverso i vari vissuti evolutivi: “l’acqua sale”,
“divento donna”, “il mio corpo matura in grazie all’ormonella”.
Agata inizia mettendo in atto, da brava adolescente che ha tutto da
vivere e da imparare, la giusta difesa della “sublimazione della
libido” e lo dice simbolicamente con “io sono in cima a un
sasso”. Questo processo difensivo dall’erotismo e dalla
sessualità non è spropositato o eccessivo. Si tratta di una normale
difesa di fronte alle novità psicofisiche dell’adolescenza e delle
variazioni ormonali e soprattutto corporee, seno e glutei Agata
prende sempre più consapevolezza di essere stata una bambina e di
essersi evoluta in una ragazza e il tutto per arrivare alla coscienza
di essere una donna: “guardo” la mia femmina e la mia femminilità
con il giusto senso del potere e senza sensi di colpa. Agata matura
il potere che le viene dall’ambito sociale per la sua dimensione
femminile e si piace e si compiace senza cadere nell’isolamento
narcisistico. I “piedi” sono simboli fallici a riprova del senso
del potere che Agata elabora e assorbe durante la crescita senza
incamerare traumi e angosce inutili. Ritorno a dire che in tutto
questo prospero processo Agata è stata aiutata e favorita
dall’ambiente familiare, ma non dimentichiamo il “pareva” e
“l’al di là”. Ripeto: Agata è cresciuta e ha una buona
consapevolezza del suo corpo e della sua psicologia femminile, nonché
del potere culturalmente donato dall’universo maschile in maniera
ambigua e interessata alle donne, uno scettro a metà tra sesso ed
estetica. Agata è una bella ragazza che si piace e che piace e
questo lei lo sa.
“Al
di là, giusto al confine di quello che era l’orto
dei miei genitori e questa distesa d’acqua, sento un miagolio.”
La
scena onirica ripiega su se stessa e ritorna alla scena iniziale
precisando che tra l’ambito familiare e l’autonomia psicofisica
conquistata si colloca la sua femminilità: “sento un miagolio”.
Agata rievoca in sogno il momento in cui ha avuto la prima avvisaglia
del suo essere femmina. Il “miagolio” tratta simbolicamente
dell’universo femminile. Dopo un’introduzione lineare e proficua
dell’evoluzione psicofisica di Agata, il sogno introduce un
particolare vissuto che è insito nel “miagolio”. Appena Agata si
è staccata senza traumi e senza colpe dall’economia psichica della
famiglia, succede un qualcosa che turba l’equilibrio e l’armonia
psicofisica; il tutto sempre in riguardo alla sua evoluzione
femminile.
“Un
animale ha azzannato un gatto. Si tratta forse di un cane… e io mi
sveglio urlando con un senso di tenerezza dispiacere e anche un po’
di disperazione per quel mio micio che forse ha perso la vita…”
C’è
stato un trauma e non di poco conto: “un animale ha azzannato un
gatto”. Agata è stata vittima di una violenza sessuale da parte di
un individuo che ha scaricato sulla giovane donna la sua perversione
arrecandole un danno significativo. L’azzannare simbolicamente
equivale a una perdita violenta della verginità, a una deflorazione
abusata e a una rottura traumatica dell’imene. Agata ha descritto
nella prima parte del sogno la sua evoluzione psicofisica al
femminile con il senso del potere annesso, per poi tornare indietro e
rievocare il suo trauma di perdita della verginità in maniera
violenta. “Quel mio micio che forse ha perso la vita” offre la
dimensione dell’evento traumatico e significa “sono stata segnata
da questa esperienza per tutta la vita e gli effetti negativi me li
porterò dietro nel tempo”.
La
dialettica psichica tra i sentimenti della “tenerezza dispiacere”
e della “disperazione”, anche se “un po’, esprimono il
travaglio che Agata ha dovuto vivere e il dolore che ha dovuto
subire, tutto materiale psichico che ha dovuto sistemare nel tempo
per continuare a vivere con quel rammarico, quel cruccio e quella
rabbia che la “razionalizzazione” del trauma non assolverà in
tutto e per tutto. Resta quel fondo naturale d’insoddisfazione che
esige la sua ricompensa per tanto torto ingiustamente subito.
Quante
donne hanno vissuto la morte del proprio gatto dopo averlo sentito
inutilmente miagolare e quante donne volevano risolvere la loro
verginità in una maniera degna e senza avere il senso della violenza
e della svendita di un bene prezioso non soltanto a livello
culturale, ma soprattutto a livello psichico. Tantissime e tutte
adducono in primis una mancata educazione sessuale e una maggiore
confidenza con i genitori, un affidamento anche didattico alle
istituzioni preposte, una cultura misogina e pedofiliaca negli ambiti
religiosi.
Nonostante
i genitori siano “maieutici” nel far crescere i figli al meglio,
poi subentra quel “mostro” che è dentro di noi e che circola in
mezzo a noi a rovinare la festa con grave danno per l’avvenire
psichico ed esistenziale. Attenti genitori che favorite giustamente
l’emancipazione dei vostri figli a non destare un vissuto di
freddezza affettiva e di assenza. Calibrate bene il vostro progetto
educativo dispensando equamente il dovere e il piacere, il senso e il
sentimento, la ragione e la riflessione.
Forse
Agata aveva bisogno di un supporto psichico e affettivo che gli è
stato tolto troppo presto. Forse Agata si è trovata nel posto
sbagliato al momento giusto. Forse e forse, ma il succo del sogno
dice che Agata non è una donna femminilmente felice.
Il
sogno di Agata merita di essere ben ponderato da ognuno di noi
trattando un tema attualissimo e antico come la violenza sulle donne,
per cui si può chiudere degnamente con questo invito.
Oggi a casa mia si mangia brodo di carne con i pizzulati e le polpettine.
Oggi a casa mia si mangia la carne bollita con le patate fritte una per una e tagliate a forma di cerchio da mia mamma che ha tanta pazienza e anche se è la sua festa si siede davanti al focolare e frigge le patate con amore per tutti noi.
Come frutta ci sono i mandarini e le bucce non si buttano perché servono la sera per giocare a tombola. Io spero di fare almeno un terno e una cinquina, così poi mi compro la palla di gomma bianca puzzolente e gioco per strada con i miei cugini.
Come dolce ci sono i cannoli di ricotta che ha mandato lo zio Pippo Giudice e la zia Lucia Giarratana come regalo. I miei zii sono molto buoni e con le loro ricchezze tolgono tanti pensieri a mia madre quando fa la spesa perché sono macellai come mio nonno e puzzano di sangue.
Noi siamo sei figli e riempiamo tutta la tavola assieme alla nonna Lucia e alla zia Assuntina che viene da Tripoli e porta le sigarette, il tè e la cioccolata quando i finanzieri la fanno passare senza guardare nelle sue valige. Ma ci guardano sempre e rubano le leccornie a causa della divisa e le portano a casa ai loro bambini. Almeno lo spero.
La zia Assuntina è magica perché ha tanti soldi e fa tanti regali che tira fuori dalla sua valigia piano piano e quando meno te lo aspetti.
Mia nonna dicono che è cattiva, ma a me regala sempre le caramelle di carrubba per la tosse perché io soffro di bronchite e non respiro bene la notte quando mi vengono i gattini nel petto mentre dormo. Per questo mia madre mi spalma il petto di Vicks Vaporub alla menta.
Mia madre mi regala sempre le sue polpettine perché sono il più piccolo, il cacaniro, il figlio che fa la cacca sul nido.
Questa non l’ho mai capita, come la festa dell’Immacolata.
Padre Raffaele Cannarella ha detto che Immacolata concezione significa che la Madonna è nata senza peccato originale e non che era sposa di Giuseppe come poteva essere mia madre per mio padre.
Questa non l’ho capita.
Perché dobbiamo nascere con il peccato, non l’ho capito.
Perché si chiama originale se ce lo abbiamo tutti, non l’ho capito.
Il maestro ha detto che siamo tutti originali perché siamo tutti diversi, ma io non penso di essere diverso dagli altri. Però il maestro ha sempre ragione e dice tante cose difficili da capire. Il mio maestro si chiama Salvatore Grillo e fa anche il poeta, il musicista e il pittore. Ha scritto una canzone sulla Sicilia e a Messina gli hanno dato un premio di mille lire. Il mio maestro ha i capelli lunghi e ricci e sembra un pazzo. Però è sempre pulito e i capelli se li lava con lo sciampo Palmolive, quello che non usa mia madre perché costa caro.
Mia madre si lava e mi lava con il sapone Palmolive all’olio d’oliva dentro la bagnarola e anche i capelli li lava con questo sapone che fa bruciare gli occhi.
Io chiamo mia madre mamma e basta.
Mio padre lo chiamo papà.
Dopo la festa dell’Immacolata tutto torna come prima a casa mia e devo dire che non è male. Se continua così fino alla fine della scuola elementare, mi sta bene anche se non capisco tante cose, ma sono sicuro che mi rifarò perché sono curioso come una scimmia dell’Africa dove abita la zia Assuntina.
Questi sono i miei genitori e questo sono io che sono loro figlio.
“E’ estate. Sono vicina a casa mia e sto visitando una grande chiesa su una altura insieme a qualcuno che non vedo. Ne sento solo la voce quando fa commenti sulla bellezza della chiesa.
A tratti è il mio fidanzato n°due, (ho due relazioni), a tratti mia madre e a tratti qualcun altro. Ma non sono tutte e tre le persone presenti. E’ come se si alternassero nel sogno.
Dopo aver percorso all’esterno tutto il perimetro della chiesa (in sogno mi capita sempre di restare solo all’esterno delle chiese) mi soffermo a guardare la vista dall’alto sul lago Maggiore.
Riscendo, (? riscendiamo), a piedi fino all’altezza del lago e io e mia madre questa volta saliamo su una canoa, (secondo sogno con canoa), e prendiamo il lago e poi un fiume che porta alla Svizzera. Io guido la canoa.
Ad un certo punto tiro fuori dal mio zaino un piatto di pasta che ho cucinato per mia mamma, (nel sogno c’è anche una parentesi in cui mi rivedo nella preparazione del piatto di spaghetti allo scoglio) e glielo do da mangiare.
Dopo un po’ mi accorgo, guardando dalla canoa, che i paesi sulle sponde del lago sono allagati. Lo percepisco come un problema, quindi prendo in mano l’azione, lascio mia madre a continuare la gita da sola e scendo nelle strade allagate, ma l’atmosfera è tranquilla con la luce del sole sulle case.
In giro non c’è nessuno. Entro in una casa e salgo al secondo piano come se fossi in autoplay di un video gioco e lì dentro, in un ambiente fresco e oscuro, ci sono delle persone che non riconosco ma so essere mie amiche.
C’è anche una camera con un letto mio e oggetti miei. In particolare ci sono moltissime pietre preziose che appartengono tutte a me, molte incise con disegni di scorpioni e di nasi.
Vado al bagno della mia camera in cui non c’è la porta ma solo una tenda di perline e, mentre mi sto sistemando, intravedo la figura di una ragazza che conosco ed è mia amica, l’unica del sogno, a parte mia madre, che vedo bene in faccia, che sta in piedi ferma nella mia stanza a guardarmi attraverso la tenda. Le dico “Samantha che fai?”, poi muovo un passo per uscire dal bagno e lei mi si butta addosso per aggredirmi.
Sopraggiunge un ragazzo dalla cucina per salvarmi e non so bene che fine faccia Samantha. Mi metto a parlare con questo ragazzo che però è un’ombra, non lo distinguo bene e stiamo un po’ in un abbraccio intimo e io percepisco la presenza del mio fidanzato n°uno che però nel sogno non c’è.
A questo punto salta fuori che c’è un’invasione di Alieni in atto (sogno molto speso gli Alieni ma non mi spaventano, nei miei sogni sono sempre una guerriera) e che essi sono in grado di assumere le sembianze di chi vogliono.
Io mi metto a cercare una pietra in particolare che non salta fuori. E’ una pietra nera con dei puntini azzurri che ha la capacità di curarmi e farmi cogliere l’origine dei problemi.
La cerco invano ovunque dentro la casa insieme a questo mio salvatore, finché non appare un alieno nella stanza ed io lo sconfiggo in uno scontro corpo a corpo.”
Questo è quanto ha sognato Giglio.
INTERPRETAZIONE DEL SOGNO
“E’ estate. Sono vicina a casa mia e sto visitando una grande chiesa su una altura insieme a qualcuno che non vedo. Ne sento solo la voce quando fa commenti sulla bellezza della chiesa.”
Giglio è nei pressi di se stessa, della “parte psichica” adibita alla “sublimazione della libido”. E’ tempo di nobilitare le proprie pulsioni e di dar loro un fine generoso al fine di non avvertire gli eventuali sensi di colpa destati dal pensiero di essere egoisti e bisognosi. La “chiesa su un’altura” è un rafforzamento simbolico di quanto affermato. “L’estate” aiuta a sentire il calore delle pulsioni e la consapevolezza di una donna che si accompagna al padre: “qualcuno che non vedo”. Questa figura è simbolicamente e universalmente sempre il padre “edipico”, quello con cui non sono stati sciolti i legami ambigui e ambivalenti, le pulsioni seduttive ed erotiche di una bambina che cerca la sua dimensione psichica femminile. Giustamente Giglio ha sublimato a suo tempo la “libido edipica” e si porta a spasso per il sogno il padre in versione di abile commentatore della Bellezza. La figlia riconosce al padre una sensibilità estetica, fatta di tanta ammirazione e di consapevole stupore. Giglio sublima l’attrazione verso il padre per non colpevolizzarsi, ma riconosce nello stesso tempo al padre quella propensione alla Bellezza, “della chiesa” nel caso specifico. Sintetizzo e chiarisco: Giglio riesuma e rievoca la figura paterna e assolve i sensi di colpa legati all’attrazione psicofisica e approfitta della circostanza per mettere in luce la sensibilità al Bello e all’Arte dell’augusto genitore.
“A tratti è il mio fidanzato n°due, (ho due relazioni), a tratti mia madre e a tratti qualcun altro. Ma non sono tutte e tre le persone presenti. E’ come se si alternassero nel sogno.”
I conti “edipici” tornano tutti: il fidanzato numero due, la madre o una figura anonima e indifferenziata, sempre un “qualcun altro” dentro, una figura “introiettata” e nel sogno tirata fuori, “proiettata”. Il “fidanzato numero uno” è sempre il padre per tutte le bambine, il “fidanzato numero due” è quello che segue e consegue alla complessità dei vissuti in riguardo alla figura paterna. Poi, arrivano anche gli altri fidanzati, i numero enne, nella speranza che siano tanti per depurare i vissuti “edipici” e scegliere il proprio uomo senza i condizionamenti subdoli dell’infanzia e dell’adolescenza, senza sposare la “traslazione” del padre insomma. Giglio non mette in scena la “triade edipica”, si limita a visitare i singoli protagonisti e li alterna sul palco a simboli dei suoi vissuti e della sua evoluzione psicofisica, dall’infanzia all’età adulta. Degna di nota è la poligamia di Giglio, “(ho due relazioni)”, la sua naturalezza a vivere il maschio senza i limiti imposti dalla Morale pubblica, il “Super-Io” collettivo, e dal suo “Super-Io”, la sua istanza psichica censoria. Giglio manifesta una disinibizione nella gestione delle relazioni amorose, affettive e sessuali, a testimonianza della sua capacità di alternare nella vita, non soltanto nel sogno, situazioni di coppia varie e variopinte. La caratteristica si spiega con una riduzione dell’investimento di “libido” nei suoi uomini e del coinvolgimento amoroso. Insomma, Giglio non s’innamora abbastanza o teme di legarsi troppo e per questa paura si difende da quello che lei vive come un coinvolgimento minaccioso della sua autonomia. Il prosieguo del sogno darà le ragioni di questa nota caratteristica della protagonista. Possibilmente c’è ancora un ristagno “edipico”, per cui Giglio non si è evoluta degnamente nella “posizione psichica genitale” e non investe appieno le sue energie e i suoi sentimenti secondo le naturali norme della disposizione donativa e della generosità altruistica, della “comprensione” e dell’abbraccio psichico dell’altro.
“Dopo aver percorso all’esterno tutto il perimetro della chiesa (in sogno mi capita sempre di restare solo all’esterno delle chiese) mi soffermo a guardare la vista dall’alto sul lago Maggiore.”
Il processo psichico di difesa dall’angoscia della “sublimazione della libido” non trova Giglio disponibile al cento per cento dal momento che percorre “tutto il perimetro esterno della chiesa”, non entra nel tempio sacro per depositare le sue cariche istintive e le sue pulsioni in attesa di essere purificate dalla grazia della Psiche. Giglio è una donna che non si coinvolge del tutto nelle operazioni di recupero e di rimessa in atto del vietato e dei tabù. Giglio salta di palo in frasca e travalica dalla “sublimazione” alla contemplazione estetica, anzi predilige tranquillamente quest’ultima e trova nella Bellezza la risoluzione idonea e congrua. Giglio sente il bisogno di “catarsi” dell’illecito e della colpa, ma fa tutto a metà e si ricovera sempre in “alto”, nel culto della madre che ristagna, il “lago Maggiore”. Dal sacro passa con disinvoltura all’umano, dal carisma alla concretezza estetica. Giglio le sta provando tutte le operazioni di ripulitura di eventuali traumi o fantasie, di pulsioni e desideri. Predilige non investire totalmente su azioni che nella Borsa del sacro hanno un valore, mentre nella Borsa dell’umano presentano una vitale consistenza. Vediamo dove procede dopo questo preambolo introduttivo.
“Riscendo, (? riscendiamo), a piedi fino all’altezza del lago e io e mia madre questa volta saliamo su una canoa, (secondo sogno con canoa), e prendiamo il lago e poi un fiume che porta alla Svizzera. Io guido la canoa.”
Dopo il “qualcuno che non vedo” del primo capoverso, decisamente decodificato come la figura paterna, ecco che si presenta in tutta evidenza e in pompa magna la figura molto importante nella formazione psichica di Giglio, la madre. A quest’ultima la figlia associa il processo psichico di difesa della “materializzazione” e il principio annesso della “realtà”. Giglio ama la concretezza e si è tenuta a fianco della “chiesa”, non è entrata nel luogo del sacro e della censura morale, ha preso atto e ha apprezzato l’aspetto culturale, filosofico ed estetico, La compagnia era la figura del padre. Adesso arriva la madre e la materia vivente, il “lago”, e Giglio si sente alla sua “altezza”, si è ben identificata nella madre durante la sua formazione ed evoluzione psicofisiche, per cui va da sé che ci sia la “canoa”, il grembo, la culla anatomica adibita alla sessualità e alla maternità. “Saliamo sulla canoa” attesta “l’identificazione” nella madre che ha portato Giglio a maturare nel tempo la sua “identità” femminile. Il padre non si è evidenziato abbastanza semplicemente perché è la figura conflittuale della “triade edipica” ed allora Giglio per difendersi non gli ha dato un volto e l’ha lasciato nell’anonimato. Guardate che bel quadretto al femminile: madre e figlia in canoa sul lago. Questa è una buona e originale allegoria con il rafforzamento dei simboli femminili, “lago” e “canoa”, ma Giglio non dimentica il padre e allora se lo porta dietro sotto forma classica del “fiume”. Non dimentica nemmeno di essere lei la protagonista della sua femminilità e si mette alla guida della sua “canoa” in buona e completa compagnia “edipica”. Ritorna la figura paterna in veste simbolica a testimonianza di una delicatezza e paura verso la figura maschile. E allora andiamo in “Svizzera”, il luogo simbolico delle libertà e dell’autonomia.
Che Giglio stia risolvendo la sua “posizione psichica edipica”, la sua relazione conflittuale con i genitori, e stia maturando la sua autonomia psichica riconoscendo il padre e la madre e risolvendo le pendenze maturate nel corso della vita?
Chi vivrà vedrà.
“Ad un certo punto tiro fuori dal mio zaino un piatto di pasta che ho cucinato per mia mamma, (nel sogno c’è anche una parentesi in cui mi rivedo nella preparazione del piatto di spaghetti allo scoglio) e glielo do da mangiare.”
La figlia dispensa amore per la madre. Dal suo grembo, lo “zaino”, il luogo della femminilità e della “genitalità”, Giglio partorisce da sola e senza aiuto dell’ostetrica, “tiro fuori”, tutti gli affetti possibili nei riguardi della figura materna, “un piatto di pasta che ho cucinato per mia mamma”, tutto l’amore verso la madre. Questa operazione di riconoscimento e di riconoscenza avviene con una preziosa nota narcisistica, “mi rivedo nella preparazione del piatto di spaghetti allo scoglio”, una pietanza non da morti di fame o da profani, oltretutto condita con tutto il trasporto affettivo di una figlia che si prende cura della madre dopo averla riconosciuta come la sua origine e la sua identità femminile: “glielo do da mangiare” e “io guido la canoa”. Degna di nota è l’assenza della stessa premura nei riguardi del padre, che, pur tuttavia, è presente in forma traslata e anonima. Ricapitolando: Giglio sviluppa in sogno la sua “relazione edipica” e mostra di averla superata, soprattutto in riguardo alla madre. Il padre resta una mina vagante nel mare psichico della formazione evolutiva della protagonista. Con la madre Giglio ha assunto un atteggiamento di cura e premura che si può definire “adozione”, una forma concreta e massiccia di “libido genitale” sublimata. La figura sacra della madre viene investita di affetti e atti che attestano riconoscimento e gratitudine.
“Dopo un po’ mi accorgo, guardando dalla canoa, che i paesi sulle sponde del lago sono allagati. Lo percepisco come un problema, quindi prendo in mano l’azione, lascio mia madre a continuare la gita da sola e scendo nelle strade allagate, ma l’atmosfera è tranquilla con la luce del sole sulle case.”
Giglio rievoca il momento della sua evoluzione psicofisica in cui ha operato il distacco dalla madre e ha risolto la sua dipendenza psichica dal momento che aveva ampiamente accettato e razionalizzato la sua identità femminile. Trascorso il periodo dell’identificazione e superato il bisogno di adottarla accudendo i bisogni di lei e prendendosi una cura speciale della sua persona, risolta questa benefica e matura operazione umana, Giglio riacquista la sua autonomia e indipendenza dal momento che “i paesi sulle sponde del lago” erano “allagati”. Giglio percepisce “come un problema questo trasporto e “prende “in mano l’azione”, le redini della sua vita “per continuare la gita” della sua vita “da sola”. In questa presa di coscienza dei vissuti complessi nei riguardi della madre Giglio razionalizza che non ha subito alcun danno e che la “razionalizzazione” di questo rapporto speciale con la madre è stato positivo e costruttivo al massimo, dal momento che ha apportato la tranquillità dell’animo, una forma di “atarassia” individuale da completamento d’opera e da scelta di se stessa dopo il periodo di dipendenza a vario titolo, o perché bambina o perché moralmente portata al sollievo dell’augusta figura materna. Traduco meglio e pari pari: Giglio, del tutto consapevole della sua femminilità e della sua persona, “guardando dalla canoa”, dopo aver temuto di aver corso il rischio di dipendere dalla madre, riacquista la sua autonomia psichica e vive la sua vita di donna e di femmina senza alcun turbamento e con tanta consapevolezza. Meglio di così non poteva andare.
“In giro non c’è nessuno. Entro in una casa e salgo al secondo piano come se fossi in autoplay di un video gioco e lì dentro, in un ambiente fresco e oscuro, ci sono delle persone che non riconosco ma so essere mie amiche.”
Giglio è con se stessa, in dolce compagnia di se stessa e della sua autonomia psicofisica. Giglio ha risolto i legami di figlia nei riguardi della madre e ha provveduto al suo accudimento: “in giro non c’è nessuno”. La figlia ha riconosciuto la madre dopo averla onorata e odiata e non è rimasta schiava e sola in questa improba controversia sull’identità e sul possesso dei beni affettivi. Sul padre il discorso è sospeso e la figura del genitore vaga come le mine nei mari durante il tempo di guerra in cerca della nave su cui esplodere. Giglio rientra in se stessa e per la precisione nella “sublimazione narcisistica del suo Io”, nel luogo riservato all’auto-gratificazione e all’auto-compiacimento, per rivivere i momenti di questa sua crescita personale. Giglio si ripensa come persona compiuta, ma non riconosce nella sua dimensione relazionale alcune figure o “parti psichiche di sé” che ancora aspettano una risoluzione congrua. Ritorna questa tendenza di Giglio all’incompiuta con alcune “persone” e con alcune esperienze della sua vita dove avrebbe voluto essere più decisa e incisiva. Si accontenta di un “autoplay” che si riduce a un “autoreplay”, a un rivedersi e a un riconsiderarsi narcisistici che lasciano l’amaro dell’incompiuta in bocca. Purtuttavia, ha il buon senso di ritenere “amiche” queste persone e manifesta quell’ottimismo non esagerato che non guasta, se confrontato con il pessimismo bieco della disperazione e del rancore di chi avrebbe voluto cambiare le carte in tavola. Tra le persone ci mettiamo d’ufficio il padre. Vediamo dove si dirige Giglio nel suo sogno. Adesso è ferma in una Svizzera calvinista e protestante, isolata e libera, ligia al dovere e alle leggi morali, ricca di buona cioccolata e di emmental, di orologiai e di orologi, di cucù e di mucche viola.
“C’è anche una camera con un letto mio e oggetti miei. In particolare ci sono moltissime pietre preziose che appartengono tutte a me, molte incise con disegni di scorpioni e di nasi.”
Giglio entra nell’intimità, nel personale, nel privato, nel proprio. La “camera da letto” condensa i vissuti interiori e indicibili, quelle “pietre preziose” che riguardano soltanto Giglio e nessun altro, la sua sfera anatomica e sessuale da non condividere e da stimare con grande perizia, i vissuti intimi e le esperienze erotiche che vertono sul versante sessuale maschile come i “disegni di scorpioni e di nasi”, una vasta gamma di simboli fallici, fecondanti al negativo i primi, penetranti con decisione i secondi. Lo “scorpione” rappresenta simbolicamente il pene che emette lo sperma temuto dalla donna che ha una tosta fobia della fecondazione e della gravidanza, mentre il “naso” condensa l’invadenza del pene e le sue ben note competenze erotiche e sessuali. Tra “pietre preziose” femminili e “scorpioni e nasi” maschili Giglio si compiace narcisisticamente delle sue doti erotiche e delle sue qualità sessuali, nonché delle sue paure e delle sue fobie, estendendo questi “oggetti” ai suoi ricordi sotto la forma di amuleti che esorcizzano l’angoscia di fecondazione e di gravidanza. Si conferma sempre con maggiore evidenza quel sano “narcisismo” che si snoda a metà tra l’amor proprio e il culto di sé. Non è da meno il senso del possesso e i due fidanzati con la loro umana gestione. Giglio è una donna che si compiace del suo potere erotico e sessuale, una femmina che sa gestire il maschio di turno. Il suo “narcisismo” prevale sulla “genitalità” di un sentimento d’amore donativo. L’evoluzione psichica di Giglio oscilla tra la “posizione edipica” e la “posizione narcisistica” e trascura la “posizione genitale”. Decisamente è una donna che non si innamora follemente di un uomo, è una donna che avanza con giudizio e temperanza verso gli investimenti sugli altri, è una donna che si compiace delle sue capacità, è una donna che ha due uomini e oltretutto generici e anonimi, uomini senza qualità.
“Vado al bagno della mia camera in cui non c’è la porta ma solo una tenda di perline e, mentre mi sto sistemando, intravedo la figura di una ragazza che conosco ed è mia amica, l’unica del sogno, a parte mia madre, che vedo bene in faccia, che sta in piedi ferma nella mia stanza a guardarmi attraverso la tenda. Le dico “Samantha che fai?”, poi muovo un passo per uscire dal bagno e lei mi si butta addosso per aggredirmi.”
Il passaggio dalla zona intima degli affetti speciali e dei segreti pensieri alla zona erotica e sessuale è breve, del resto come sempre e come giusto. Giglio si era imbattuta in precedenza nei suoi gioielli femminili e nei suoi trofei maschili, le “pietre preziose” e gli “scorpioni” e i “nasi”, adesso va proprio in “bagno” dove, oltretutto, “non c’è la porta, ma solo una tenda di perline”, si coinvolge direttamente con il suo corpo e i suoi bisogni, “mentre mi sto sistemando”. La disinibizione narcisistica della donna ritorna venata di esibizionismo e di competizione al femminile, “intravedo la figura di una ragazza che conosco ed è mia amica”, una figura equiparabile alla madre in quanto oggetto di presa di coscienza. Giglio “sa di sé” attraverso la madre e l’amica, “sa di sé” come donna e come corpo perché si è identificata nella prima e ha assunto identità psicofisica tramite la seconda, l’altra da sé, una persona che esiste nella realtà esterna, ma che, a tutti gli effetti, è l’immagine di sé, il fantasma del suo corpo, la rappresentazione primaria dei suoi desideri e bisogni di bambina che si accinge a evolversi in donna. Questa “amica” la spia nella sua intimità, questa “parte psichica di sé” è in conflitto con l’immagine globale che Giglio ha maturato nel corso della sua evoluzione psicofisica. Samantha è la controfigura di Giglio, quella che si assume la parte aggressiva e che aggredisce, meglio si auto-aggredisce, quella che non si piace e che non si è mai piaciuta, quella “parte psichica di sé” che si schiera per il sacro e odia il profano o viceversa, la “parte psichica oppositiva” di Giglio rivolta contro se stessa, la parte “sadomasochistica”, quella che fa male e subisce il male. Giglio conosce molto bene se stessa “Samantha” e la madre. E’ proprio vero, perché sono i personaggi e le figure che la riguardano in prima persona, sono “l’introiezione” e la “proiezione” della madre e di se stessa nella versione non gradita e rifiutata, quella parte che non piace e che non si accetta. Qualcosa della sfera intima e privata del corpo e della mente non va proprio giù a Giglio e in questo modo ricorre a Samantha per evidenziare questa suo conflitto intrapsichico.
Ma cosa scarica Giglio su Samantha?
Quale materiale psichico traumatico Giglio addossa alla povera Samantha?
Importante continuare a vivere per sapere anche questo.
“Sopraggiunge un ragazzo dalla cucina per salvarmi e non so bene che fine faccia Samantha. Mi metto a parlare con questo ragazzo che però è un’ombra, non lo distinguo bene e stiamo un po’ in un abbraccio intimo e io percepisco la presenza del mio fidanzato n°uno che però nel sogno non c’è.”
Giglio scarica su Samantha tutta l’aggressività incamerata nell’evoluzione della sua “posizione psichica edipica”, della sua conflittualità ambivalente nei riguardi del padre e della madre, della sua psicodinamica evolutiva in riferimento ai genitori. Samantha condensa gli affetti legati alla “parte negativa” del “fantasma della madre”, quella che censura e impedisce i vissuti affettivi nei riguardi del padre, la figura in cui si è in qualche modo costretta a identificarsi per acquisire la sua identità femminile, quella che limita e vieta, la madre che impone i tabù e istilla il “Super-Io” sostituendosi al padre. Ricapitolando, Giglio sta sviluppando in sogno l’iter e la risoluzione della sua “posizione psichica edipica”, sta riesumando una tappa altamente formativa della sua evoluzione e mostra chiaramente la conflittualità ambivalente nei confronti della madre e dispone in discrezione il padre come figura importante e in parte rimossa nel suo “fidanzato n°uno”, come si diceva ampiamente nei precedenti iniziali capoversi. Mostra, inoltre, il suo distacco risolutivo nei riguardi della madre lasciando che prosegua la gita in Svizzera e riaggancia il padre nella figura del fidanzato n°uno di cui percepisce la presenza mentre sta in intimità con il nuovo ragazzo che la salva dalle grinfie di una invadente e aggressiva Samantha di cui non sa bene la fine che fa. Ricapitolando ancora e meglio di prima: Giglio si stacca dalla madre attraverso l’affidamento a un uomo, “il ragazzo che sopraggiunge dalla cucina” ossia dalla zona degli affetti condivisi e da condividere. Purtroppo, questo “ragazzo” seduttivo è evanescente, è “un’ombra”, viene dal suo Profondo psichico, dall’aldilà subcosciente, emerge dai suoi desideri di bambina e di adolescente e si porta sempre dietro la figura del padre, la prima ombra del fidanzato n°uno, quello che ancora non sa riconoscere come figura formativa della sua femminilità e delle sue arti erotiche e seduttive. Giglio “percepisce una presenza” come nei migliori film gialli, un fidanzato che in qualche modo tradisce e di cui dispone le fila. Proprio vero che il primo amore non si scorda mai e non si sposa. Giglio sta in intimità con un ragazzo “ombra” che la salva dalle grinfie della madre: questo ragazzo è l’erede della prima ombra, il padre. Quest’ultimo ha contribuito nell’economia psichica di Giglio alla formazione della strategia di approccio all’universo psicofisico maschile.
“A questo punto salta fuori che c’è un’invasione di Alieni in atto (sogno molto speso gli Alieni ma non mi spaventano, nei miei sogni sono sempre una guerriera) e che essi sono in grado di assumere le sembianze di chi vogliono.”
Ah, gli Alieni!
Ah, l’alienato, tutto quello che volevamo vivere di noi e non abbiamo fatto nascere in noi!
Ah, i mille personaggi in cerca d’autore che non siamo e che sappiamo ben interpretare per difesa dal coinvolgimento con gli altri!
Spuntano le difese sociali di Giglio. Scendono dall’astronave alla moda gli Alieni, arrivano i modi di essere e di esistere che la protagonista voleva incarnare e che per l’angoscia dell’indeterminato ha lasciato andare nell’evanescenza del Nulla e del “non se ne fa niente”. Gli Alieni “sono in grado di assumere le sembianze di chi vogliono”, hanno capacità mimetiche e mistificatorie, sono dei grandissimi bugiardi e non dicono mai la verità del “chi sono” e del “cosa vogliono”, sono degli impostori e degli imbroglioni di vasta portata che inquinano la società. Questa è la versione negativa dell’umana capacità psichica di empatia e di simpatia, di partecipazione e condivisione. Questa è la “parte psichica negativa” del “fantasma dell’altro”, quella che mi inganna e mi porta via sempre qualcosa e a cui non bisogna rivolgere la parola e addirittura affidarsi, questo è lo Straniero di Camus, la parte straniera di noi stessi che abbiamo definitivamente debellato criminalizzandola per paura e su suggestione dei nostri incauti e superficiali genitori. E così Giglio è cresciuta “guerriera” per difendersi da se stessa, dalle sue giuste paure e dalle altrui ingiuste angosce. La mamma istilla, suggerisce, mette dentro il cuoricino della bambina a mo’ di insegnamento i suoi traumi di donna adulta e le sue esperienze andate a male come il latte fresco di giornata il giorno dopo. Il padre c’è e non c’è, il padre ha fatto meno danno, il padre è rimasto nel limbo delle figure da salvare per amore indicibile, mai detto, mai profferito. Una Giglio censurante e oltremodo “superegoica” mostra in questo siparietto finale i suoi tabù, i suoi divieti, i suoi “verboten”, le sue difese inutili verso il resto del mondo e proprio quando le aperture all’esterno sono costruttive e necessarie per una giusta evoluzione psicofisica. E’ come se Giglio andasse contro corrente e si rinchiudesse nel mondo di Narciso per non coinvolgersi con i fidanzati n°tre, n°quattro, n°cinque, n°enne. “Giglio nei sogni è sempre una guerriera”, ma sicuramente è arrivato il tempo di far riposare questa “guerriera” dopo tanto inutile stress. Ben vengano gli Alieni a portare la loro buona novella se serve a “sapere di sé”, a una migliore autocoscienza. Giglio non deve combattere contro se stessa e le sue produzioni psichiche innovative ed evolutive, contro i suoi “Alieni”, non deve alienare il suo prodotto psichico interno lordo per paura di coinvolgersi nelle stranezze di una vita alla grande e spericolata. Gli insegnamenti della mamma e i silenzi del padre devono lasciare il posto alla normalità dell’anormale, alla convivenza con gli Alieni dentro e fuori, alla condivisione delle esperienze e delle avventure.
“Io mi metto a cercare una pietra in particolare che non salta fuori. E’ una pietra nera con dei puntini azzurri che ha la capacità di curarmi e farmi cogliere l’origine dei problemi.”
Giglio sa di non stare bene e di avere bisogno di una cura che verta sulla consapevolezza delle cause dei suoi mali, “l’origine dei problemi”, una psicoterapia psicoanalitica che, risalendo per libere associazioni alle esperienze significative della sua vita, le dia quell’equilibrio e quella sicurezza insieme a quella tranquillità dell’animo che non guasta mai come lo zucchero nel caffellatte dei bambini. E allora Giglio tira in ballo la sua bambina dentro e il suo pensiero magico, i “processi primari” che che usava nell’infanzia e che si chiamavano con una sola parola la “Fantasia”, il pensare per allucinazioni e per fantasmi, l’andare contro il “principio di realtà” a favore del “principio del piacere”, l’esaltare le pulsioni e abolire i divieti, tira fuori il suo Harry Potter e la sua “pietra” filosofale “nera con dei puntini azzurri”, quella che ha la capacità taumaturgica della presa di coscienza, della riflessione su se stessa e sugli eventi della propria formazione ed evoluzione: il possesso mentale delle cause. Giglio estrae dal suo cilindro di prestigiatrice la magia, per arrivare alla “interpretazione” e alla “razionalizzazione” delle cause insieme al suo analista, al suo “salvatore”, che, come Ermes, comunica la volontà degli dei ai mortali. La magia è una pratica antichissima che ha il sapore dell’eternità semplicemente perché è la prima forma mentale di tutti gli infanti, di tutti coloro che sono ancora senza parola ma pensano e pensano tanto e di tutto. La Magia si basa sul meccanismo di difesa dall’angoscia dello “annullamento”, che si attesta nella conversione accettabile e gestibile dell’angoscia attraverso il rito, attraverso l’esorcismo di un divieto. La Magia si basa sul meccanismo di difesa dall’angoscia dello “spostamento” attraverso la costruzione del “feticcio”, la “pietra nera con dei puntini azzurri”, quella “che non salta mai fuori” e che esiste da qualche parte del culo del mondo, quella che, semplicemente usando la Ragione” deterministica, arriva alla “atarassia” per la via preferita dalla Cultura occidentale, la “razionalizzazione”, il meccanismo principe di difesa dall’angoscia che non è mai abbastanza, a conferma dell’umana debolezza che connota la creatura privilegiata di Dio o di Madre Natura, l’uomo, il solo animale vivente che soffre della malattia mortale, che è malato della consapevolezza della fine, della coscienza della morte e dell’assurdità della vita che si conclude nel niente. Eppure Giglio ritorna bambina e rispolvera il suo pensiero magico per risolvere le sue angosce. Vediamo la conclusione di questa lunga cavalcata nelle praterie psichiche durante il sonno, nel pensiero del sonno, il sogno.
“La cerco invano ovunque dentro la casa insieme a questo mio salvatore, finché non appare un alieno nella stanza ed io lo sconfiggo in uno scontro corpo a corpo.”
Giglio cerca “invano” la sua “kaba”, la pietra nera della sua religione psichica “dentro la sua casa” psichica insieme al suo “salvatore”, ed ecco che appare un “alieno”, un trauma, un non vissuto, un fantasma, un conflitto, una semplice fantasia o un semplice fatto, su cui Giglio insieme al suo salvatore analista può esercitare e far pesare la forza della Ragione e della “razionalizzazione”. Inizia lo scontro corpo a corpo con se stessa e in particolare con quelle “parti di sé” che si sono opposte alla sua integrità e armonia psichiche, gli Alieni per l’appunto, che aspirano a essere capite e riassorbite nel tessuto connettivo di un Corpo fatto di carne e ossa e di una Mente fatta di fantasmi e di ragionamenti. Alla fine del tragitto e dei tanti conflitti a Giglio resterà l’ultimo combattimento, la risoluzione del “transfert” esperito verso il suo analista, la liquidazione del vissuto emotivo e affettivo maturato nel corso del viaggio insieme al suo navigatore al fine di acquistare definitivamente la sua autonomia psicofisica.
E’ possibile tutto questo?
Decisamente “non potest” e “non possumus”, ma tentar non nuoce. Non è possibile liquidare relazioni e vivere da soli, a meno che non ci si trovi nel carcere della follia. E allora ben vengano le dipendenze e tutti i tentativi di liberazione che nel corso dell’esistenza intentiamo contro e a favore di noi stessi.
Il sogno di Giglio merita ulteriori riflessioni, ma si può concludere qui.
dimmi
se i miei bambini soffriranno a stare in casa per tanto tempo.
Francesca
Anche
per loro vale il discorso della “claustrofilia”: convertire
l’ansia e la paura per lo spazio chiuso nell’amore per la casa e
per la famiglia. Per i bambini la casa di per se stessa è protettiva
e rappresenta simbolicamente la loro interiorità e intimità. La
casa è il luogo dell’esercizio degli affetti e della protezione
dalle minacce esterne. I bambini hanno confidenza con il simbolismo e
usano la fantasia perché è la loro modalità prevalente di pensare
e la loro fortuna. La claustrofobia è un problema dell’adulto,
quindi non bisogna avere nessuna paura che il bambino si possa
ammalare di questo disturbo nevrotico anche perché è necessaria la
maturazione della sensibilità alla colpa per la manifestazione della
claustrofobia e delle crisi di panico. Per i bambini la casa sarà
paradossalmente l’occasione di libertà dai doveri sociali e
prevarrà la gioia di essere al sicuro e protetti, nonché di avere a
portata di mano tutto il bene dei genitori e della famiglia. I
fratelli possono essere motivo di agitazione per l’insorgere del
“sentimento della rivalità fraterna” e allora bisognerà
dirimere le controversie che sorgeranno tra di loro riportandoli
realisticamente alle problematiche di fatto e non alle stupidaggini
delle preferenze affettive di mamma e papà. In questo periodo
bisognerà spiegare bene la situazione sanitaria senza terrorizzarli
con il pericolo della morte e preferendo parlare di bronchite e di
febbre, di quelle malattie che il bambino ha vissuto e di cui si è
fatto una rappresentazione mentale. Non creare angosce di morte e non
ridestare il fantasma depressivo di abbandono e di perdita. Bisogna
evitare al massimo i doveri e le punizioni. Bisogna rassicurarli
sulla paura dell’eventuale morte della mamma e del papà con
l’ottimismo necessario, con l’ironia e con la rassicurazione che
i genitori saranno responsabili quando escono di casa per andare a
comprare il cibo. Lasciate liberi ai bambini i processi della
fantasia e del pensiero creativo. La visione dei programmi televisivi
e i videogiochi saranno tollerati sempre in base alle norme del
buonsenso. E’ consigliabile la tolleranza rispetto alla predica del
senso del dovere e alle imposizioni autoritarie. Questa forzata
permanenza sarà l’occasione per il bambino di maturare passioni,
di allargare le inclinazioni e le naturali disposizioni alle varie
attività. I genitori devono fare di necessità virtù e devono
adattare l’educazione dei figli alla contingenza della restrizione
fisica ma non psichica.
Cara
Francesca, ho allargato il discorso sul tema proposto e in sintesi ho
dato altre indicazione psicologiche ai genitori per una buona
convivenza e una giusta prognosi. Ritornerò su questi temi in
maniera puntuale cammin facendo.
“Abituata ad affrontare subito i problemi pensando, cercando soluzioni, agendo, facendo cose, oggi mi sento spiazzata… e adesso cosa faccio se non posso fare, non posso andare… Dovrei solo riuscire ad andare oltre me stessa e riuscire a vedere le cose in modo diverso, a non farmi sovrastare dall’ansia del non poter fare.”
Prima
eravamo nevrotici. La nevrosi è stata di moda. Chi non l’aveva
correva il rischio di essere ripudiato. Così cantava Adriano il
grande. Adesso siamo normali. Mai stati così normali, neanche nel
dopoguerra, quando mia madre cucinava le bucce delle patate e i
baccelli dei piselli.
Che
minestre, cara amica!
Lascia
che sia. Let it be. Ascolta i Beatles.
Se
vai oltre te stessa, cadi nella sopravvivenza. Non essere violenta.
Non andare sopra la vita. Non sei una dea onnipotente e meno male.
Vivi quello che non hai mai vissuto, la libertà di gestire il Tempo
come una fisarmonica: allargalo e contrailo. “Rientra in te
stessa”, dice il saggio Siddharta Gautama. “Conosci te stessa”
suggerisce lo scansafatiche Socrate.
L’ansia
è vita, è vitalità. La paura ci sta. L’angoscia è da evitare
come la peste.
Che bello avere finalmente la consapevolezza e la potenza del “non poter fare”!
“Oggi ho paura, ma non capisco se di quello che c’è fuori o di quello che sento dentro…”
La
paura ci sta e ci sta bene perché fa solo bene. La paura è dentro
di noi ed è legata a un oggetto specifico. Curiamola con amore,
accarezziamola con devozione come se fosse una preghiera laica e
civile, ringraziamola perché ci rende umani e non divini, fragili e
liberi dall’onnipotenza.
Viva,
viva la Paura!
Fuori
c’è un virus birichino che fa le sue cose secondo Natura. Noi non
vogliamo ammetterlo alla nostra amicizia e tanto meno alla nostra
tavola. Che se stia a casa sua anche se gli abbiamo in qualche modo
rotto i coglioni. Ma non lo faremo più e dopo attrezzeremo anche gli
ospedali e spenderemo tanti bei soldini per la Ricerca, per la
Scienza e non per andare al Centro commerciale a comprare l’inutilità
mortale nelle buste di plastica.
“Mi
spaventa non avere soluzioni da dare ai miei anziani genitori che
sono spaventati e ancor più fragili in questo frangente.”
Se
li hai adottati e li curi, quali altre soluzioni vuoi dare. Dialoga e
ascoltali, falli parlare in maniera che scaricano le tensioni e
restano connessi alla realtà, cazzeggia con loro, l’ironia fa bene
a tutti. Anche loro reagiscono a questo frangente storico secondo le
loro coordinate psichiche.
Ma
sai cosa ti dico?
Attenta
ai sensi di colpa!
Non
ti servono, più che mai adesso. Lo sai che i genitori scatenano
sensi di colpa. E’ una prerogativa e una specialità che i figli
hanno donato loro. La fragilità è un onore e un vantaggio nel
contesto drammatico che stiamo vivendo. Il “fantasma di morte”
agisce in maniera più incisiva nei giovani e nelle folle, piuttosto
che negli anziani che hanno in qualche modo maggiore confidenza con
la partenza e il distacco.
“Mi
spaventano anche le cose futili e inutili: il parrucchiere ha chiuso
e dovrò fare i conti con i capelli bianchi e sarò costretta a
pensare alla vecchiaia, la mia! non solo a quella dei genitori o a
quella che ho visto portarsi via i miei nonni, i miei zii. Ora tocca
a me e dovrò pensare anche a questo.”
Tutto
ciò che ci appartiene è importante perché è nostro, anche i
capelli bianchi e il pensiero della vecchiaia con la paura annessa.
A
cosa ti serve il “fantasma di morte”?
Sicuramente
a stare male e a non pensare nella maniera giusta che la vita è
adesso e che ti offre nella sua drammaticità un’opportunità
interessante di crescita e di maturazione.
Sai
quante discussioni farai con gli amici dopo la tempesta?
Sai
quante riflessioni si possono fare dopo trenta anni di pressapochismo
e di ignoranza nel nostro Belpaese?
Sai
quanti ospedali faremo costruire e attrezzare fra qualche mese?
Sai
quante evoluzioni faremo dopo l’impatto con la possibilità della
morte e la ferocia del microcosmo di un virus?
L’evoluzione
psichica richiede il suo tempo, ma quella culturale e politica
avverrà nel breve tempo. Anche la visione della vita e del vivere
sarà rivista e adeguata a queste esperienze vissute. Se ti angosci,
ti impedisci di riflettere, di capire e di cambiare. Razionalizza i
tuoi “fantasmi” e poi rimettili nel posto dove li hai trovati,
così come puoi fare per passare il tempo con quei cassetti ripieni
di fotografie e ricolmi di cianfrusaglie.
…
Già mi mancano le giornate che “avevano solo 24 ore”.
Il
dì e la notte non sono cambiati, sono sempre là, sono ancora dentro
la rotazione della Terra. Il Sole è sempre dentro il suo sistema e
dentro la sua casa, quella via fatta del latte di Era appena munto e
sprizzato dal vivace Eracle. La Natura e il Cosmo vanno avanti con i
loro progetti e non si affidano al Fato o alle acrobazie del circo
cinese e americano, procedono secondo la loro Ragione, sviluppano le
loro Logiche meccaniche, realizzano le loro finalità. Siamo noi
uomini dalle mille ambivalenze e dalle tante ignoranze che stiamo
cambiando. Questa benefica evoluzione non deve essere bloccata,
dobbiamo curare la presa di coscienza che l’eccezionalità del
momento induce e instilla, dobbiamo usare più che mai la testa e
non la pancia, dobbiamo ridimensionare quella concupiscenza del
ventre che Platone assegnava agli ignoranti della Verità, i mercanti
e i produttori, la folla dei bisognosi e la massa dei sudditi. Le
paure sono “resistenze” all’auto-consapevolezza e “resistenze”
all’afflusso dei nostri “fantasmi” rimossi. E’ il momento di
tirare fuori tutto quello che emerge dalle nostre profondità
psicofisiche con decisione e senza ritegno. Abbiamo davanti tante “24
ore” per migliorarci e per sentire il bisogno degli altri, più che
mai adesso che siamo costretti a tenerli lontani.
“Nel
tempo “spensierato”, durante le serate con gli amici,
quanti discorsi teorici sulla “decrescita felice” che
facevamo dall’alto delle nostre certezze e sicurezze. Eccoci
accontentati! Abbiamo l’occasione per sperimentarlo… ma sarà
davvero “felice”!
La
“decrescita felice” sarà meglio discussa dopo questa esperienza
drammatica, imprevista più che imprevedibile. Gli amici non faranno
più discorsi teorici di alta scuola dopo quello che stanno vivendo.
Le certezze e le sicurezze hanno toccato il basso, ma un basso tanto
basso che più basso non si può. L’Etica, possibilmente quella
venata di un laico Calvinismo, applicata all’Economia e alla
Sociologia, dopo la strizza al culo del “coronavirus” o
dell’assassino invisibile, ci dirà che la Felicità è in primo
luogo una dimensione interiore che deve sposarsi prima o poi con la
Ragione. E’ necessario un nuovo Rinascimento che metta la Natura al
centro dell’universo e l’Uomo come sua parte, un uomo consapevole
di essere più che mai “faber et arbiter fortunae suae”, un
Rinascimento che si sposi con un nuovo Illuminismo, un’età dei
Lumi arredata dalla sua bella e buona Ragione che dirime e dirige
tutti i processi umani. E allora potrà arrivare a noi tutti, dopo
aver esercitato il sacrosanto diritto di voto, anche il premio Nobel
per tanta rivoluzione culturale. Basterebbe leggere il Marx dei
“Manoscritti economici e filosofici”, quello giovane e pieno di
entusiasmi antimetafisici e nobilmente materialistici, per cominciare
a meditare sull’autogestione dei bisogni e sulla dose etica della
proprietà pubblica e privata. Se non rimuoveremo l’esperienza
psichica in atto e se non cadremo nelle spire degli incantatori di
serpenti che dai media circuiscono i tontoloni, la rivoluzione felice
potrà iniziare sotto la buona stella del pericolo corso e mai
tramontato.
“Intanto
ho iniziato il mio primo giorno di pandemia con qualche lacrima
dettata dall’ansia e mi attacco, come ad una fede, al mantra “andrà
tutto bene! andrà tutto bene! andrà tutto bene!”…. ma andrà
davvero tutto bene?”
Il
Virus ritornerà nei suoi ambiti microcosmici, la Scienza scoprirà
come addomesticarlo, l’Umanità riscoprirà la sua giusta
dimensione di fronte alla Natura offesa e umiliata, la Politica farà
le scelte giuste per il cittadino. Purtroppo la Psicologia continuerà
a essere subalterna a tutte le altre discipline e la Psicoanalisi si
divertirà a cazzeggiare con i suoi castelli in aria. La Vita
continuerà la sua evoluzione e Darwin sorriderà sornione dietro le
nuvole del cielo di questo Marzo così originale e così cagone. Le
lacrime vanno sempre bene perché sono salate e qualsiasi minestra ha
bisogno di sale per essere gustosa. Attacchiamoci a tutti i mantra e
a tutte le sacralità catartiche perché
TUTTO
ANDRA’ BENE PERCHE’ ANDRA’ COME NATURA ESIGE CHE VADA.
E
TUTTO ANDRA’ SECONDO LA NECESSITA’ LOGICA DELLA NATURA E NEL
PIENO RISPETTO DELLE LEGGI CHE REGOLANO IL SUO MECCANICISMO E IL SUO
FINALISMO.
Questa
garanzia è l’unica consolazione che ci solleva: “natura non
procedit per saltus”: il principio greco dell’uniformità della
Natura che esige il possesso di un iter che l’uomo può conoscere e
prevedere tramite la SCIENZA.
Attualmente
siamo tutti in fuga dal virus o lo stiamo bastonando per renderlo
innocuo. La sua materia e il suo progetto in parte ci sfuggono,
sappiamo che può farci tanto male, ma indubbiamente ha una grande
bellezza dentro e merita tanto di cappello. Quando i ricercatori lo
conosceranno ben bene, sarà un buon convivente come tutti i suoi
fratelli che si sono presentati e che abbiamo esorcizzato nella loro
cattiveria sin dall’età del vaccino e della farmacologia.
Intanto
buona lettura del Decameron del Boccaccio, della Peste di Camus, dei
Promessi sposi di Manzoni, dei Buddenbrook di Mann. Anche un buon
Topolino aiuta a vivere una giornata strana perché naturale. Se ami
le ampie volute del tuo divano, le commedie di Eduardo De Filippo
sono indicate per sorridere e sorriderci sopra.
“Un
sogno ricorrente che facevo da bambina era vedere la mia casa che
andava a fuoco.
L’angoscia
che ne derivava era tanta perché immaginavo che assieme alla casa
fossero bruciati anche i miei genitori.
Il
sogno si presentava d’estate quando ero in colonia, posto dove non
mi piaceva stare e che mi provocava disagio e forte nostalgia di
casa.
Anche
quando tornavo a casa, alla fine delle tre settimane, il disagio si
ripresentava con crisi di pianto che non riuscivo a trattenere
all’ora di pranzo o cena, quando ci si trovava insieme a tavola e
che mi provocava ansia perché non capivo cosa mi stava succedendo.”
Pulcino
DECODIFICAZIONE
E CONTENUTO LATENTE
CONSIDERAZIONI
PERSONALI
La
“colonia estiva” era il toccasana per le famiglie numerose e per
i genitori improvvidi che popolavano l’Italia fascista e post
fascista, più che democratica e repubblicana. Eravamo tanto poveri
in tutti i sensi, c’era poco da mangiare, eravamo tutti magri, la
dieta era naturale e non prescritta da alcun medico, i morsi della
fame ti braccavano di notte e nel mezzo del sonno ti svegliavi con la
dolorosa contrazione dei muscoli dello stomaco. Il Regime aveva messo
a dura prova l’italica Intelligenza e la crudele Guerra aveva
distrutto il bel Paese. L’oro era stato regalato alla Patria in
cambio del vile metallo. Conservo ancora le “fedi” di ferro che
erano state date ai miei genitori in cambio degli anelli nuziali
d’oro. Che brutto imbroglio!
E
i bambini?
I
bambini non stavano a guardare, erano sempre impegnati perché
l’Italia fascista aveva un culto per l’infanzia e per
l’educazione della nuova generazione agli inossidabili valori della
Famiglia, della Patria, del Dovere, del Duce, del Libro e del
Moschetto. I libri sussidiari delle scuole elementari avevano proprio
l’intento di coniugare lo studio e le armi, la grammatica e la
pratica, la forza e la vittoria. Tra padri fanatici e madri
necessariamente compiacenti l’Italia andava verso i destini
imperiali in Africa. Intanto le colonie estive al mare o in montagna
prosperavano sotto l’egida della benemerita “Opera dei balilla e
dei figli della lupa”, le organizzazioni per l’assistenza e
l’educazione fisica e morale della gioventù. Tutti in divisa ed
equamente divisi in maschi e femmine, come nelle scuole. E di bambini
ce n’erano tanti e tanti, tutti quelli che sopravvivevano al parto
e alle malattie epidemiche. Si calcolava che una donna diventava
madre a diciotto anni e di anno in anno procreava con indiscutibile
chirurgica precisione per dare i figli alla Patria e per compiere il
suo Dovere di femmina e di italiana. Le politiche per l’incremento
demografico colmavano la misura e premiavano con qualche lira la Vita
che si affermava sulla Morte. Eros e Thanatos erano sempre insieme e
sempre in conflitto. E d’estate si andava tutti al mare non per
mostrare le chiappe chiare, ma per educarsi ai valori della Famiglia,
della Patria e del Dovere. E se tu non facevi parte del coro, se
facevi lo sberleffo al Duce, le manganellate e le purghe di olio di
ricino erano belle e pronte per farti cambiare idea. Oppure il Regime
ti mandava a sue spese in una “colonia penale”, una colonia non
estiva ma punitiva, un carcere o un penitenziario a scelta tra queste
bellissime isole italiane: Pianosa, Tremiti, Montecristo,
Pantelleria, Capraia, Ventotene, Ponza. Favignana.
Che
tempi erano quei tempi!
Qualche
grillo parlante ieri e oggi immancabilmente dice che sono passati, ma
non c’è niente di più falso. Il Fascismo era apparentemente
passato perché la sua nefasta Cultura era intatta nell’animo
“imprittato” dei sopravvissuti alla barbarie politica e alla
furia omicida degli invasori. La Scuola era autoritaria e per niente
a misura di bambini, nonostante Maria Montessori e la scuola di
Barbiana inventata da un prete di campagna, don Lorenzo Milani. Anche
l’Italia repubblicana con finalità democratiche ha portato avanti
negli anni cinquanta e sessanta il costume toccasana della “colonia”
e del “collegio” laico o religioso, organi micidiali per
l’infanzia e per l’economia psichica dei bambini. In famiglia e a
turno i genitori seminavano il terrore per ottenere l’ordine con la
famigerata frase “se non fai il bravo, ti mando in collegio”. La
“colonia” sbarellava l’infanzia già precaria di suo e
rafforzava i “fantasmi” già inquieti per natura. Se si era
fortunati c’era qualche ente comunale o statale o di categoria che
d’estate raccattava i poveri bimbi italiani e li collocava nelle
località amene del paese per farli divertire e per nutrirli meglio,
per educarli a essere forti e liberi, per essere migliori cittadini e
provetti cristiani. I moderni e repubblicani ricoveri erano gestiti
da suore e da educatori dello stampo ideologico e culturale
postbellico. In tanta benefica disgrazia si esaltavano e si
incrementavano i disturbi psicosomatici dell’infanzia e
dell’adolescenza, del tipo le conversioni isteriche e le
somatizzazioni dell’angoscia, i disturbi dell’appetito, del
sonno, della respirazione, della vescica e altro a volontà e al
vostro buon cuore. Ogni bambino aveva già il suo organo debole e la
sua funzione precaria. Qualche bambino era già malato di tubercolosi
o di enuresi, di asma o di anoressia. La lontananza dalla famiglia e
dalla casa esasperava l’equilibrio psichico, strizzava la Psiche
come un cencio e le scariche delle tensioni facevano il resto
portando a compimento l’opera nefasta iniziata dai genitori e
consumata dagli educatori.
E
la mia famiglia?
I
miei fratelli scapparono di notte dalla colonia di montagna e secondo
le dinamiche delle favole dei fratelli Grimm alla ricerca della mamma
e del papà, angosciati come se fossero stati strappati al grembo e
al nido. Furono riacciuffati e adeguatamente puniti, ma non furono
espulsi come avrebbero gradito. Le altre mie sorelle si facevano
compagnia: di giorno si tenevano per mano e di notte si
addormentavano abbracciate.
Ma
si era stupidi o si era bambini?
Si
era bambini.
Io
ero un gran mascalzone e mi ero catapultato direttamente a casa dopo
i primi giorni di noia e di insopportabile disciplina. Io non facevo
la pipì a letto di notte, ma il bambino che dormiva nel letto a
castello sopra di me, purtroppo per lui, era enuretico. E i maestri?
Ci picchiavano con le bacchette di bambù nelle nocche delle dita se,
per caso, eri normalmente vivace. Ricordo che sono scappato dalla
colonia marina direttamente dal gabinetto e dopo essermi
letteralmente cagato addosso perché non ero riuscito a liberarmi dai
legacci a forma di bretelle che la suora aveva incrociato al mattino
per darmi una mano a vestirmi. Riuscii a fare quei pochi chilometri
in tanto travaglio, ma il ritorno a casa fu un nuovo dramma perché
mio padre non condise la mia decisione e fece ballare la cinghia di
cuoio di fronte all’indisciplina. Quella fu la mia prima vittoria
sulla sopraffazione. Io soffrivo di broncospasmo dentro l’umido
scirocco dell’isola di Ortigia e a causa del naturale “fantasma
di abbandono”. La diagnosi della vecchia maga, a cui mia madre si
era rivolta per un piatto di ceci, era stata la seguente: “stu
picciriddru iavi u scantu” o “questo bambino soffre di spavento”.
Una diagnosi in linea con la Psicoanalisi di Freud e con la Medicina
psicosomatica di Georg Groddeck o di Franz Alexander. Mia madre,
intanto e in attesa di farmaci migliori, mi curava con il benefico
balsamo “vicks vaporub” e mi ungeva il petto con tutto il suo
amore. Lei sapeva che questa era la cura migliore e che la “colonia”
era un inferno per i bambini, ma il suo “sapere” era tenuto in
poco conto.
Chiudo
il serbatoio dei ricordi e delle riflessioni personali per passare al
racconto e al sogno della bambina Pulcino.
Niente
di nuovo sotto il sole!
Sono
confermate le psicodinamiche di abbandono e i “fantasmi”
associati secondo le coordinate dell’angoscia e della
somatizzazione: “conversione isterica” e “formazione di
sintomo” in attesa della benefica e salutare “razionalizzazione”
del rimosso o della “presa di coscienza” del “ritorno del
rimosso”, quel rigurgito psichico causato da pensieri
incontrollabili o da eventi casuali.
“Un
sogno ricorrente che facevo da bambina era vedere la mia casa che
andava a fuoco.”
Il
“sogno ricorrente” attesta la tesi che vuole la Psiche
occupata per un periodo di tempo dal materiale emerso e in corso di
elaborazione al fine di poter operare un ordinato smaltimento dei
“fantasmi” e dei vissuti, al di là della loro qualità. Esempio:
la conflittualità traumatica è soltanto un parte di questo
contenuto introiettato. La Psiche è intenzionata, è diretta e si
dirige verso esperienze possibili di quel tipo e di quella qualità.
Il sogno esprime sempre e soltanto il materiale psichico in atto. Il
sogno “ricorrente” conferma la “teoria della persistenza” e
ha la benefica funzione di smaltire le energie nervose in eccesso,
quelle che disturbano l’equilibrio omeostatico e hanno
necessariamente bisogno di essere trattate, ripulite ed espulse.
“Da
bambina” dimostra che l’infanzia e l’adolescenza sono tappe
evolutive delicate e intense, proprio perché ricche di novità e di
forti emozioni. Pulcino si trova addosso i vissuti e i “fantasmi”
delle “posizioni orale, anale e fallico-narcisistica” ed è in
procinto di partire per la conflittualità “edipica” con i
genitori. Vedi che trambusto e che complicazione abitano nell’animo
di una graziosa “putea”?
“Vedere”
equivale a una salutare forma di “presa di coscienza” compatibile
con l’età e con la funzione “Io”. Purtroppo questa
consapevolezza è simbolica e non si evolve in una “presa di
coscienza”, ma se ci fosse stato lo psicologo a interpretare il
sogno della bambina, la consapevolezza da simbolica sarebbe diventata
razionale e avrebbe apportato una ventata di aria pura nella stantia
atmosfera sub-liminare o subconscia. Spiegare a una bambina che si
tratta di una psicodinamica e che significa quel che significa, è
semplicemente salutare.
“La
mia casa” si riduce simbolicamente alla mia struttura psichica
evolutiva, alla mia “organizzazione psichica reattiva”, alla “mia
casa psichica” con annessi d’arredo e connessi abitativi. La “mia
casa” attesta di un buon amor proprio e di un incipiente senso
dell’Io. Pulcino ha i piedi per terra, ma non può evitare a se
stessa i traumi inferti dal destino infame e dalla superficialità
culturale dei suoi genitori.
“Andava
a fuoco” si traduce in un investimento eccessivo di “libido”,
in un eccesso di tensione nervosa direttamente proporzionale al
trauma subito e in corso di smaltimento. La Psiche è interessata da
un afflusso improvviso di tensioni collegate alle paure e alle
angosce che la bambina Pulcino sta vivendo e sperimentando sulla sua
pelle. Questo vale per la bambina. Di per se stesso il “fuoco”
simboleggia la purificazione estrema dai sensi di colpa e la
metamorfosi dei contenuti psichici in gestione tramite i “meccanismi
di difesa” atti a commutare i vissuti magari nell’opposto e a
deprivarli della loro carica autolesionistica e distruttiva:
“isolamento”, “intellettualizzazione”, “annullamento”,
“volgersi contro il sé”, “formazione reattiva”,
“sessualizzazione”, “sublimazione”, “formazione di
sintomo”, “conversione isterica”.
“L’angoscia
che ne derivava era tanta perché immaginavo che assieme alla casa
fossero bruciati anche i miei genitori.”
“L’angoscia”
è la tensione nervosa che consegue a una paura senza oggetto
specifico, deriva dal tedesco antico “angst” che si traduce “mi
stringe” e si caratterizza a livello somatico per un nodo alla gola
che ostacola il corretto e naturale andamento del respiro: blocca la
fisarmonica. Spiego meglio: “l’ansia” è la tensione nervosa
necessaria per affrontare un pensiero o un’impresa, la “paura”
è la giusta e naturale tensione verso il pensiero e l’impresa, la
“fobia” si attesta nello “spostamento” inconsapevole
dell’oggetto dell’ansia e della paura in un altro oggetto che lo
rievoca, “l’angoscia” è una dolorosa reazione nervosa senza un
manifesto oggetto esterno, è un accadimento psichico interno e
apparentemente privo di causa. Pulcino reagisce al trauma
dell’incendio della sua casa, all’angoscia della mancata
consapevolezza della sua intensa rabbia distruttiva, all’impotenza
di capire e di reagire, con l’angoscia di cui si è detto. Pulcino
sta doppiamente male, per il trauma reale esterno e per la tensione,
altrettanto reale, interna: “l’angoscia era tanta”.
“Immaginavo”
spiega la formazione del “fantasma”, l’allucinazione che
condensa il trauma interno ed esterno: “assieme alla casa
fossero bruciati anche i miei genitori.” Attenzione! La bambina
Pulcino associa il suo tormento psicofisico, l’angoscia,
all’autodistruzione, una pulsione sadomasochistica, che coinvolge i
suoi “genitori”. Spiego meglio: la bambina scarica la sua
aggressività contro se stessa e contro le persone responsabili della
sua angoscia, i genitori. Lei si è sentita morire e loro erano stati
insensibili, non l’avevano difesa da questo tormento struggente.
Sembra che la bambina tema l’abbandono e la solitudine, ma in
effetti sta reagendo simbolicamente all’abbandono da parte dei suoi
genitori formulando la giusta allucinazione, il “fantasma
depressivo di perdita”.
“Il
sogno si presentava d’estate quando ero in colonia, posto dove non
mi piaceva stare e che mi provocava disagio e forte nostalgia di
casa.”
Tutto
il quadro si compone nelle forme giuste e consequenziali. La bambina
Pulcino elaborava questo sogno in una precisa contingenza della sua
infanzia e adolescenza, “d’estate quando ero in colonia”.
La “colonia”, il soggiorno estivo che si dispensava ai
bambini fortunatamente nei tempi andati o per divertimento o per cura
ricostituente, incorreva in una dolorosa esperienza di perdita e
ridestava il “fantasma” che i bambini avevano elaborato per conto
loro e secondo natura nella “posizione psichica orale” e nel
primo anno di vita in riguardo all’abbandono della mamma e
all’inedia conseguente. E giustamente la bambina Pulcino conferma
che era un “posto dove non mi piaceva stare e che mi provocava
disagio e forte nostalgia di casa.” Ecco spiegata la “sindrome
dell’abbandono” meglio di uno specialista e di un teorico. Essa
consiste nel dolore depressivo legato alla perdita dell’agio e del
ritorno, nel cambiamento del luogo e nella difficoltà
all’adattamento. Questo quadro è apparentemente esterno, ma in
effetti è tutto interiore. Non si tratta di un’incapacità
dell’intelligenza operativa della bambina Pulcino, la capacità di
adattamento nello specifico, ma emerge uno psicodramma struggente e
sottile che si consuma in maniera traumatica e addirittura
condizionando di brutto la formazione psichica in atto anche in base
a quanto Pulcino aveva elaborato nel “fantasma di abbandono”
durante il primo anno di vita e negli anni successivi. Mi spiego
meglio. Se il bambino e l’adolescente hanno esaltato il nucleo
psichico depressivo della perdita perché ci hanno troppo filato
sopra, ampliamento del “fantasma”, e perché effettivamente hanno
subito delle perdite significative, basta anche la morte di un
animale e non necessariamente di un familiare, ecco che allora
l’esperienza traumatica della “colonia” diventa veramente
pericolosa perché cementa e struttura il nucleo depressivo che può
a macchia d’olio allargarsi ed esplodere nel tempo in una sindrome
depressiva. Se invece il bambino o l’adolescente non hanno
elaborato e infiorettato il solito “fantasma depressivo di
perdita”, allora l’esperienza della colonia resta sempre
traumatica, ma viene assorbita e risolta come un tratto depressivo e
una sensibilità alla perdita restando in un ambito clinico
conflittuale, “psiconevrosi depressiva”. E la stessa bambina
Pulcino insegna che il “rifiuto del posto”, il “disagio” e la
“forte nostalgia di casa” sono conflitti interiori e si traducono
nei seguenti tormenti.
Il
“rifiuto” non è topico e logistico, del luogo e del
posto, ma è la “traslazione” dell’aggressività diretta verso
i responsabili adulti di questa infame trovata, gli artefici di tanto
intrattabile dolore, i genitori, proprio loro. La bambina si trova di
fronte alla costrizione di vivere un’esperienza che non riesce a
capire e a giustificare. Si chiede: “ma perché i miei genitori mi
mandano via di casa?”, “perché non mi vogliono più bene?”,
“ma cosa avrò fatto di male per essere punita in questo modo?”
La bambina Pulcino si ritrova dentro vissuti spropositati e deve
affrontare emozioni intense rispetto al fatto in se stesso, tutto
quel marasma psichico che va dall’odio verso i crudeli genitori al
senso di colpa per averli odiati. I genitori dicono a loro volta:
“vai a divertirti con gli altri bambini”,”ti fa bene alla
salute l’aria del mare o della montagna”, “vedrai che impari
questo e impari quello”. La bambina ribatte dentro di lei “ma io
sto bene con voi e a casa mia”, ma è costretta dal bieco
autoritarismo dei genitori a ubbidire e a soccombere.
Il
“disagio” non si attesta nella mancanza dell’agio di cui
gode in casa. Anche in questo caso il vissuto non è diretto verso
l’esterno, ma verso l’interno e si traduce in un conflitto
psichico e in una disarmonia psicofisica perché inevitabilmente le
tensioni in eccesso vengono somatizzate e sono di lesione alle
funzioni organiche. La prima a essere colpita è la respirazione.
Prima di addormentarsi il bambino sente che il respiro non va in
fondo, che fa fatica a respirare, che gli manca il fiato e che la
fisarmonica non si apre tutta. Il respiro è collegato elettivamente
alla figura materna essendo una funzione vitale ed essendo la madre
la persona e la figura deputata alla vita. Anche l’enuresi, la pipì
notturna, (il mancato controllo della funzionalità della vescica
dovuta a un afflusso di tensione nervosa destato dall’emergere in
sogno del “fantasma” che apre la valvola di scarico e risolve in
parte l’angoscia), è in agguato insieme alla grande vergogna di
aver bagnato il lenzuolo. Si ridestano tutti gli “organi deboli”
e le funzioni delicate sotto lo stimolo incessante del “fantasma di
abbandono”, la versione evoluta del “fantasma di morte in vita”.
Di poi, l’eccesso emotivo durante il giorno si può convertire
nell’umore o nell’appetito, nella tristezza e nella distorsione
della percezione della fame. Il momento più brutto della giornata
per il bambino abbandonato in colonia è la sera, quando va a
dormire. Prima di prendere sonno affluiscono nella sua mente un mare
di ricordi e di dolorose fantasie che aumentano a dismisura il tenore
nervoso. Il pianto è il primo “meccanismo di difesa”, ma non
tutti i bambini fanno ricorso alle lacrime per scaricare la tensione
dell’angoscia di trovarsi soli in un mondo sconosciuto e infido.
Ripeto, la mancanza di agio, “disagio”, è tutta interiore, una
disarmonia tra le angosce e la realtà, un eccesso di tensione
nervosa che disturba l’equilibrio psicosomatico.
La
“forte nostalgia di casa” è sempre un’elaborazione
interiore del trauma dell’abbandono e delle degne tensioni che si
scatenano nel teatro psichico della bambina Pulcino. “Nostalgia”
si traduce dal greco “dolore del ritorno” ed è la “sindrome di
Ulisse”, almeno così come lo presenta Omero nella sua “Odissea”.
Dopo aver peregrinato per volontà punitiva degli dei nel
Mediterraneo e per ben dieci anni, Ulisse finalmente può rientrare a
Itaca per ritrovare il padre Laerte, il figlio Telemaco e la moglie
Penelope. La bambina si trova in colonia, lontano dai suoi genitori e
dalla sua casa, e sente forte lo struggimento del ritorno.
Chi
poteva garantire la bambina sul ritorno a casa e chi poteva
rassicurarla sull’amore dei suoi genitori?
Questo
è un punto molto delicato della “sindrome di abbandono”.
L’angoscia domina qualsiasi rassicurazione sul ritorno in famiglia
e sul ripristino della normalità. Di giorno si manifesta la paura,
di notte quest’ultima traligna nell’angoscia perché emergono i
“fantasmi” nella fase ipnoide del sonno, prima di addormentarsi e
quando si è ancora abbastanza svegli e consapevoli.
“Anche
quando tornavo a casa, alla fine delle tre settimane, il disagio si
ripresentava con crisi di pianto che non riuscivo a trattenere
all’ora di pranzo o cena, quando ci si trovava insieme a tavola e
che mi provocava ansia perché non capivo cosa mi stava succedendo.”
Il
danno psichico non era da poco e aveva i classici strascichi del
trauma di abbandono. Ripeto: già il bambino lo elabora da sé e tra
sé e sé anche nelle migliori e protettive situazioni familiari,
anzi più protetto e sicuro è e si sente e ancor di più e più
facilmente pensa alla situazione opposta e scatena le sue fantasie di
abbandono e di solitudine e di morte per inedia. Tre settimane di
soggiorno in colonia sono micidiali per la sensibilità della bambina
e hanno tutte le condizioni per inserirsi tra le pieghe profonde
della sua Psiche. Quando il sistema psichico non riesce a contenere
l’angoscia e la tensione nervosa, ecco che arriva immancabilmente
il disturbo psicosomatico, la “conversione isterica” o la
“formazione del sintomo” facendo perno sulla memoria
dell’esperienza vissuta. Le crisi di pianto sono classiche ed
elementari e sono la migliore scarica della tensione nervosa, la
reazione naturale e universale. Se poi avvengono davanti alla tavola
imbandita e al simbolo dell’unità familiare, ecco che il pianto si
collega logicamente come una “metonimia”, figura retorica, a
ricordare che il trauma e le lacrime sono l’eredità di quella
mutilazione temporanea degli affetti familiari di cui il bambino ha
sofferto. Pulcino, non sapendo a cosa collegare queste lacrime, si
meraviglia e si addolora ancora di più sentendosi fuori posto o
malata, comunque in crisi. La Psiche camuffa ma non dimentica e
ripropone in altre forme il trauma e lo rappresenta con una logica
associativa e simbolica nella veglia, come succede nei sogni. Anche i
sintomi non avvengono a caso, ma sono rappresentativi della qualità
del trauma e dell’angoscia, come ho detto in precedenza. Riguardano
la sfera affettiva e gli apparati e le funzioni che simbolicamente
sono investite di quel significato: il respiro e lo stomaco in
rievocazione dell’amore materno, la vescica in liberazione
dell’angoscia che si accumula nel sonno e in sogno. Niente avviene
a caso e tutto ha una sua finalità, una sua teleologia.
Questo
è quanto potevo dire sull’esperienza umana e onirica della bambina
Pulcino.
PSICODINAMICA
Le
note oniriche rilevano ed evidenziano in maniera sintetica ed
efficace la psicodinamica collettiva e universale della “sindrome
di abbandono” e del “fantasma di morte” nella versione “orale”,
quello elaborato nella “posizione psichica orale” e intenzionato
espressamente alla sfera affettiva. La bambina Pulcino rievoca nei
suoi ricordi l’angoscia e il dolore del trauma, nonché la
struggente nostalgia di un ritorno in famiglia e il desiderio di
ripristinare la sua armonia psicofisica dopo il notevole turbamento.
Lo strascico psicosomatico conferma la persistenza nel tempo
immediato, nel futuro prossimo e nel futuro remoto, dell’universalità
dei sintomi, della condivisa simbologia e del comune Linguaggio del
Corpo. Questa tesi è stata elaborata da Franz Alexander nella sua
miliare “Medicina psicosomatica” e da Georg Groddeck nel suo
originale e prezioso “Il libro dell’Es”.
PUNTO
CARDINE
Nel
breve sogno di Pulcino il punto cardine dell’interpretazione è
“assieme alla casa fossero bruciati anche i miei genitori.”
Questa precisazione non contempla il conflitto edipico, ma si
riferisce alla prima infanzia e al legame di dipendenza affettiva
della bambina dal padre e dalla madre, relazione e intensità
equamente distribuite.
ULTERIORI
RILIEVI METODOLOGICI
Nel
breve sogno di Pulcino sono presenti i “simboli” della “casa”,
del fuoco”, della “colonia”.
Si
evidenzia l’archetipo “Corpo” nell’essere portatore di
angoscia e nel rappresentare la “sindrome dell’abbandono”.
Si
manifesta il “fantasma di morte” nella versione “orale”,
l’affettività e l’abbandono.
E’
presente l’istanza psichica deputata alla consapevolezza vigilante,
l’Io, in “non capivo cosa mi stava succedendo” e in “vedere”,
l’istanza pulsionale “Es” in “la mia casa che andava a
fuoco.” e in “immaginavo che assieme alla casa fossero bruciati
anche i miei genitori.”. L’istanza censurante e limitante
“Super-Io” non si manifesta.
Nel
breve sogno di Pulcino è rispolverata la “posizione psichica
orale”, la dimensione affettiva elaborata e assimilata nel primo
anno di vita e portata avanti nel corso dell’evoluzione
psicofisica.
I
“meccanismi psichici di difesa” usati da Pulcino nel sogno sono
la “condensazione” in “casa” e in “fuoco”, lo
“spostamento” in “colonia” e in “bruciati”, la
“figurabilità” in “vedere la mia casa che andava a fuoco.” e
in “assieme alla casa fossero bruciati anche i miei genitori.”.
Il sogno di Pulcino mostra in maniera chiara il “meccanismo
psichico di difesa” della “conversione isterica” ossia di come
l’angoscia si somatizza nel sintomo o in una serie di sintomi: “il
disagio si ripresentava con crisi di pianto”.
Il
processo psichico di difesa della “regressione” è presente nei
termini richiesti dalla funzione onirica. Non è presente l’azione
purificatrice e benevola della “sublimazione della libido”.
Il
sogno ricorrente di Pulcino evidenzia un tratto “orale”
all’interno di una “organizzazione psichica reattiva” a
dominanza “orale”. Mi spiego meglio: si tratta di un sogno
dell’infanzia a stretto dominio affettivo e non evidenzia la
maturazione psichica di Pulcino. Si può affermare che la
protagonista adulta è molto sensibile alla vita affettiva e al suo
esercizio, tratti ereditati da quel periodo e rafforzati da quella
triste esperienza.
Le
“figure retoriche” elaborate dalla Fantasia creativa di Pulcino
sono la “metafora” o relazione di somiglianza in “fuoco” e in
“casa”, la “metonimia” o relazione di senso logico in
“colonia”. L’allegoria dell’abbandono si colloca in “ posto
dove non mi piaceva stare e che mi provocava disagio e forte
nostalgia di casa.”
La
“diagnosi” dice di angoscia d’abbandono somatizzata in maniera
elettiva e non a caso o alla carlona, ma in organi significativi come
gli occhi.
La
“prognosi” impone a Pulcino di considerare sempre la sua
sensibilità alla perdita affettiva e di rincuorarla con
l’esternazione della sua carica “orale”: giovialità e
partecipazione emotiva.
Il
“rischio psicopatologico” si attesta in un “ritorno del
rimosso” e nella somatizzazione d’angoscia in un sintomo elettivo
degli affetti come lo stomaco e il respiro: “conversione isterica”
o “formazione di sintomo”.
Il
“grado di purezza onirica” si può stimare “buono” dal
momento che il sogno è ricorrente e verte su esperienze vissute. Non
esistono contaminazioni e accrescimenti da parte dei “processi
secondari” al risveglio perché la trama è semplice e lineare.
Il
“resto diurno” del “resto notturno”, la causa scatenante del
sogno di Pulcino è sempre l’associazione al trauma vissuto nella
piena consapevolezza e reiterato, vissuto più volte. Magari nel
pomeriggio Pulcino ha pensato ai suoi genitori o ha vista una bambina
e di notte il sogno era pronto a manifestarsi.
La
“qualità onirica” è la “semplicità” e l’umanità del
tema.
Il
sogno di Pulcino può vedere la luce nella seconda fase del sonno REM
e nel passaggio alla fase nonREM. Questo non è un sogno da quasi
risveglio perché ha un simbolismo forte ed efficace.
Il
“fattore allucinatorio” si mostra nel senso della “vista” in
“vedere la mia casa che andava a fuoco.”
Il
“grado di attendibilità” dell’interpretazione del sogno
ricorrente di Pulcino è “massimo” alla luce dell’evidenza
supportata dalla protagonista. Il “grado di fallacia” è minino”.
DOMANDE
& RISPOSTE
A
grande richiesta è tornata la signora Maria, veneta a denominazione
di origine controllata ma non fanatica da “Liga” o da “Repubblica
serenissima di san Marco”, con la sua terza media e con
l’esperienza collaudata di mamma, una donna massiccia e pratica che
legge tanto e che ama essere informata, una donna tosta che non te le
manda a dire.
Domanda
Proprio
vero e comincio subito. La volta scorsa mi ha spiegato “Ultimo
tango a Parigi”, questa volta mi deve spiegare “l’alienazione
parentale”. Mi deve dire che cos’è e cosa ne pensa. Ne hanno
parlato in televisione a “Presa diretta” insieme a un progetto di
legge sull’affidamento dei figli.
Risposta
“Presa
diretta” è un ottimo programma di inchiesta giornalistica.
Riccardo Iacona e i suoi collaboratori sono professionalmente capaci
e socialmente impegnati, all’incontrario di tanti giornalisti
polemici e saccenti, fanatici e prevaricatori che occupano tanto
spazio dentro il video di questo o di quell’editore. Provo a
rispondere alla tua domanda, ma vado a salti. Il progetto di legge in
discussione presso la commissione parlamentare prende il nome dal
senatore leghista che lo ha proposto, l’avvocato Stefano Pillon, e
tende a rivedere l’affidamento dei figli con particolare attenzione
alla figura paterna, all’assegno mensile e con la convinzione di
fondo che la madre sia privilegiata dalla Legge a livello economico e
a livello affettivo e psicologico. Infatti, questa proposta di legge
tende a eliminare nell’affidamento condiviso la quota finanziaria
che il padre è tenuto a versare alla madre per il mantenimento dei
figli e propone tempi uguali per il soggiorno e l’educazione. Per
questi scopi la proposta Pillon fa riferimento alla “sindrome di
alienazione parentale o genitoriale”, PAS, elaborata nel 1985 dal
medico americano Gardner, da lui definita come una sindrome
psichiatrica. Questa neonata malattia non è stata accettata dagli
organismi internazionali sulla pubblica Salute e, nello specifico,
sulla Salute mentale. Purtroppo, questa sindrome in tanti casi è
stata fatta propria da qualche giudice americano e non. L’ideatore
dell’alienazione parentale sostiene che uno dei genitori viene
estromesso dalla famiglia dopo la rottura della coppia e viene
distolto dall’esercizio psicologico ed educativo dei figli. Nello
specifico storico e senza tanti fronzoli la madre, nel novantanove
per cento dei casi, scredita costantemente la figura paterna al punto
di suggestionare il figlio o la figlia nel rifiuto del padre fino a
indurli a non frequentarlo più. Questo diabolico condizionamento
materno consente di formulare la tesi che nelle separazioni c’è un
genitore “alienante” e un genitore “alienato”. Gardner
formula anche una griglia con precisi criteri per l’individuazione
e la diagnosi della “sindrome di alienazione parentale”. Insisto
nello spiegare che se un figlio di separati rifiuta uno dei genitori
e non vuole più andare da lui per vivere nei giorni prescritti dalla
Legge e dal giudice, c’è una madre o un padre “alienante” e
una madre e un padre “alienato”. Quest’opera di alienazione
avviene tramite messaggi costanti di discredito e suggestioni di
rifiuto. Tanta roba viene inoculata ad arte dai genitori facendo
perno sull’attaccamento affettivo e sulla dipendenza psichica del
figlio o della figlia. Questi ultimi non vogliono vedere e
frequentare il padre perché sono stati oggetto di smaccato plagio e
di subdolo indottrinamento. In ogni caso non hanno scelto di loro
arbitrio e volontà. Tutto questo casino psicodinamico è una
ideologia che va concretamente contro la madre e la donna. E’ lei
l’artefice del misfatto. Chiaro? Ma non finisce qui. Bisogna
ricordare sempre che le conquiste fatte dalla donna in riguardo ai
diritti civili oggi stanno subendo un duro attacco da parte di gruppi
fondamentalisti cattolici medioevali e da parte della Lega che è al
governo con tutto il suo scarno bagaglio di cultura storica e di idee
portanti, con le sue fobie casalinghe e le sue paranoie
piccolo-borgesi.
Domanda
Sì,
ma lei, lei dottor Vallone, cosa dice a proposito?
Risposta
La
terminologia “alienazione parentale” è confusa e il significato
è ambiguo. Riguarda, infatti, i figli come soggetto e oggetto di
alienazione, un genitore come oggetto alienato e l’altro genitore
come soggetto alienante. La questione psichica è tremenda e
complessa, specialmente se a essere l’artefice di tanto diabolico
misfatto è la madre. I figli sono affetti da questa terrificante
sindrome e sono oggetto in quanto sono stati condizionati da un
genitore, l’alienante, e sono soggetto in quanto rifiutano l’altro
genitore, l’alienato. Preciso che in Psicopatologia il termine
“alienazione” richiama il “meccanismo psichico di difesa”
della “scissione dell’Io”, il cui uso dispone a una sindrome
pesante di perdita di contatto con la realtà e a quella che si
definisce in gergo la “follia”. Il quadro dell’alienazione
parentale è esagerato nei termini e nella realtà. Io ritengo che
queste posizioni pseudo psichiatriche e giuridiche, progetto di legge
Pillon compreso, hanno in primo luogo una base culturale di
manifesta, più che occulta, “misoginia”, odio contro le donne.
La donna madre viene discriminata e vilipesa nel suo essere stimata
la causa attiva di una difficile e complicatissima questione,
l’accettazione da parte dei figli della figura paterna. Non
soltanto, ma la madre viene sminuita nel ruolo e nelle funzioni
psicofisiche pregresse e in atto. La madre ha accudito i figli anche
andando a lavorare e adesso viene accusata di approfittare della
Legge per derubare in ogni senso l’ex marito e il padre dei suoi
figli, riducendolo al lastrico e in certi casi all’accattonaggio,
per l’obbligo di versare la quota mensile stabilita dal giudice
all’atto della sentenza di separazione. E allora il padre dal
profondo del suo amore verso i figli chiede di non versare più il
becco di un quattrino e di avere lo stesso trattamento logistico
dell’ex moglie: il figlio starà tre giorni con il padre e tre
giorni con la madre e la domenica sarà distribuita equamente. Ogni
genitore manterrà economicamente il figlio senza dover dare
all’altro alcunché, dividendo soltanto le spese straordinarie. Se
questo non viene accettato dalla madre, che si è ampiamente
sacrificata nel crescere il figlio e se quest’ultimo rifiuta di
andare dal padre, allora si tratta di “alienazione parentale”: la
madre ha fatto il lavaggio al cervello al figlio e lo ha messo contro
il padre. Fino a questo punto mi sono talmente ripetuto che è tutto
necessariamente chiaro. Continuo. Parliamo anche dello psicodramma
del sentimento dell’odio degli adulti genitori separati che
coinvolge i figli. Le loro beghe psicofisiche irrisolte sono traslate
sui figli con la diagnosi che questi ultimi sono stati manipolati e
alienati. Della Psicologia del figlio, bambino o adolescente, di cosa
effettivamente vive il diretto interessato nessuno dice niente e
nessuno si pone il problema, se non in termini generici e falsamente
protettivi. I due genitori persistono come famiglia anche da separati
grazie al figlio e persistono alla grande nell’esercizio del
sentimento dell’odio. Il loro psicodramma non è finito e viene
ancora esteso al figlio. Quest’ultimo era stato già colpito dentro
e fuori dalla dialettica e dalla separazione dei genitori, ma non è
bastato, perché adesso deve odiare il padre ed è stimato incapace
di intendere e di volere e malato di alienazione. Poveri figli!
Domanda
Allora?
Mi dica dei figli, visto che prima ha difeso la madre e dopo ha
condannato entrambi i genitori.
Risposta
La
Psicologia dell’infanzia è complessa e non so da dove partire.
Comunque ci provo a dire qualcosa d’incompleto. Intanto i figli
coinvolti sono quelli che vanno dai due ai dodici anni. Gli
adolescenti e i giovani sono toccati in parte dalla separazione dei
genitori, sono più autonomi e strutturati a livello psicologico per
cui non si prestano facilmente a operazioni di manipolazione e di
plagio. Premessa vuole che i figli hanno bisogno del padre e della
madre, ma se la coppia genitoriale si rompe, la famiglia resta anche
se in spazi diversi. La logistica non elimina i circuiti affettivi e
formativi. I bambini accettano la separazione dei genitori con minore
difficoltà rispetto a quello che pensano i genitori stessi, i
benpensanti e i moralisti. La comunicazione non avviene a caso e
all’improvviso, ma dopo una dialettica litigiosa della coppia
genitoriale, oltretutto molto dannosa per i bambini. “Ogni male non
viene per nuocere”, recita in preghiera il bambino insieme a un
“amen”. Il bambino è preso e impegnato dalla sua evoluzione
psicofisica e dalle sue dinamiche relazionali, per cui affronta la
separazione dei genitori come un miglioramento della sua condizione e
non come una perdita. La “sindrome e l’angoscia dell’abbandono”
non scattano se non in pochissimi casi. I bambini, le femmine in
particolare, hanno una buona capacità di razionalizzare e di
adattarsi, hanno una buona intelligenza operativa sin dai quattro
anni, sono particolarmente giudiziose. L’evento storico della
separazione dei genitori non si traduce in un dramma interiore
semplicemente perché i genitori sono vivi e vegeti e la famiglia è
intera e salva. Il bambino concepisce che si è rotta la coppia e i
giochini della mamma e del papà, ma non si è rotta la famiglia ed è
convinto che adesso ha degli agi in più, adesso ha due case e due
persone da manipolare con i suoi argomenti e con le sue strategie.
Paradossalmente sono i figli che operano la “alienazione
genitoriale” nel senso che intuiscono che possono godere meglio le
figure dei genitori e usarle a proprio uso e consumo facendo perno
sui loro fasulli sensi di colpa. Adesso la bambina in piena
“posizione edipica” ha il papà tutto per lei e ha eliminato la
conflittualità con la mamma che le procurava un inutile stress.
Adesso il bambino edipico ha la mamma tutta per sé e senza
l’ostacolo del padre rompiscatole. I figli si adattano alla nuova
situazione psicofisica e logistica meglio di quanto i genitori e gli
adulti pensano. Per loro ci sono tutte le opportunità di ben
“alienare” il padre o la madre a loro vantaggio. Attenzione a non
oltrepassare la misura della decenza, altrimenti dopo sono guai seri.
Domanda
Lei sta dicendo delle cose sconcertanti, sta ribaltando la
frittata, sta dicendo che sono i figli ad approfittare della
separazione per vivere meglio e di più i genitori. Ma è sicuro?
Risposta
Non
è il genitore che aliena l’altro genitore, ma è il figlio che ha
tutta la convenienza di vivere liberamente e senza vincoli sia la
madre e sia il padre. E i genitori, in preda ai sensi di colpa di
aver rotto il giocattolo della famiglia, li amano di più rispetto a
prima, mentre i figli trovano davanti a loro una prateria dove
scorrazzare con le mille richieste e le mille voglie che
immancabilmente elaborano. Ma i genitori persistono nella perfida
dialettica di coppia che li ha portati alla soluzione effimera della
separazione e traslano vicendevolmente la loro aggressività
adducendo che il bambino o l’adolescente ha subito l’alienazione
parentale e che è malato di questo strano e neonato morbo, quando
invece il figlio non è mai stato così bene in vita sua come da
quando i genitori hanno smesso di rompere le scatole con i loro
teatrini domenicali e non. Ripeto. Alla luce delle “posizioni
psichiche” affettive o “orali”, aggressive o “anali”,
autocompiacimento e potere o “fallico-narcisistiche”,
conflittuali o “edipiche”, il bambino riceve meno danno di quello
che si pensa, si adatta alla nuova situazione psicofisica e
relazionale, vive la rottura della coppia e non della famiglia, sente
di avere più potere contrattuale con entrambi i genitori. Cosa resta
in questo bailamme? Restano pari pari i conflitti di coppia, il
risentimento e l’odio. E qui cominciano i guai seri. Dopo la
separazione si cerca la rivincita in base al senso di sconfitta umana
che ogni membro della coppia ha vissuto. L’alienazione parentale è
un’ulteriore aggressione dell’uno verso l’altro coinvolgendo i
figli che sono, di certo, più intelligenti e capaci dei genitori.
Maria, se mi dici che ti basta e posso fermarmi qui, mi fai un grande
piacere.
Domanda
Assolutamente
no. Mi dica qualcos’altro.
Risposta
Vado
avanti, ma ci penserò due volte prima di richiamarti. L’alienazione
parentale non ha motivo di essere e di esistere. L’alienazione è
un concetto filosofico, economico, sociologico, psichiatrico,
psicologico, giuridico: Feuerbach e Marx, scuola di Francoforte e
Marcuse, Kraepelin e altri, Freud e Max Weber, Basaglia e
l’Antipsichiatria. L’alienazione psichiatrica significa che una
persona è fuori di se stessa, è mentalmente inferma, non applica il
“principio di realtà” e ha perso il contatto con la realtà, è
di danno a se stessa e agli altri, e chi più ne ha, più ne metta.
Ma cosa c’entra una madre, un padre e un figlio, una famiglia, in
tanta disgrazia di parole, di scienze e di ordinamenti giuridici?
Ripeto: una madre o un padre possono lavorare psicologicamente un
figlio in maniera che non riconosca uno dei genitori? E’
semplicemente impossibile alle condizioni di normalità date e
supposte, ripeto, alle condizioni date e supposte di andamento
psico-esistenziale normale. Ma è possibile la “proiezione”
dell’odio, oltre che sul partner, anche sul figlio ritenendolo un
emerito ebete o imbecille. Ma il figlio è più intelligente di
quanto gli adulti di ogni professione pensano.
Domanda
Passo
al sogno di Pulcino. Quando leggo quello che scrive a volte mi
emoziono perché lei le cose le fa sentire sulla pelle e nello
stomaco, come se accarezzasse e scavasse dentro nello stesso tempo.
Ma voleva fare l’archeologo da piccolo?
Risposta
Mi
compiaccio di questo tuo trasporto. Pensa quanto sono potenti le
parole e i discorsi. Non sei andata molto lontano dalla realtà dei
fatti. Io sono nato a Siracusa, una città bellissima che pessimi
amministratori, in sequela dagli anni cinquanta, hanno resa quella
che è oggi, una città sporca, inquinata, disordinata e fatiscente,
una città non vivibile. Negli anni cinquanta le sue bellezze
naturali sono state svendute per un pugno di dollari alle industrie
chimiche e petrolifere italiane e americane. Pensa che hanno
impiantato nel meraviglioso litorale i macchinari dismessi nel Texas
e fino al duemila hanno permesso ai petrolieri russi di costruire una
pericolosissima raffineria a ridosso della città. Tutto per un pugno
di miseri salari e per morire di tumore vario e variopinto a tutte le
età. Ma non basta. Il ministro dell’ambiente è stato per tanti
anni una donna di Siracusa, ma l’inquinamento e la “munnizza”
hanno continuato a dominare e a prosperare insieme all’incuria e
all’indolenza. Dicevo che sono nato e abitavo in Ortigia, lo
scoglio o l’isoletta su cui era stato costruito il centro storico e
ho vissuto quotidianamente tra rovine di templi greci su cui si era
insediata la cultura romana, cristiana, araba, normanna, angioina,
spagnola, savoiarda italica, un crogiolo di tratti culturali e di
dominatori da cui il popolo di Ortigia non si è mai liberato in
onore alla sua storica indolenza e accidia: vedi il Gattopardo. Mio
padre era profugo dalla Libia ed era impiegato presso la
Sovrintendenza alle antichità, il Museo per intenderci. Mi ha
imposto di frequentare il Liceo classico, mentre io avrei preferito
imparare il mestiere di macellaio dai miei zii o in ultima istanza
sarei diventato anche prete pur di sfuggire al suo autoritarismo.
Quindi l’Archeologia mi ha seguito ogni giorno e, quando mi
affacciavo dal balcone, vedevo i resti del tempio di Apollo e, se
andavo in cattedrale, mi trovavo dentro un tempio greco, un
“peripteros” per la precisione dedicato ad Athena. Vengo alla tua
domanda. L’interpretazione dei sogni è come uno scavo archeologico
secondo Freud, perché si riportano alla luce non i resti, ma i
vissuti din base della nostra formazione psichica. Poi, se io li
descrivo bene, è merito di una buona sensibilità e di tanto
esercizio. Comunque, l’allegoria dello scavo archeologico in
riguardo al sogno è appropriatissima.
Domanda
Se
mi spiega una volta per tutte che cos’è il “fantasma di morte”,
giuro che non glielo chiederò più. Del resto fra poco partirà e
allora non ci si vedrà.
Risposta
Il
“fantasma di morte” si colora in base alla “posizione psichica”
che si vive e che si sta elaborando. Nella “posizione orale” ha i
colori dell’abbandono e della dipendenza affettiva e l’angoscia è
di solitudine: primo anno di vita. Nella “posizione anale”
l’angoscia è di frammentazione e il colore è dell’aggressività
sadomasochistica all’interno della ricerca dell’autonomia: dal
secondo al terzo anno di vita. Questa è una situazione molto
delicata e pericolosa per il futuro e bisogna superarla bene perché
si sperimenta e s’incamera la possibilità della violenza. Nella
“posizione fallico-narcisistica” l’angoscia è di mutilazione e
ha i colori dell’auto-gratificazione e dell’esaltazione, nonché
dell’isolamento: quattro e cinque anni. Nella “posizione edipica”
l’angoscia è di “castrazione” e i colori sono quelli della
colpa e dell’espiazione: dal quinto al dodicesimo anno di vita.
Nella “posizione genitale” l’angoscia è di perdita depressiva
dell’oggetto d’investimento e d’amore con caduta
nell’indeterminato psichico. Il colore è quello del riconoscimento
dell’altro e si avanti dalla pubertà a vita natural durante. In
questa posizione si matura il sentimento d’amore e di cura
dell’altro e, se si forma una coppia, bisogna ricordarsi sempre che
la “libido genitale” si esercita e si rimpinza sempre, non è una
ricchezza che si consuma e finisce e specialmente se ci sono figli.
Riflettete gente, riflettete!
Domanda
Quella
della bambina era angoscia di perdita dell’affetto dei suoi
genitori ed era causata dal fatto che l’avevano mandata in colonia.
Invece di divertirsi ha rischiato di ammalarsi di depressione. Ma non
le sembra esagerato?
Risposta
Assolutamente
no. Hai un’altra spiegazione? La bambina Pulcino ha detto che
piangeva senza sapere perché e che dopo lo ha collegato all’angoscia
che provava nella colonia al pensiero della sua famiglia e della sua
casa. La somatizzazione è stata il pianto e le è andata bene,
perché poteva essere più pesante qualora avesse avuto delle lacune
psichiche di altro tipo.
Domanda
Mi
spieghi questa che non l’ho capita.
Risposta
Metti
il caso che le altre “posizioni psichiche” fossero state vissute
malamente e ci fossero stati altri traumi, allora la situazione
psicofisica della colonia avrebbe scatenato un marasma più intenso.
Domanda
Lei
è molto suscettibile e permaloso. Non le si può dire niente che
subito si inalbera. O le dico quello che penso o altrimenti andiamo a
prendere il cappuccino e la treccia all’uvetta da Ceschin.
Risposta
Ti
chiedo scusa. Comunque dopo andiamo in pasticceria, ci mancherebbe
altro. Dopo tutta questa scarpinata è il minimo che possa succedere
tra me e te.
Domanda
Lei
ha parlato di Medicina psicosomatica. Ne so qualcosa anch’io con i
problemi che ho sulla pelle e che passano soltanto con il cortisone e
soltanto per un giorno. Me la spiega.
Risposta
La
pelle è il teatro preferito dai “fantasmi” e della angosce per
esibirsi. La psiche trova la pelle a portata di mano e pronta alla
necessità di parlare con i sintomi. Ti spiego. Quanto subiamo un
trauma o viviamo un’esperienza dolorosa, non potendoci stare dietro
con la riflessione, usiamo il “meccanismo psichico di difesa”
della “rimozione” e ce ne dimentichiamo. L’energia nervosa che
non abbiamo espresso e consumato e che era legata a quel fatto, viene
ingoiata e, quando il sistema non ce la fa più a tenerla giù, si
somatizza e si scarica su qualche organo e su qualche funzione.
Questa scarica non avviene a caso, ma viene colpito l’organo debole
o quello che ha una significato simbolico con la qualità del vissuto
o del trauma. Tecnicamente: il “ritorno del rimosso” porta alla
“formazione di sintomi”. Si passa da un fattore psicologico a un
fattore corporeo. Tecnicamente: quando la tensione nervosa è forte,
deve in qualche modo scaricarsi e allora abbiamo una “conversione
isterica”. E’ tutta salute perché ti consente di continuare a
vivere.
Domanda
Bene,
ho capito. Ma quanti sono questi disturbi?
Risposta
Bisogna
essere cauti nella diagnosi di disturbo psicosomatico, perché spesso
concorrono altri fattori in via di scoperta, come i disturbi
alimentari e altro, e può essere la punta dell’iceberg di una
malattia seria. Del resto, a cosa serve sapere se è psicosomatico?
Se passa con il trattamento psicoterapeutico ed è un disturbo che
viene dopo tanto stress, vuol dire che era d’origine psichica.
Importante che si conoscano le cause e si sappia gestire con il
cervello e con la presa di coscienza. Comunque non è soltanto la
“razionalizzazione” a risolvere un disturbo psicosomatico,
possono essere utilissimi anche gli altri “meccanismi di difesa”.
E aggiungo che le cosiddette malattie organiche hanno sempre un
concorso psicologico.
Domanda
Lei
sta complicando le carte. Si guarisce in tanti modi da un disturbo
psicosomatico?
Risposta
Certo,
dipende da quali meccanismi di difesa usi. Se usi la “sublimazione”
e la tua aggressività la scarichi nello sport o nel volontariato e
ti assolvi al meglio, le tensioni decrescono e non riescono a ferire
l’organo bersaglio. Il disturbo decresce, ma l’organo resta
sempre debole. Altri “meccanismi” ti daranno intanto una
remissione del sintomo, ma il problema si evolve e non si risolve del
tutto.
Domanda
Mi
spiega l’organo debole?
Risposta
L’organo
e la funzione che nel corso dell’evoluzione psicofisica sono stati
interessati da traumi e hanno risentito di malattie si definiscono
per comodità “organo debole” o “organo bersaglio”. Bisogna
anche considerare la cultura della famiglia per quanto riguarda la
malattia, cultura nel senso degli schemi di interpretazione in vigore
nella realtà familiare. Se in casa la mamma ha sempre mal di testa e
il papà accusa bronchite a nastro, anche il bambino sarà sensibile
a questi disturbi anche se è perfettamente sano. L’organo debole è
individuale, ma è anche familiare. Spesso i bambini per non andare a
scuola accusano una serie di disturbi che non hanno ma che ben
conoscono in famiglia. Per un vantaggio secondario si danno malati e
non godono dei vantaggi primari di essere in buona salute. Succede
spesso che l’organo debole familiare diventi organo debole
individuale non per ereditarietà, ma per trasmissione culturale. Si
è sensibili a certi tipi di malattie e non si conoscono altri tipi
di disturbi. Si può anche stabilire in una famiglia la scala delle
sensibilità d’organo o di funzione. Ripeto, la suggestione e
l’immedesimazione, così come il vantaggio secondario, hanno
importanza nell’economia psico-culturale del gruppo familiare. In
sintesi e dopo questa tiritera ti dico che l’organo debole può
essere malato ma può essere sano.
Domanda
Ma
la colonia fa così tanto male? E il servizio militare faceva bene o
male?
Risposta
Maria,
tu sei tanto curiosa e poni domande che meritano un’ampia
discussione, ma io mi limito alla sintesi. Il bambino non può essere
mandato in colonia senza subire un danno psicologico, un trauma e
senza rafforzare un disturbo che magari ha già in famiglia. E’
un’esperienza da non far vivere ai bambini. Dai dieci anni in poi
si può favorire l’autonomia e il distacco dalla famiglia per un
periodo breve. Anche in questo caso il piano e il progetto devono
essere ponderati. Non si può mandare un ragazzino da solo a Londra
per tre settimane affidandolo alla hostess di un college. La Psiche
viene forzata e il danno si presenta in seguito. Meglio non conoscere
la lingua inglese, piuttosto che portarsi dietro fobie e crisi di
panico.
Domanda
Ma
lei è troppo protettivo.
Risposta
Sicuramente,
ma questo mi risulta dal lavoro clinico. Meglio rimandare certe
esperienze di distacco e di separazione all’età giovanile. Per
quanto riguarda il servizio militare il distacco avveniva all’età
di diciotto-venti anni, un periodo della vita in cui si gradisce fare
da sé. In Italia il servizio militare coincideva con il primo
viaggio fuori regione ed era una opportunità di crescita umana, più
che militare.
Domanda
Lei
ha fatto il servizio militare?
Risposta
Perbacco
e ho girato l’Italia per colpa del “sessantotto” e della
contestazione giovanile. Io avevo una laurea in filosofia ed ero
ritenuto un rivoluzionario marxista-leninista-maoista già prima di
aprir bocca e anche per il fatto che ero barbuto.
Domanda
Tanta
carne sul fuoco, come sempre.
Risposta
Eh
già.
La
canzone adatta al tema della lontananza dagli affetti è una poesia
di Paolo Conte, “Azzurro”, degnamente interpretata dall’autore.
Il
sogno di Sabina svolge la psicodinamica della “posizione edipica”
con particolare predilezione nei riguardi della figura paterna, usa
il meccanismo della “scissione” per non incorrere nell’incubo e
nel risveglio immediato e per gestire le angosce legate ai virulenti
“fantasmi” del padre e della madre, mostra
una buona risoluzione della relazione psichica con il padre
attraverso il recupero della componente affettiva e affermativa,
tralascia la relazione con la madre e non ne
condivide
le modalità in cui gestisce
se stessa e il suo
ruolo.
Sabina si serve del
meccanismo psichico della “figurabilità” in un contesto
speculare rafforzando la presa di coscienza sulla “posizione
edipica” e usa la simbologia dello Spazio e del Tempo facendo
coincidere la nostalgia con l’appagamento in atto, la
consapevolezza del passato con lo stato di coscienza presente. Sabina
vive nel suo presente psicofisico, nel suo “breve eterno” e al di
sopra dello Spazio e del Tempo convenzionali. Sabina è nella
contingenza del suo “SpazioTempo”, là dove la sua energia si
irradia con il “grande scoppio” quotidiano degli investimenti
operati vivendo. Sabina esibisce orgogliosamente un buon “sapore”
di se stessa perché lei “sa di sé”.
TRAMA
DEL SOGNO 2 – CONTENUTO MANIFESTO
“Le
gemelline vanno nella piscina all’aperto sotto casa. Io sono la loro
baby sitter, ma non ho voglia di scendere a guardarle, sono stanca,
sono a letto e ho bisogno di dormire.
L’appartamento
è lo stesso di prima ed è la riproduzione della zona notte dei miei
genitori della casa in cui vivevo da ragazzina, solo che dove c’era
il ripostiglio c’è la stanza in cui sto dormendo e dove c’era la
stanza dei miei c’è una cucina con delle donne, che si apre su un
salone spazioso e luminoso.
Mi
alzo e guardo le gemelline dal balcone a ringhiera a destra. Devono
fare due iniezioni a testa, ma io non sono molto brava a farle e
chiedo a una signora che è in cucina di scendere ed espletare il
compito.
Poi
vado alla finestra del salone, che dà sulla sinistra della casa, e
le vedo mentre attraversano un parco. È diventato autunno, sono
allegre, stanno bene, sono bambine.”
OSSERVAZIONI
FINALI
Nessuna
angoscia al risveglio, solo confusione nel ricordare le immagini del
sogno, che diventano più chiare mano a mano che passo dallo stato
immediatamente successivo al sonno a quello di piena coscienza.
Caro
Maestro, mi dica qualcosa, quando Lei spiega mi sembra che sia facile
capire e capire mi placa. Forse è questo il senso della conoscenza,
guardare l’abisso senza temerlo.
Sabina
DECODIFICAZIONE
E CONTENUTO LATENTE
CONSIDERAZIONI
Le
“osservazioni finali” di
Sabina confermano alcune
verità di
“scienza umanistica” che
sono state progressivamente
acquisite sul sogno e
sui suoi dintorni
psicofisici. Sabina non sente alcuna angoscia al risveglio, dopo aver
tanto rielaborato i suoi
“fantasmi” e i suoi vissuti sotto
la protezione dei meccanismi del “processo primario”: “il sogno
è il guardiano del sonno” ed
è reso possibile dalla
Fantasia e tutelato dalla funzione simbolica, il famoso
“Linguaggio dimenticato” o quasi di
Fromm. Sabina
accusa soltanto “confusione”
nel ricordare le immagini del sogno e
questo stato è legato al
suo maniacale estro
analitico e al
suo conclamato gusto del particolare. La “confusione” si attesta
nell’inquadramento e nella
fusione dei dati, nella
vendemmia dei particolari, nel mettere insieme capre e cavoli
trovando il nesso logico e il tramite simbolico. Senza alcun
intervento vigile e
consapevole Sabina dormendo
ha dipinto
il
suo sogno con una
serie di scenari e di scenette familiari degne della migliore umana
“comedia”, un’opera
non certo boccaccesca e
tanto meno dantesca, un’opera sicuramente
proletaria e
senza endecasillabi e senza
terzine, senza rima
alternata o baciata. Sabina è artista nel suo dormire semplicemente
perché i sogni li ha
sognati da sveglia e da bambina, in grazie alla fertilità della sua
benefica Fantasia e alla
virulenza dei suoi succulenti “fantasmi”.
Il passaggio progressivo dal sonno alla veglia è descritto da Sabina
come il processo che viaggia
dall’offuscamento emotivo
alla lucidità della
coscienza, come il tragitto
che va dalla
dimensione psicofisica profonda alla
dimensione razionale, dalle
tenebre alla luce, dall’Es
all’Io, dal “principio
del piacere” al “principio della realtà”, dalla
rappresentazione degli istinti alla concettualizzazione
consapevole e funzionale al “sapere di sé”. La luce della
Fantasia è calda come i “fantasmi” che costruisce, quelli che
popolano la creatività e sostengono l’Io nel suo centro e nei suoi
dintorni. La luce della Ragione è fredda, è LED, ma estremamente
utile per avvinghiare le mille tentazioni dell’angoscia di morte,
il nobile e tremendo
basamento del Vivente, umano
e non, come voleva e
scriveva il nevrotico Arthur Schophenauer nel suo “Mondo come
volontà e rappresentazione”.
Emerge in
Sabina che sogna
e trova la sua mirabile
epifania la diuturna
diversità quantitativa e
qualitativa tra la Fantasia
e la Ragione, i “processi primari” e i “processi secondari”,
tra il sistema
neurovegetativo e il sistema nervoso centrale, tra l’emisfero
cerebrale destro e l’emisfero sinistro. Si
tratta di un’apparente diversità e di un inesistente conflitto
semplicemente perché la dinamica evolutiva e
circolare, alla Hegel per
intenderci, avviene
all’interno dell’unità psicosomatica chiamata “Uomo”.
Si tratta dei tanti “modi
umani” di manifestarsi, si
tratta degli “attributi
umani” del Pensiero e del Corpo, dell’unita “Psico-Soma”.
Quest’ultima è la Verità
soggettiva e oggettiva, l’assunto ideale
e reale di base, la
Sostanza e la Unità
imprescindibili
da cui naturalmente si
deduce e si giustifica, si
produce e si comprende tutto l’ineguagliabile e inimitabile
“Prodotto
Umano
Lordo”.
Non si tratta dell’apice di una platonica o aristotelica piramide,
ma di uno “Psico-Soma”
uno e tutto, greco “olon”,
che svolge e sviluppa in un
processo dinamico circolare ed evolutivo gli
“attributi umani” psicofisici
e li individualizza e concretizza nei “modi umani” della Psiche e
del Corpo, il suddetto “Prodotto Umano Lordo”, il
neonato PUL.
Ritornando
alle osservazioni finali di Sabina, si deve precisare che il
passaggio dallo stato ipnoide dell’ultima fase del sonno REM alla
consapevolezza vigilante della veglia segna il ritorno alla Realtà
esterna e al suo principio. Si
spera e si prega di non dimenticare il bagaglio ripieno di emozioni e
il fardello ricolmo
delle primizie psicofisiche appena vissute, ma soprattutto di
ricordare e razionalizzare le
consapevolezze che il sogno tra le pieghe e tra le righe ha regalato.
E
allora è “facile capire e il capire placa”.
Questa
è l’allegoria della “presa di coscienza” coniata da Sabina. E’
proprio questo il senso della conoscenza e della “coscienza di sé”,
quel “sapere” contingente del tuo “breve eterno” che ti
permette di “guardare l’abisso senza temerlo”.
Questa
è l’allegoria della
consapevolezza dell’angoscia
depressiva di perdita, la
coscienza di quella “morte
in vita” che ogni
uomo coraggioso può capire e di
cui può dire, quell’uomo
che sa tradurre l’angoscia
del vuoto in un parlare
“genitale”, in un
benefico e concreto atto d’amore fatto
di parole e di discorsi, un sentire l’altro come l’oggetto del
proprio benessere
e senza respingimenti o
imposte da pagare,
senza chiudere
i porti e senza
sentirsi perseguitati.
Andiamo
al “dunque onirico” dopo
tante nobili “chiacchiere”
più o meno pertinenti.
“Le
gemelline vanno nella piscina all’aperto sotto casa. Io sono la loro
baby sitter, ma non ho voglia di scendere a guardarle, sono stanca,
sono a letto e ho bisogno di dormire.”
Dopo
aver sviluppato la relazione con il padre e la madre, “posizione
psichica edipica”, Sabina analizza il sentimento della “rivalità
fraterna”, la sua contrastata relazione con le sorelle e i vissuti
al riguardo, nonché la sua specifica e irripetibile individualità e
diversità da tutto il resto del mondo, “gemelline” comprese e
soprattutto. Ricordo che Sabina si è voluta già orgogliosamente
differenziare dalle “gemelline” nella prima parte del sogno,
proprio quando diceva che “due sono gemelline femmine e uno forse è
un maschietto, ma a tratti è una femmina.” Sabina ha attribuito
alle sorelle la “parte femminile” e l’ha raddoppiata con gli
attributi di “gemelline” e di “femmine” e ha loro negato la
“parte maschile”, la componente attiva e fattiva a favore di
quella passiva e remissiva, sempre simbolicamente parlando. In
sostanza ha mutilato l’androginia psichica delle sorelle, attributo
psichico che ha voluto riservare interamente a se stessa. Come dire:
“io sono la sorella cazzuta, quella che ha potere e sa affermarsi,
quella che entra in competizione con il padre e che mette in
discussione la madre, io sono diversa da voi due perché sono
“androgina”, coniugo in me con naturalezza la “parte maschile”
e la “parte femminile”, mentre voi due siete doppiamente femmine
e condensate la remissività e la passività materne”. Magari
Sabina ha apprezzato le grazie femminili delle sorelle, ma non ha
condiviso la loro accettazione dello “status” familiare e la
loro identificazione “patocca” nella figura materna. Insomma,
Sabina si è voluta distinguere dalle sorelle e ha voluto fare
parrocchia a se stessa e con se stessa. Sabina manifesta un orgoglio
virile che assorbe nella sua psiche grazie al conflitto con il padre
e al respingimento difensivo della madre.
Sabina
è la “baby sitter” delle sorelle, ma è in crisi.
Inizia
nella seconda parte del sogno e con la partecipazione diretta e con
il coinvolgimento non mediato da alcuna difesa, tipo la “precedente
scissione”, l’elaborazione dell’immagine psichica di Sabina, la
visione di se stessa in questo quadro familiare. E in questa ardua
impresa la descrizione simbolica tocca picchi di alta poesia in
prosa. Sabina non vuole coinvolgersi e non vuole condizionare le
sorelle, per cui le lascia giocare, le lascia nella loro infanzia
tutta al femminile, le lascia nell’ignoranza di sé. Sabina è
stanca di dover convincere le sorelle sulla situazione familiare
particolare e vuole riflettere su se stessa e sulla sua condizione.
Sa che è forte e diversa da loro, ma non vuole prevaricarle con
ragionamenti e prese di coscienza che loro, le “gemelline”
femmine, non hanno fatto e non possono fare. Sabina pensa a se stessa
e ha tanto bisogno di “rimuovere” questo conflitto aspro con la
sua famiglia e di lasciar cadere le armi e l’aggressività per
raggiungere l’autonomia che consegue al conflitto e la
“razionalizzazione” del trauma. Il riposo del guerriero è
meritatissimo. La combattente può riposare dopo aver speso tante
energie nell’economia e nella dinamica psichiche della sua
famiglia. Emerge in sogno una forma di “ataraxia”, assenza di
preoccupazioni e di affanni, se volete di angosce, una nota
caratteristica della sapienza indiana e greca di qualche millennio
fa. Questa è l’allegoria della “ataraxia”, questa è
l’allegoria del “nirvana” occidentale e personale secondo il
vangelo personale di Sabina: “non ho voglia di scendere a
guardarle, sono stanca, sono a letto e ho bisogno di dormire.”
La
simbologia conferma e spiega il quadro in questo modo. Le sorelle
sono ingenue e innocenti perché sono rimaste ancorate nelle spire
materne, giocano e si liberano di eventuali sensi di colpa, quelli
che sicuramente Sabina ha accumulato in tanta lotta e in tanto
contrasto e che in questo caso proietta sulle “gemelline”. Sabina
“sa di sé” ed è più avanti rispetto a loro, per cui può stare
a riflettere sulle sue consapevolezze e curare le sue ferite.
“Gemelline”
o del sentimento della rivalità fraterna con rafforzamento della
parte femminile, “piscina” o luogo della purificazione dei sensi
di colpa in riguardo alla figura materna, “all’aperto” o in
ambito sociale e senza approfondimento, “sotto casa” o
estromettendo il vissuto e il problema, “baby sitter” o
superiorità e potere di gestione o una forma di “Super-Io”, “non
ho voglia” o assenza di “libido” da investire, “scendere” o
rimuovere o dimenticare e non affrontare il problema, “guardarle”
o prendere coscienza, “stanca” o psicoastenia da nirvana, “a
letto” o ancora psicoastenia da ataraxia, “dormire” o
rimuovere.
Voglio approfondire l’interpretazione e dico e ridico che Sabina riflette se stessa nelle sorelle, proietta i suoi vissuti in loro mostrando in sogno le sue paure di quello che poteva diventare, una mammoletta tutta coniugata al femminile qualora avesse rimosso la figura materna e si fosse identificata totalmente in lei, la “piscina all’aperto sotto casa”. Sabina ha scelto di non rimuovere e di prendere coscienza dei suoi infidi “fantasmi” in riguardo alla madre, ha scelto di essere una donna affermativa e di avere il coraggio del suo “Io”. Ha ripulito i sensi di colpa per viversi al meglio e nella maniera autentica. La stanchezza è il prezzo minimo che si paga a tanto travaglio. Il sonno consegue come una blanda dimenticanza dopo aver tanto vissuto: il giusto riposo del guerriero, la greca “ataraxia”, l’indiano “nirvana”.
E’
proprio vero che a volte “repetita iuvant” e specialmente per
uscire dalle ambiguità difensive del sogno, ma è altrettanto vero
che spesso le “cose che si ripetono” rompono e anche tanto.
Chiedo
ai marinai la venia della buonafede.
“L’appartamento
è lo stesso di prima ed è la riproduzione della zona notte dei miei
genitori della casa in cui vivevo da ragazzina,”
Traduco
immediatamente per non perdere la forza e la bellezza del “lavoro
onirico”. Sabina ritorna indietro nel tempo e rivive le fantasie
intime e i desideri indicibili nei riguardi dei genitori, rievoca la
sua adolescenza ricca di pulsioni e di intenti, rivive la sua
giovanile età con i turbamenti e gli struggimenti della bambina di
fronte agli adulti. Sabina usa la “regressione” per dare ragione
ai suoi vissuti edipici e per confermare il tempo psicofisico in cui
i suoi “fantasmi” si sono manifestati nel teatro della prima
parte del sogno. Sabina è al presente con la consapevolezza dei suoi
trascorsi, del suo passato insomma. Questa è la conferma del
“presente psichico in atto”, della teoria sul tempo come
distensione dell’anima di Agostino di Tagaste, del dubbio di Freud
sulla dimensione psichica temporale, del “breve eterno” che dura
il tempo di una vita: la Psiche è fuori dal Tempo anche se vive nel
Tempo e si serve delle categorie del passato e del futuro soltanto e
solamente riconducendole al presente, “riattualizzando”. Nella
modalità della “riattualizzazione” le esperienze vissute del
passato e le aspettative progettuali del futuro trovano la loro
congrua e ineludibile epifania.
I
simboli sono i seguenti: “appartamento” o casa psichica in
versione fredda, “riproduzione” o difesa psichica dal
coinvolgimento diretto, “zona notte” o intimità e pulsioni,
“miei genitori” o le origini in versione conflittuale, “casa”
o “organizzazione psichica reattiva”, “in cui vivevo” o i
vissuti, “da ragazzina” o turbolenza psicofisica e adolescenza
evolutiva.
“solo
che dove c’era il ripostiglio c’è la stanza in cui sto dormendo”
Sabina
non può più rimuovere perché è adulta e ha preso coscienza della
relazione conflittuale con i genitori, non può infilare tutto nel
“ripostiglio” e magari in maniera disordinata per confondersi di
più. Oggi può solo dormire sulla maturazione psichica portata
avanti e non senza trambusto. Dopo la risoluzione della “posizione
edipica” Sabina si dispone alla riflessione prima di riformulare il
giusto vissuto in riguardo al padre e alla madre, prima di
“riconoscere” il padre e la madre come le sue imprescindibili
origini, prima di ridurli a simboli e dopo aver tentato di onorarli e
di ucciderli. Li aveva “onorati” ed era rimasta schiava, li aveva
“uccisi” ed era rimasta sola. Le restava il salvifico monito
“Riconosci il padre e la madre”. Ricordo ai marinai che questa
psicodinamica edipica la trovate, a metà tra racconto e saggio e a
basso costo, nel mio ultimo testo “Io e mia madre”, psicodramma
dell’anoressia mentale, pubblicato nel marzo dello scorso anno.
Potete leggere sulla destra del blog l’intervista e la recensione.
Cliccate la mia immagine in compagnia del gatto Pietro.
Vado
ai simboli: “ripostiglio” o rimozione nella dimensione
subconscia, “stanza” o parte della struttura psichica in atto e
nello specifico la riflessione dell’Io, “sto dormendo” o stato
subliminale che favorisce l’assimilazione delle emozioni e dei
vissuti collegati.
“e
dove c’era la stanza dei miei c’è una cucina con delle donne e
che si apre su un salone spazioso e luminoso.”
E
la dove c’era la stanza dell’intimità dei genitori, quella che
ha evocato le fantasie edipiche, c’è la realtà delle figlie
cresciute e che si dispongono alla vita sociale con la consapevolezza
di essere una famiglia ricca di valori e di intelligenza, ma
soprattutto c’è la vita affettiva e l’esercizio del volersi
bene. La “cucina” è il simbolo della “libido genitale”, il
luogo dove si prepara il cibo, lo spazio dove nel tempo si esercitano
gli affetti e i sentimenti dell’amore verso i genitori e i
fratelli, quell’amore fraterno che è all’opposto del “sentimento
della rivalità fraterna” e che tocca spesso il picco dell’odio
con assoluta naturalezza e normalità. Il sentimento dell’odio si
sperimenta nella primissima età verso il padre e la madre e verso i
fratelli. Freud definì il bambino “perverso polimorfo” mettendo
in rilievo soprattutto le pulsioni sessuali e le fantasie sul tema,
ma, in effetti e prima di tutto, il bisogno “orale” di
accudimento e di sopravvivenza spinge l’esercizio degli affetti a
sperimentare il sentimento dell’odio più fottuto. La famiglia nei
vissuti di Sabina ha avuto un recupero affettivo. Così come ha
recuperato il padre, recupera anche le sorelle: “e vissero tutti
felici e contenti”. Di poi, emergono nel quadro onirico le doti
sociali e relazionali, il fascino di queste donne, che alla fine è
quello di Sabina, di sapersi offrire con disponibilità attraente e
con magnetismo erotico, tutti investimenti di libido genitale”.
I
simboli sono i seguenti: “stanza dei miei” o la parte edipica,
“cucina” o il luogo della “libido genitale” e degli
investimenti affettivi maturi, “delle donne” o le sorelle o le
gemelline o dell’universo psichico femminile nel versante del
potere o “dominae” latino “padrone”, “si apre” o
disposizione alla condivisione e alla relazione amorosa, “salone”
o la parte sciale e conviviale e relazionale e la disposizione allo
scambio della formazione genitale, “spazioso” o educazione
allargata e aperta verso il prossimo e seduzione e accoglienza,
“luminoso” o dove non manca la ragione e la riflessione e il
fascino intellettuale.
Sabina
celebra l’orgoglio di stare e saper stare con la gente e tra la
gente.
“Mi
alzo e guardo le gemelline dal balcone a ringhiera a destra. Devono
fare due iniezioni a testa, ma io non sono molto brava a farle e
chiedo a una signora che è in cucina di scendere ed espletare il
compito.”
Dopo
l’offerta al maschio o agli altri si passa alla sessualità e
Sabina si trova in alto sul suo “Io” consapevole, sul suo scanno
di sapienza e di saggezza, mentre le sorelle sono nelle pastoie
dell’imitazione della madre e degli eventuali sensi di colpa.
Sabina tiene in gran conto il rischio di mischiarsi a loro in un
infido e pericoloso ritorno al passato al fine effimero e impossibile
di evitare l’evoluzione e il progresso. Le “gemelline”
abbisognano di educazione sessuale, devono imparare a far sesso e a
stare con i maschi. Sabina non è in grado di fare da “mater et
magistra” su questi temi delicati semplicemente perché questo
compito spetta alla madre. E, infatti, chiede alla madre, “la
signora che è in cucina” o nell’ambito familiare delle
relazioni, di aiutare le ragazze ad assimilare il ruolo femminile, la
recettività sessuale e l’esercizio erotico. La similarità con la
madre “piscina” si consuma e si completa anche nell’insegnamento
della sessualità. E Sabina sta a guardare e a non confondersi con le
sorelle. Lei è diversa per formazione e per le prese di coscienza
che ha operato in famiglia durante la infanzia e l’adolescenza. Le
sorelle si sono formate in maniera consona alla madre, mentre lei è
la ribelle e si è individuata proprio differenziandosi: unica e
irripetibile più che mai. Le sorelle saranno da meno nell’apportare
tratti caratteristici e innovativi alla personale “organizzazione
psichica reattiva”, la loro struttura evolutiva.
Vediamo
i simboli: “mi alzo” o gesto affermativo di ripresa dopo la
riflessione e il riposo del guerriero, “guardo” o prendo
consapevolezza, “gemelline” la parte femminile di sé che ha
portato in evoluzione e in diversificazione dalle sorelle, “balcone”
o dall’alto del suo Io , “la ringhiera” o coazione logica
dell’Io, “a destra” o della progressione o della lucidità
della coscienza sul passato, “iniezioni” o della sessualità
genitale ed educazione sessuale, “io non sono molto brava a farle”
o io non sono una buona didatta e non voglio sostituirmi alla madre,
“una signora” o la madre, “che è in cucina” o che appartiene
alla famiglia e all’esercizio degli affetti, di “scendere” o di
materializzarsi ed espletare il compito di educarle.
“Poi
vado alla finestra del salone, che dà sulla sinistra della casa, e
le vedo mentre attraversano un parco. È diventato autunno, sono
allegre, stanno bene, sono bambine.”
Il
“riattraversamento” della relazione con le sorelle e dell’ambito
familiare da parte di Sabina rileva l’assenza del padre e la
presenza massiccia della madre, quasi in compensazione del fatto che
nel precedente scenario onirico Sabina l’aveva occultata e tenuta
ai margini del teatro familiare. Adesso Sabina riflette dall’alto
della sua formazione e si relaziona con la parte regressiva della sua
personalità. Riporta il “già vissuto” al “presente” e
rivive un collage di emozioni e di ricordi, regredisce e vede le
sorelle che vivono la vita delle relazioni e la loro vita nel
“presente di quel tempo passato”. Il “parco” è il simbolo
della vita e del vivere. Si obnubila la coscienza di Sabina e la
tristezza incombe. La consolazione arriva nella consapevolezza che le
gemelline sono senza peccato e senza coscienza, stanno bene così. La
loro infanzia è senza tormenti, all’incontrario di quella di
Sabina. Si riconferma la differenza dei vissuti e la diversità dei
“fantasmi” rispetto alle sorelle. Sabina è razionale e
affermativa in grazie al conflitto con il padre e all’identificazione
nella sua “parte positiva”, Marlon Brando per intenderci, e le
sorelle sono preda della madre, bambine educate al femminile in tutto
tondo. Questo è quanto risiede nel sogno di Sabina. E’ tutta
farina del suo sacco psichico ed è la sua “verità”, quella che
emerge e non si nasconde.
Chissà
le gemelline che sogni fanno?
Vediamo
i simboli: “Vado” o intenzionalità della coscienza scoperta da
Franz Brentano, “finestra o della relazione, “salone” o della
socialità e delle relazioni e della condivisione, “sinistra” o
regressione e passato, “casa” o organizzazione psichica reattiva,
“vedo” o sono consapevole, “attraversano” o vivono, “un
parco” o la vita in atto, “autunno” o declino degli
investimenti della “libido” e raffreddamento emotivo , “allegre”
o innocenti e senza coscienza di sé, “stanno bene” o equilibrio
psicofisico, “sono bambine” o sono dipendenti e senza parole.
Questo
è quanto dovevo al sogno di Sabina, ma non escludo che, se lo rivedo
tra un anno, potrò dire qualcosa di più e di diverso alla luce
dell’evoluzione che ha assunto l’arte scientifica dell’umana
interpretazione dei sogni nella mia ricerca e nei duecentoventi sogni
interpretati e fruibili nel mio “blog”. La ricchezza dei
contenuti e l’ampliamento della griglia interpretativa sono
evidenti e sperimentabili. Tra verità soggettive e verità oggettive
il cammino della conoscenza prosegue esibendo i suoi dati umani anche
ai Farisei.
PSICODINAMICA
La
seconda parte dell’Odissea familiare di Sabina parte dalla
psicodinamica del “sentimento della rivalità fraterna” e
prosegue accentuando la diversità dei vissuti verso i genitori e
della formazione psichica. Sabina si differenza dalle sorelle
soprattutto nell’operazione di identificazione nella madre. Mentre
Sabina resta sulle sue e nel conflitto con il padre trova la “parte
maschile” della sua “androginia” psichica, le gemelline
assorbono per difesa una dipendenza dalla figura materna. Sabina ha
sofferto, ma ne è valsa la pena. La “regressione”
all’adolescenza insieme alle sorelle produce in Sabina una leggera
tristezza sul senso del tempo che passa. Remando all’indietro e
dando ossigeno ai tizzoni della fanciullezza vissuta e mai perduta,
Sabina rievoca in sintesi un tema letterario tanto gettonato dai
migliori poeti e letterati che sono andati “alla ricerca del tempo
perduto”.
Vale
“Silvia rimembri ancora quel tempo di tua vita mortale, quando
beltà splendea negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi e tu, lieta e
pensosa, il limitare di gioventù salivi…”, ma vale su tutti
“Alla ricerca del tempo perduto” di Marcel Proust, sette volumi
monumentali intrisi di Letteratura e di Filosofia, di Psicoanalisi e
di Antropologia culturale e soprattutto dei tormenti esistenziali
dell’uomo Marcel.
E
cosa dire di “Lessico famigliare” di Natalia Ginsburg?
Perché
non rivedere “Amarcord” di Fellini Federico, un sognatore a occhi
aperti che ha proiettato i suoi tanti “fantasmi” sopra una tela
cinematografica fissando i canoni della Bellezza surreale?
L’operazione
involontaria del sognare di Sabina attinge a piene mani su modalità
psichiche squisitamente umane come l’adolescenza e il “già
vissuto” che non riesce mai a diventare passato a causa di quella
maledetta capacità di esserci e di essere presenti anche nel
passato. Sabina contamina il “già vissuto” e il “già detto”
assumendo un atteggiamento tutto suo che traduce in immagini i suoi
personali resoconti servendosi di parole altrettanto personali.
PUNTI
CARDINE
I
“punti cardine” dell’interpretazione del sogno di Sabina sono i
seguenti: “io sono la loro baby sitter” e “zona notte dei miei
genitori della casa in cui vivevo da ragazzina”.
ULTERIORI
RILIEVI METODOLOGICI
La
sezione di “simboli” si è particolarmente individualizzata.
Mentre in passato traducevo il simbolo collettivo e universale,
adesso lo individualizzo nel contesto che il sognatore sviluppa, per
cui oscilla tra il personale e il collettivo. Mi avvicino sempre più
alla dimensione soggettiva senza trascurare la gente che ci circonda
e ci condivide.
Il
sogno di Sabina sottende i “fantasmi” del padre e della madre
nella versione edipica e i “fantasmi” dei fratelli secondo il
“sentimento della rivalità”.
Gli
“archetipi” del Padre e della Madre si rincorrono senza
evidenziarsi nei termini di una totalità universale.
Le
istanze Io, Es e Super-Io sono in azione. L’Io vigilante e
razionale si manifesta in “mi alzo e guardo” e in “chiedo” e
in “vado alla finestra” e in “vedo”. L’istanza “Es” o
rappresentazione delle pulsioni si manifesta in “sono stanca, sono
a letto e ho bisogno di dormire.” e in “devono fare due
iniezioni” e “mentre attraversano il parco”. Nella quasi
totalità il sogno elabora materiale psichico particolarmente
sensibile e degno di condensare e di rappresentare emozioni e
pulsioni. L’istanza “Super-Io”, censoria e limitante, fa
capolino in “baby sitter”.
Il
sogno di Sabina sviluppa la “posizione psichica edipica” in
combutta con l’azione turbolenta di un “sentimento della rivalità
fraterna” che cerca sempre l’appagamento e il privilegio
affettivo dei genitori.
I
“meccanismi” e i “processi” di difesa dall’angoscia presi
in carico da Sabina nel suo sogno sono i seguenti:
la
“condensazione” in “piscina” e in “zona notte” e in
“stanza” e in “ripostiglio” e in “cucina” e in “salone”
e in “iniezioni” e in “destra2 e in “sinistra” e in “parco”
e in “allegre” e in “bambine” e in “autunno,
lo
“spostamento” in “baby sitter” e in “signora”,
la
“rimozione” in “ripostiglio” e in “ho bisogno di dormire”,
la
“regressione”, in “zona notte dei miei genitori della casa in
cui vivevo da ragazzina”,
la
“figurabilità” in “L’appartamento è lo stesso di prima ed è
la riproduzione della zona notte dei miei genitori della casa in cui
vivevo da ragazzina, solo che dove c’era il ripostiglio c’è la
stanza in cui sto dormendo e dove c’era la stanza dei miei c’è una
cucina con delle donne, che si apre su un salone spazioso e luminoso.
Mi alzo e guardo le gemelline dal balcone a ringhiera a destra”.
Il
sogno di Sabina coniuga ed evidenzia un tratto “orale” e un
tratto “edipico”, l’affettività nella rivalità fraterna e la
conflittualità nella scelta di cosa prendere e di cosa lasciare in
riguardo alle figure genitoriali. La “organizzazione psichica
reattiva” è intenzionata alla “genitalità”, ma è supportata
da un forte amor proprio che la colora di un “narcisismo” alla
greca o alla latina, un impulso all’autocompiacimento equilibrato
dal dettame filosofico epicureo e stoico di Orazio: “est modus in
rebus.” Esistono dei limiti al di qua e al di là dei quali non si
attesta la rettitudine.
Il
sogno di Sabina forma le seguenti figure retoriche:
la
“metafora” o relazione di somiglianza in “zona notte” e in
“ripostiglio” e in “iniezioni” e in “parco” e in
“autunno” e in altro,
la
“metonimia” o relazione di senso logico in “destra” e in
“sinistra” e in “dormire” e in altro,
la
“enfasi” o forza espressiva in “non ho voglia di scendere a
guardarle, sono stanca, sono a letto e ho bisogno di dormire.”
Sono
presenti le seguenti allegorie: la presa di coscienza in è “facile
capire e il capire placa”, la consapevolezza dell’angoscia
depressiva di perdita, la coscienza della “morte in vita” in
“guardare l’abisso senza temerlo”. L’allegoria della “ataraxia”
greca e del “nirvana” occidentale in “non ho voglia di
scendere a guardarle, sono stanca, sono a letto e ho bisogno di
dormire.”
La
“diagnosi” dice del “sentimento della rivalità fraterna” che
si interseca con la conflittualità edipica in riguardo privilegiato
alla figura materna.
La
“prognosi” suggerisce a Sabina di coltivare la sua irripetibile
individualità mantenendo al caldo la capacità analitica di
sviscerare il “particolare” ma con la preghiera di
razionalizzarlo al più presto e senza trascinarlo nel tempo
effimero.
Il
“rischio psicopatologico” si attesta nell’invasione dei
“particolari” e nel loro mancato coordinamento con pregiudizio
per la sfera emotiva: ansia diffusa. Resta sempre in agguato la
“psiconevrosi edipica” qualora si verifichi un “deficit”
contingente di “razionalizzazione” dei turbolenti “fantasmi”.
Il
“grado di purezza” del sogno di Sabina è sull’ordine del
“buono”. Anche se narrato in maniera logica e consequenziale, la
ricchezza dei simboli attesta che il processo di accomodamento e di
acconciatura del sogno è minimo.
Il
“resto diurno” è confermato nel colloquio riflessivo con la
sorella.
La
“qualità onirica” è “analitica” con mille rimandi a temi e
situazioni ad alto valore estetico e letterario. Esistono nuclei
passibili di ulteriori sviluppi narrativi. Ma a questo ci penserà
Sabina se ne ha voglia. Voglio dire che i suoi temi sono degni di
essere allargati e trattati per iscritto secondo prosa o secondo
poesia. Sabina ha una grande capacità di cogliere nelle parole i
valori del “significante”.
Il
sogno è stato composto a partire dalla seconda fase del sonno REM.
Il
“fattore allucinatorio” esalta il senso della “vista” in
“guardo le gemelline dal balcone” e in “e le vedo mentre
attraversano un parco.”
Il
“grado di attendibilità” della decodificazione del sogno di
Sabina è “discreto”. Ci sono dei punti di snodo
dell’interpretazione che si sono rivelati particolarmente delicati
e ambigui. Il “grado di fallacia” è “mediocre”.
DOMANDE
& RISPOSTE
Era
doveroso che fosse la signora Maria in carne e ossa a leggere
l’interpretazione del sogno di Sabina e a portare i suoi commenti e
le sue richieste.
Domanda
Più
in carne che ossa e da buona veneta con lo spiedo e il cabernet in
tavola, ma comunque va bene così: il mio motto è “meglio cento
giorni da leone che un giorno da pecora”. Comincio dicendole che ho
capito una buona parte dell’interpretazione del sogno di Sabina
anche perché lei spesso si ripete. Meglio così! Ho qualche domanda
sui riferimenti che lei fa alla filosofia e ad altro, ma prima le
chiedo se lunedì sera ha visto sul canale due il film “Ultimo
tango a Parigi”.
Risposta
E
tu pensi che se la RAI, la famigerata e benemerita “radio audizioni
italiana” di antica data, si sforza a dare un film d’autore dopo
tanta quotidiana merda di cuochi, di giornalisti, di politici, di
opinionisti, di astrologi e di varia umanità, io non vedo il
capolavoro di Bernardo Bertolucci in versione restaurata e originale?
Ma certo che l’ho rivisto e me lo sono anche rigustato con
quarantacinque anni in più sul groppone. Come ha ben detto
nell’introduzione il poliedrico Carlo Freccero, uno che ha studiato
all’Università e che sa fare molto bene il suo mestiere di
scrittore e di critico, si tratta di un film che risale all’anno
1972 e che è stato non solo censurato, ma addirittura, “horribile
dictu”, condannato al rogo di tutti i “negativi” presenti nel
mercato italiano. I “negativi” erano i fotogrammi delle pellicole
in celluloide ed erano molto sensibili al fuoco: vedi la scena in
“Nuovo cinema Paradiso” di Giuseppe Tornatore dell’incendio
della sala cinematografica. Tra parentesi:(meno male che ne avevano
occultato due copie). Non basta: Bernardo Bertolucci fu condannato a
qualche anno di galera, pena sospesa con la condizionale, per offesa
al “comune senso del pudore”, per oscenità e fu privato dei
diritti civili per cinque anni. Correva l’anno 1976. Ancora oggi ci
si chiede cos’è il “comune senso del pudore”, come si
stabilisce e si fissa il “comune senso del pudore, con quale
ipocrisia si colora il “comune senso del pudore. Ma tu pensa come
eravamo ridotti sotto la dittatura della “democrazia cristiana” e
del “partito socialista” negli anni ‘70 e ‘80. Almeno quei
politici erano istruiti e sapevano ben baciare i banchi delle varie
chiese romane, gli ultimi uomini discutibili ma a loro modo “etici”
prima dell’avvento della “plutocrazia” e della “paranoia”,
governo in mano ai mercanti capitalisti di reti televisive e agli
avventurieri afflitti da mania di persecuzione, i sedicenti comici
sovranisti e gli istrioni populisti. Soltanto nel 1987 c’è stata
una nuova sentenza che ha assolto dall’accusa di oscenità “Ultimo
tango a Parigi” e lo ha restituito alla visione critica e al gusto
maturo degli spettatori adulti, insomma alla consapevolezza
intelligente degli italiani. Questo lavoro di Bertolucci non è un
film buttato là così per caso o per capriccio o per fare cassetta,
come si usa oggi con gli attori di grido che fanno veramente cagare
con le “Vacanze di Natale”, le “Vacanze di Capodanno” e con
la povera “Befana”. “Ultimo tango a Parigi” non è un film
con due tette al vento, la peluria abbondante di un pube femminile e
quattro posizioni sessuali da equilibrista contorsionista e tirate
fuori dalle mille e passa posizioni del formidabile artistico
Kamasutra. “Ultimo tango a Parigi” non è un film erotico, non è
un film pornografico ante literam, non è una volgare commedia
all’italiana, è semplicemente un film drammatico, un capolavoro
tanto studiato e ben calibrato nei minimi particolari visivi,
musicali, teorici, culturali e chi più ne ha più ne metta. E’ uno
“spaccato” squisitamente antropologico degli anni settanta
inquadrato e recitato nella capitale dell’Esistenzialismo e della
Psicoanalisi, la mitica e fascinosa Parigi, la città della
Rivoluzione, dell’Arte, della Filosofia e della libera espressione
umana. La trama, pur tuttavia, era stata concepita nel clima
intellettuale della “Roma puttana” di Roberto Rossellini,
Michelangelo Antonioni, di Pier Paolo Pasolini, di Alberto Moravia,
di Federico Fellini e di tanti altri registi e scrittori in un clima
trasgressivo di “Grande Bellezza”. Ricordo che Pasolini di giorno
insegnava e scriveva, di notte viveva il suo Eros e il suo Thanatos
come i protagonisti dei suoi romanzi e di “Ultimo tango a Parigi”.
E nella notte dei quartieri popolari e pulsanti di erotica vitalità
trovò la gioia dei sensi e la sua morte violenta come Paul. Correva
l’anno 1975, ma questo è un altro discorso.
Domanda
Meno
male. Me lo spiega un po’? Io ho visto il film e mi è piaciuto e
ho anche capito che quello che vedevo non era quello che significava
e che non c’era niente di volgare e di osceno. Mio marito non era
d’accordo, ma io l’ho visto con i miei figli grandi. Alla fine mi
hanno detto che non erano per niente scandalizzati e che su “yu
porn” c’è veramente il disastro più completo per quanto
riguarda quelle cose e gli organi sessuali. Vede che non riesco a
dire le parole “culi”, “cazzi” e “tette” e “fighe”,
vede come sono condizionata dall’educazione ricevuta da bambina in
casa e in parrocchia dalle suore e dai preti. Incredibile ma vero!
Risposta
Hai
visto? E’ proprio così! Siamo prodotti psichici e culturali
condizionati in buona parte. Allora, cominciamo, ma ti do soltanto le
coordinate per iniziare prima a gustare il film e poi a capirlo.
Ricordati che prima un film si vive e poi si capisce se si vuole,
altrimenti può anche finire tutto là, nell’averlo visto, sentito
e vissuto.
Bertolucci
e Arcalli hanno scritto la trama del film considerando essenzialmente
come “cornice” la Filosofia dell’Esistenza e la Psicoanalisi e
mettendoci dentro come “contenuto” le storie di vita di un uomo
qualsiasi e di una donna qualsiasi, due modelli di modi ineludibili
di vivere. Procedo a spiegarti meglio.
Dall’Esistenzialismo
Bertolucci e Arcalli hanno preso la concezione pessimistica
dell’uomo, il suo andare inesorabilmente verso la morte, la
solitudine e le angosce, il senso del Nulla e il suicidio come sua
affermazione, il senso della nausea e il dolore dell’inautenticità,
la banalità dell’esistenza e la condanna all’anonimato,
l’impossibilità di cogliere un senso di autenticità del vivere
semplicemente perché non esiste. La Morte è assurda e la Vita è un
andare verso la Morte e verso la realizzazione dell’assurdità.
Questa è l’evoluzione del pensiero di Kierkegaard, di
Schophenauer, di Jaspers e di altri filosofi che è arrivata ad
Heidegger e a Sartre, gli ultimi teorici dell’Esistenzialismo e
aggiungo fortunatamente, perché non si può vivere da frati
trappisti. Anzi, questi ultimi con il loro continuo “fratello
ricordati che devi morire” avevano la certezza della resurrezione
dell’anima e del ritorno nella casa del Padre, mentre gi
esistenzialisti non avevano nessuna speranza, neanche quella del
“Nulla eterno” di Ugo Foscolo nel meraviglioso sonetto “Alla
sera”.
Dalla
Psicoanalisi classica Bertolucci e Arcalli hanno preso la griglia
psicoanalitica del primo Freud, quello degli “Studi sull’isteria”
e dei “Saggi sulla sessualità infantile” e della
“Interpretazione dei sogni”, e i principi del secondo Freud,
quello del dopo prima guerra mondiale, quello traumatizzato dalla
distruzione del mondo civile che aveva elaborato i nuovi principi
psichici dell’uomo, Eros e Thànatos, Vita e Morte, quello che
aveva tirato in ballo la pulsione erotica e sessuale in opposizione
alla pulsione autodistruttiva in associazione al micidiale meccanismo
psichico di difesa della “coazione a ripetere”, della pulsione a
rimettere in circolazione vissuti e comportamenti archiviati e mai
superati perché mai capiti e razionalizzati. Seguimi senza avere la
paura di non capire.
In
questo benefico “baillame” filosofico e psicoanalitico Bertolucci
e Arcalli, due “studiati” come dite voi veneti che non fate il
tifo per la Lega nord, hanno calato anche qualche digressione e
approfondimento della Psicoanalisi del francese Lacan, lo
psicoanalista che aveva preso di mira l’Inconscio e l’aveva
collocato visibilmente nella Parola, “le ca on parle”, la cosa o
l’Inconscio parla o si parla. Questo significa che nel film
Bertolucci e Arcalli avevano collocato anche una polivalenza della
parola e del linguaggio: la parola come silenzio, la parola come
rumore, la parola come suono, la parola come pulsione, la parola come
emozione e la parola come ragione.
Ma
non basta ancora, perché nel film abbiamo due personaggi, Paul e
Jeanne, due sconosciuti e due vittime dell’Esistenza e del Nulla
che la contraddistingue, un uomo e una donna che hanno storie di vita
diverse e un esito finale identico, la morte. L’interesse comune è
quello di viversi nell’indeterminato e senza definirsi, di non
usare la storia personale e le parole, di viversi di volta in volta
nell’attimo e nel frammento e nell’assenza del tempo e della
continuità storica, di esaltare Eros e Thànatos del secondo Freud
attraverso le fasi dello sviluppo psicosessuale del primo Freud: fase
“orale”, “anale”, “fallico-narcisistica” e “genitale”
attraverso l’esaltazione della “libido” collegata e collocata
negli organi erogeni deputati, la bocca, la mucosa anale, gli organi
sessuali in versione individuale con la masturbazione e in versione
di coppia con il coito. Non basta, perché tutto questo contenuto
viene inquadrato nella cornice “edipica” dei due protagonisti: la
loro relazione conflittuale e ambivalente con i genitori. Ti spiego.
Paul ha quarantacinque anni e Jeanne ha vent’anni, una coppia
edipica decisamente. Lui può essere suo padre e lei può essere sua
figlia. Ancora: Paul ha appena perso per suicidio la moglie Rosa, una
donna che l’aveva tradito con un altro uomo e con cui aveva un
vissuto chiaramente conflittuale e di dipendenza, come si vede e si
capisce nella scena in cui lui parla al feretro composto e di
straordinaria bellezza nonostante il tanto strazio che la donna si
era inferto con il rasoio, simbolo fallico di violenza. Jeanne era
innamorata in maniera ambigua del padre colonnello e alla fine uccide
Paul con la pistola del padre. La pistola è un simbolo fallico.
Insomma, cara Maria, vedi che da tutte le parti viene fuori in questo
film tanto di cultura e niente di zozzura. Viene fuori un impasto
intellettuale di grande pregio e di buon conio da recitare
principalmente in una casa disadorna e tutta da riempire con la
libera espressione delle emozioni e degli orgasmi. La “casa” è
il simbolo della struttura psichica in atto ed è quasi vuota perché
saranno Paul e Jeanne a metterci dentro e di volta in volta le loro
suppellettili psicofisiche. Attenzione: ho detto psicofisiche, non
corporee e basta, esperienze vissute fino al midollo erotico in
esorcismo dell’angoscia di morte.
Domanda
Lei,
dottore, mi sta aprendo gli occhi. Continui a spiegarmi, per favore.
Risposta
Procedo
più chiaramente possibile. Hai visto che nelle scene cosiddette di
sesso c’è la “posizione orale” nel bacio e non nel sesso orale
reciproco, nella “posizione anale” c’è la scena del rapporto
coadiuvato dal burro, nella “posizione fallico-narcisistica” c’è
la scena di Jeanne che si masturba, nella “posizione genitale” ci
sono tutte le scene dei rapporti sessuali basati su una libera e
paritaria espressione della “libido” individuale, ora attiva e
ora passiva. Non ha senso parlare di stupro e di violenza sessuale in
questo film, perché i due protagonisti umanamente hanno un comune
denominatore, quello di uscire dall’angoscia esistenziale
attraverso la sessualità istintiva e pulsionale, uscire da Thanatos
attraverso Eros, quello di vivere lo “spirito dionisiaco” di
Nietzsche e di omettere le parole anagrafiche e i grandi
ragionamenti, di andare al di là del Tempo e della Storia
nell’attimo eterno e nell’anonimato indefinito. Il fine è sempre
quello di esaltare i valori erotici del corpo, di sconfiggere la
noia, di difendersi dalla nausea, di riempire la vacuità, di
commutare l’angoscia del Nulla nelle gioie inespresse dei sensi. La
sessualità vitalistica è Vita e l’orgasmo è l’antidoto della
Morte per inedia. Eros e Thanatos sono dialetticamente intesi nella
scimmia umana, Paul e Jeanne, che fa il verso alle evanescenti
creature angeliche e che mostra il sesso e il culo come le creature
diaboliche che si oppongono al culto banale dell’obbedienza e del
conformismo a qualsiasi tipo di divinità. In tanta opera di
distruzione del Tempo e della Storia resiste e domina lo Spazio con
la geometria e il volume della stanza e dei corpi, la prima pulsante
e i secondi intrisi di vitalità orgiastica.
Domanda
Ma
perché Jeanne uccide Paul alla fine?
Risposta
Perché
Paul si era innamorato di lei e lo dice con parole convenzionali e
con modi diversi rispetto al passato sciupando e vanificando
l’intensità del dramma della vita erotica che lui stesso aveva
proposto a Jeanne sin dall’inizio della loro originale relazione e
che la donna aveva accettato sulla scia del fascino di un padre
erotico che si portava dentro e in preda finalmente all’appagamento
delle sensazioni che aveva vissuto nell’infanzia e che si era
trascinata intatte fino ai suoi vent’anni. Paul non si era proposto
come l’uomo “maieutico” che avrebbe consentito a Jeanne il
parto della “coscienza di sé”. Paul aveva additato il traguardo
di fare risuonare le note vitalistiche che si sprigionano dal corpo e
che oscillano inesorabilmente tra Eros e Thanatos, come nel pendolo
di Galilei o nel fuso delle Moire. Simbolicamente Jeanne usa il fallo
del padre, la pistola, per dire a Paul che lei non ha superato la sua
“posizione edipica” e che può uccidere il padre perché cambia
le carte in tavola passando dalla sessualità sfrenata a un anonimo
e pacato sentimento d’amore di stampo borghese. Mentre Paul
riconosce Jeanne come la sua donna ed è pronto ad amarla donandosi
secondo i dettami della “libido genitale”, quest’ultima è
ancora ferma al palo della tempesta tra Eros e Thanatos, è incapace
di evolversi insieme al suo compagno di viaggio da due individui a
una coppia. A Jeanne non resta che procedere da sola nelle sue
traversie esistenziali alla ricerca di un poderoso calcio in culo per
continuare a vivere anche quando in lei niente chiede di continuare
ed è pronta per il suicidio. Questo è il prezzo che Jeanne paga al
mancato riconoscimento del padre, alla mancata soluzione del
conflitto edipico: la morte in vita. Anche lei segue Paul nella tomba
dei sensi che non si sono evoluti in sentimenti. Mi ripeto in questo
delicato passaggio. Paul, confutando se stesso e convertendosi ai
valori borghesi del buon marito e del buon padre di famiglia, ( vedi
lo stadio etico di Kierkegaard ), è morto nella mente e nel corpo.
Lui ha superato la “posizione edipica”, ha risolto la dipendenza
dalla madre quando ha scaricato i suoi struggenti “fantasmi”
edipici sul feretro muto di Rosa, la moglie fedifraga e suicida in
piena regola con la modalità e la moda esistenzialiste. Paul si è
liberato dell’inciampo materno e si è proposto alla sua donna come
uomo innamorato sottomettendosi e perdendo il fascino del maschio
maledetto. Stava per fare una retromarcia fenomenale verso
l’esistenza “banale”, quella fatta di padre, di madre, di
figli, di lavoro, di casetta, di “baguette”, di lavatrice e di
“citroen”, ma Jeanne non era nella sua lunghezza d’onda. Jeanne
era ferma alla sua conformazione fisica e alla sua modalità psichica
di vivere la vitalità andando incontro alla Morte con il cuore vuoto
più che leggero.
Domanda
Ma
Bertolucci cosa ci ha messo di suo nel film?
Risposta
Sono
due gli sceneggiatori, ma l’ispirazione è di Bertolucci. Ha detto,
infatti, che la trama del film nasce da un sogno che aveva fatto e
che si era ripetuto, un sogno universale che consiste semplicemente
nell’incontro per strada di una bellissima donna sconosciuta e nel
fare l’amore con lei senza sapere la sua identità. Questa è la
“posizione edipica” del piccolo Bernardo Bertolucci e da sempre
di tutti i bambini del mondo. Questo è il caso di Edipo che senza
saperlo sposa la madre Giocasta nella trilogia tragica di Sofocle:
Edipo re, Edipo a Colono e Antigone. Spiego il sogno: la “bellissima
donna” è la “parte positiva” del “fantasma della madre”,
la seduzione erotica che ogni bambino elabora con desiderio e vive
con struggimento. La donna è “sconosciuta” per non incorrere nel
risveglio e nell’incubo. Non poteva trovarsi di fronte il viso
della mamma. La “strada” è il luogo della realtà sociale e
della pratica della vita, oltre che un film drammatico del primo
Federico Fellini. “Fare l’amore” traduce l’esercizio della
“libido genitale”, un coito incestuoso la cui realizzazione
incorre ardentemente nel desiderio di ogni bambino nella forma di una
calda fusione erotica corpo a corpo e nel coinvolgimento generico
degli organi sessuali. In “Ultimo tango a Parigi” la “posizione
edipica” è la cornice psichica profonda dei due protagonisti.
Bertolucci aveva elaborato la sua e l’aveva proiettata nella trama
del film e, di poi, tramite i “negativi in celluloide” nella
grande tela cinematografica: “traslazione” e “proiezione” nei
due personaggi del film. Per questi ultimi soltanto in questo quadro
è possibile il riscatto dal Male di vivere e dalla Morte che impazza
e domina. Soltanto attraverso l’esaltazione orgasmica dei sensi e
nell’attimo può avvenire un momentaneo riscatto dall’angoscia
umana di base. Entrambi ci riescono, ma lui soccombe nel momento in
cui si stacca dallo “spirito dionisiaco” per accedere allo
“spirito apollineo” per dirla alla Nietzsche, nel momento in cui
passa da Eros e Thanatos alla Ragione che tutto comprende, spiega e
assolve, per dirla alla Freud. Ricordo che Apollo era il dio della
Ragione e dell’Arte. Quest’ultima era stata fissata dalla Grecia
classica nella Bellezza composta e razionale: concetto di armonia tra
le parti che trovi nelle opere di Fidia.
Domanda
Non
riesco a crederci. Quello che mi dice lo capisco e mi si illuminano
le scene del film e anche il cervello. Ma quanto ignorante sono e
quanto ignoranti erano quelli della censura?
Risposta
Siamo
a Roma. La presenza e l’ombra dello stato del Vaticano, e tutto
quello che di oscurantista esso sottende e rappresenta, hanno avuto e
hanno tanta importanza nel condizionare la nostra cultura su
posizioni retrograde e rigide. La fissità indiscutibile degli schemi
morali, la misoginia e la sessuofobia di base non hanno favorito la
giusta evoluzione degli schemi interpretativi ed esecutivi dell’uomo
e della realtà. Anche la funzione di controllo del territorio
tramite le chiese e le parrocchie esercitava un orientamento non
soltanto per le anime ma soprattutto per i corpi. Gli istituti
politici e giuridici erano in linea con la fissità delle norme
teologiche e queste ultime spesso erano dettate dagli organi
ufficiali e ufficiosi della Stato Vaticano. La Cultura bloccata
rendeva impossibile l’evoluzione della Civiltà. Nonostante la
rivoluzione culturale del ‘68 e la rivoluzione delle donne, negli
anni ‘70 si respirava un’aria viziata dappertutto e non era
causata dalla libertà di fumare le “ms” o le “marlboro”
dappertutto, ma dai residui fascisti e clericali che si erano ben
depositati nelle testoline dei nostri genitori e negli interessi dei
nostri politici. Oggi non ci sono più preti e le chiese sono chiuse.
I loro patrimoni culturali e artistici vanno in malora come se
fossero dei beni privati. E’ un vero peccato, perché quei beni
sono di tutta l’umanità. Se il pontefice massimo riducesse
d’imperio l’obbligo del celibato ecclesiastico nel sacramento
dell’Ordine alla libera scelta del sacerdote, se il Papa allargasse
il sacramento del matrimonio anche agli operai della sua vigna con
l’esercizio della sessualità almeno genitale, avremmo veramente il
boom economico auspicato maldestramente dagli istrioni contemporanei
con i decreti sulla dignità del lavoro e avremmo meno pedofili: più
preti, più lavoro intanto, meno bambini e adolescenti in pericolo,
meno chierici da condannare soltanto moralmente. Le chiese aperte al
culto religioso e al gusto storico e artistico degli uomini hanno
anche la funzione di controllare il territorio e ridurre la
disoccupazione. Nonostante i simboli di morte e le angosce del
peccato che si portano dietro, siano benvenute tutte le religioni
tolleranti e aperte ai tempi e alle culture. In caso contrario si
perpetua quel rigore fideistico e morale che tanti danni causa negli
uomini e nelle società, non ultimi la pedofilia e il terrorismo.
Domanda
Lei
mi sta dicendo che la Chiesa ha contribuito alla condanna del film di
Bernardo Bertolucci. Del resto, le streghe le condannava al rogo.
Risposta
Appunto,
hanno “traslato” Bertolucci nel suo film e l’hanno bruciato
vivo. La “traslazione” dell’omicidio è evidente. Come dire:
“oggi come oggi, purtroppo, non posso ucciderti, ma ancora posso
uccidere la tua creatura e posso costringere la tua fantasia perversa
e il tuo cervello malato a non funzionare”. Questa è una violenza
terribile. Pensa alla frase di Benito Mussolini su Antonio Gramsci
quando lo relegò nel carcere a vita: “quella testa non deve più
pensare”. Immagina se a Dante Alighieri avessero bruciato la Divina
Commedia. Magari gli studenti avrebbero fatto festa, ma quanto
terrore incute ancora oggi la condanna dell’opera di un uomo che
esplora e cerca di comunicare delle verità difficili ma certamente
vere, verità scoperte da altri che hanno subito la stessa sorte. I
libri di Freud furono bruciati e il grande vecchio ne soffrì
maledettamente. Oltretutto era molto impressionabile e vide in quel
gesto nazista la fine del mondo civile e la sua stessa fine.
Nonostante tutto e nonostante il tumore alla mascella continuava a
fumare i suoi sigari olandesi e, non potendo aprire la bocca, si
aiutava con una pinza da biancheria per infilarsi la morte in bocca.
Si è detto che i tempi non erano maturi per la visione di “Ultimo
tango a Parigi” e che la gente non poteva capire i contenuti
filosofici e psicologici. E’ assolutamente falso. La gente è
sempre pronta ad ascoltare e a capire le novità. Basta spiegarle nel
modo giusto. Io sto spiegando a te la griglia d’interpretazione più
importante del film “Ultimo tango a Parigi” e tu capisci e ti si
illumina lo sguardo al pensiero che tra immagini erotiche e sessuali
si possa nascondere un mondo di scoperte teoriche e pratiche, la
filosofia esistenzialista e la teoria della “libido” e della
sessualità umana. Ma se il potere ufficiale e ufficioso non permette
la divulgazione perché teme di essere screditato e soppiantato,
perché ha paura della tua crescita umana e intellettiva e ha bisogno
di imporsi e di coartare la tua coscienza, allora ti condanna al
carcere e ti condanna al rogo tramite la tua creatura, un film ben
fatto e adatto all’evoluzione dei tempi. Da benefattori Bertolucci
e Arcalli si sono trovati a espiare un reato esistente nei codici
fascisti e inesistente nei codici psichici e filosofici, i codici
naturali umani per intenderci. Dire che i tempi non erano maturi
lascia l’amaro in bocca e induce la domanda di quando i tempi
saranno maturi. Bisogna stare sempre attenti a tutte le novità
umane, scientifiche e non. Dopo averle ben capite, si può esercitare
lo spirito critico e decidere se aderire o se respingere, ma mai
condannare e soprattutto al rogo. Che bruttura! Eppure è successa
anche a Bertolucci e ad Arcalli nel “civile” 1976. Ti do qualche
data storica per avere un’idea dei tempi: 1970 legge sul divorzio,
1978 legge sull’aborto, 1981 abrogazione del delitto d’onore.
Specialmente per l’ultimo siamo veramente in grave e significativo
ritardo, non mestruale, ma mentale. Vedi un po’ tu se questa è
civiltà! Ma la malattia mentale al potere non finisce qua,
tutt’altro! Si è aggravata nel nostro tempo con il dominio
democratico degli ebefrenici e dei paranoici, i teorici
dell’improvvisazione qualunquistica e i teorici del sentimento
dell’odio e non solo razzista, ma quello spostato dai connazionali
meridionali al migrante dal naso camuso e nel profugo dal viso
olivastro, uomini, donne e bambini a cui viene negato il “diritto
naturale” della vita e della conservazione della vita, quel
“giusnaturalismo” elaborato nel Seicento da Ugo Grozio e da
Alberico Gentile, i “diritti” oggettivati nel possesso di un
corpo vivente che si antepongono ai “diritti positivi” di
qualsiasi Stato e su cui quest’ultimo deve basare le sue Leggi,
quei diritti di base che esigono che dove c’è vita c’é diritto
a vivere, al di là del nome e del cognome e della nazionalità, al
di là della religione e della cultura, al di là della teosofia di
Budda. Tutti i porti sono aperti al naufrago sin da quando Ulisse
peregrinava nel “mare nostrum”, il mare che sta tra le terre, per
stare lontano dalla pallosa Penelope e per gustare le attenzioni
mortali della maga Circe e delle graziose Sirene anche lui oscillando
tra Eros e Thanatos come Paul e Jeanne. Anche il mio amico Pietro da
buon gatto siracusano di razza rossa capisce questi principi naturali
e richiede, se è possibile e con garbo ruffiano, la sua porzione di
“kitekat” per non andare a uccidere un perfido topo di campagna.
Ma la Follia si è impadronita del potere e degli uomini che
direttamente lo rappresentano e lo esercitano, nonché di quelli che
direttamente lo sostengono e lo giustificano. Erasmo se la ride a
crepapelle nella sua tomba a Rotterdam dall’alto delle sue poche
ceneri. Se non ci credi, prova a leggere “Elogio della follia”.
“Ve l’avevo detto per ischerzo, ma vedo che siete caduti nella
merda fino al collo”: ah, malefico olandese!
Domanda
Cosa
mi consiglia di leggere per capire meglio non soltanto un film?
Risposta
E’
tremendo per un uomo non avere gli strumenti linguistici per
esprimersi, non possedere i grimaldelli d’interpretazione e di
critica del mondo che lo circonda per agire, non avere gli schemi di
inquadramento dei dati che affluiscono in maniera copiosa nella sua
zucca vuota. Oggi, insieme alla povertà materiale è da considerare
la povertà degli strumenti interpretativi ed esecutivi. E così
prosperano i ciarlatani e gli imbonitori, quelli che si azzuffano
come i polli nel cortile dentro gli schermi televisivi, giornalisti e
politici che dicono sempre le stesse cose e che ripetono le stesse
litanie da decenni con le stesse facce, filosofi e critici d’arte
che mettono a dura prova il loro sistema cardiocircolatorio e la
nostra capacità di sopportazione con un turpiloquio gratuito e che
fa senso, con una prevaricazione terribile come quella di non far
parlare l’altro e di ingiuriarlo. Una grande responsabilità
appartiene al sistema scolastico che non fornisce gli strumenti e gli
schemi per interpretare la realtà, i dati, le notizie e le
informazioni. Le varie e ricorrenti riforme scolastiche hanno
deprivato le nuove generazioni della capacità di pensare e di
parlare, di criticare e di elaborare, di riattraversare e di
riattualizzare. Basta guardare la struttura dei libri di testo. La
mia generazione all’incontrario era colma di ideologie e di
strumenti per la comprensione dei tempi e delle culture: anche
troppo! Platone, Aristotele, Hegel, Marx, Freud e altri minori erano
di casa. Si pensava con la testa degli altri, più che con la
propria. Ma del resto, anche la testa ha bisogno di crescere per
avere la consapevolezza dell’impossibilità di essere autentici e
della possibilità di essere autonomi. Inoltre, si comunicava tanto
di più e non ci si isolava, si stava insieme e si ballava sopra un
mattone in una balera, in una terrazza o nel salotto buono della
mamma. Ma questa non era la felicità. Oggi le culture sono
continuamente critiche e per niente statiche e soprattutto più
evolute, ma il sistema educativo e d’istruzione non è al passo e
chissà perché. Oggi è meglio di ieri e sicuramente il domani sarà
ancora migliore perché avremo qualche scoperta scientifica da
celebrare e da godere. Concludo il lungo pistolotto consigliandoti di
prendere il sommario di filosofia di tuo figlio e nel terzo volume
troverai Freud, Heidegger, Sartre. Leggili e se non capisci tutto, va
bene lo stesso. Capirai in una seconda e terza lettura. Leggi di
Alberto Moravia “La noia” e “Gli indifferenti” o altri
romanzi che trovi in libreria a basso costo. Vuoi un’equivalente
dinamica tra Eros e Thanatos? Leggi “Il Gattopardo” di Giuseppe
Tomasi, duca di Palma e principe di Lampedusa. Vedi poi anche il film
di Luchino Visconti degli anni sessanta che è stato restaurato da
qualche anno. Regalati “Ultimo tango a Parigi” e guardalo con
occhi nuovi e con la mente sgombra da pregiudizi morali. Ne gusterai
la bellezza e ti sentirai emotivamente coinvolta. Non dico che andrai
in orgasmo, ma ti sentirai rimescolata dentro. Ti si allargheranno
gli orizzonti di comprensione dei prodotti umani e ti accorgerai che
“niente di nuovo sotto il sole” e che “tutto si ripete” e si
allarga ad altre sfere della capacità umana di comunicare. Da tempo
non resta che la “contaminazione” perché tutto è stato detto e
scritto e tutto si può soltanto ridire e riscrivere con
approfondimenti in base ai tempi e alle culture. E’ semplicemente
impossibile essere originali e autentici. Poi riponi il “dvd” e i
libri nella parte visibile della tua libreria.
Domanda
Che
cavalcata! Sono stanca.
Risposta
Indubbiamente
è venuto fuori da una tua curiosità un “papello” di roba. Torno
al sogno di Sabina e propongo, in chiusura e restando sul tema, il
video di una semplice e inestimabile poesia di Mariangela Gualtieri,
“Ringraziare desidero”, oltretutto da lei recitata, personalmente
e in persona, come direbbe il solito ridicolo comico di periferia
politicamente promosso. Il tutto è in onore della vena creativa
latente di Sabina.
Geg ha sette anni e da settembre frequenta la prima elementare: compagni nuovi, tutti i giorni fino alle sedici e il sabato a casa. E’ sempre andato volentieri a scuola senza manifestare malesseri di alcun tipo. Si è integrato bene, le maestre sono contente di lui, è buono e bravo, è sempre gentile con gli altri bambini.”
Analizzo questa lettera di mamma Limpida passo dopo passo, vista l’universalità dei temi trattati e l’utilità per le quotidiane relazioni “padri-madri- figli”. Innanzitutto dico e affermo: averne di bambini, meglio ragazzini, come Geg! E’ quasi perfetto nella sua normalità specifica e nell’esordio descrittivo della sua mamma. Soprattutto “è sempre andato volentieri a scuola senza manifestare malesseri di alcun tipo.” E’ un primogenito di buona razza e sa ben inserirsi nel gruppo; del resto, ha dovuto adattarsi sin dalla tenera età al fratellino e la famiglia non gli ha risparmiato giustamente le relazioni sociali. Bene, anzi benissimo! I bambini devono vivere in mezzo alla gente e non isolati in una gabbia d’oro o in una casa tecnologica: servono il popolo e la dimora. Geg non somatizza disagi psichici profondi, né tanto meno disturbi di poco spessore: questo è importantissimo! Ripeto: se un bambino regredisce e somatizza, è da considerare in maniera adeguata perché non sta bene e non sta crescendo bene, sta accusando una disarmonia evolutiva negli investimenti della sua energia vitale, tecnicamente detta “libido”, e sta formando il carattere in maniera fortemente conflittuale. In questo caso e soltanto in questo caso è doveroso preoccuparsi “clinicamente” della salute psichica dei figli. Per il resto bisogna sempre lasciarli liberi di vivere i loro giusti conflitti e di formare il loro necessario carattere. Quest’ultimo si forma e non si eredita. Di psicologico non ereditiamo alcunché! Quindi, affermazioni del tipo “mio figlio mi somiglia nel carattere o somiglia a …” sono del tutto generiche e soggettive, non hanno alcun riscontro scientifico perché la “psiche” non è inscritta nel DNA. Procediamo: “le maestre sono contente di lui”. Sulle nobili e mai adeguatamente valutate figure delle maestre bisogna dire che per i bambini rappresentano il prolungamento sociale della figura materna e della figura paterna, in quanto essi proiettano su di loro i tratti psichici che hanno già conosciuto e sperimentato nei genitori. E’ anche vero che, a volte, le maestre esagerano nelle valutazioni psicologiche dei bambini, ma non dimentichiamo che la scuola primaria italiana è altamente qualificata ed è sicuramente la migliore almeno in Europa. Concludendo questa prima parte, è giusto affermare che Geg “è buono e bravo, è sempre gentile con gli altri bambini.” La parola va ancora a mamma Limpida.
“Per me è stata duretta abituarmi ad aiutarlo a fare i compiti per casa durante il fine settimana, perché richiede tanta pazienza e tanto tempo e riconosco che a volte sono nervosa e poco carina con lui. Poi con calma recupero e sono più paziente e meno pressante. L’ho lasciato abbastanza libero di gestirsi nel limite del possibile e soprattutto non l’ho minacciato e tanto meno terrorizzato.
Sia lode alla mamma! Limpida è consapevole di non essere nata madre e di non essere stata educata a tale arduo compito. Ha soltanto sperimentato in primo luogo la sua mamma e si è fatta un’idea della figura materna in base al “criterio del meglio” e abbandonando in parte il “criterio della Nutella”. Limpida ha vendemmiato dalla sua esperienza di figlia le “parti migliori” di sua madre, le ha assimilate e le mette in atto con i suoi figli. Le “parti negative”, quelle che non ha gradito e condiviso, le ha lasciate alla sua augusta genitrice e alla sua cultura. Il “criterio della Nutella” si attesta nell’ereditarietà della crema da spalmare senza alcun cambiamento degli ingredienti e soltanto nel cambiamento delle generazioni: “la nonna la dava alla mamma, la mamma la dava a me e io la darò ai miei figli”. La libera e proficua evoluzione del costume genitoriale si attesta nel conservare il “meglio educativo” e nel sostituire il “peggio educativo” con il proprio “meglio”. Limpida ha ripreso a fare i compiti dalla parte opposta del suo essere stata scolara e senza essere maestra, ma essendo tanto di più e di più complicato, l’essere “mater et magistra”. Notevole la consapevolezza dei suoi limiti e la disponibilità a imparare per amore dei figli. E poi vogliamo trascurare l’educazione all’autonomia “nei limiti del possibile”? Ma, il capolavoro educativo di Limpida è costituito dall’assenza di minacce e tanto meno di terrore, di ricatti e di manovre colpevolizzanti. E’ importantissimo per il futuro equilibrio del bambino non indurre sensi di colpa. Già di suo il bambino non si esime dal colpevolizzarsi per le scelte d’investimento della sua “libido” durante il periodo critico della formazione del suo carattere, se poi ci mettiamo anche la mamma che gli grida “tu sei cattivo e mi farai morire”, il pasticciaccio è benfatto e quasi completo. Fin qui mamma Limpida è ineccepibile e ammirevole per la consapevolezza del suo ruolo nel presente e soprattutto nel futuro prossimo. Non ci resta che procedere nella speranza d’incontrare qualche problema e qualche conflitto in Geg. Scrive ancora mamma Limpida.
“Tutto è andato bene fino a due settimane fa. Geg è venuto a casa con una nota della maestra perché aveva dato un pugno a un bambino, che tra l’altro è un suo amichetto. Gli ho parlato senza fargli pesare troppo la cosa. Lunedì aveva verifica d’inglese e si è messo a copiare e la maestra si è accorta. Aveva anche una poesia da imparare e non l’ha studiata. Io non lo sapevo, ma l’ho scoperto stamattina da un’altra mamma, altrimenti non avrei saputo niente. Per il resto Geg ha buoni voti, anche se per lui non è mai il momento giusto per fare i compiti. Fino a questo punto il capitolo scuola.”
Geg mi piace tanto, ma veramente tanto. A sette anni comincia a realizzare la sua aggressività con un pugno di bambino dato a un altro bambino, oltretutto amichetto a conferma che l’aggressività non guarda in faccia nessuno e tanto meno i familiari e gli affini. Geg avrebbe voluto dare questo pugno al fratellino impiccione che gli ha tolto il primato affettivo in famiglia o al padre che gli è di ostacolo nella relazione e gestione della madre. L’aggressività nel bambino non deve raggiungere i livelli di guardia, limiti che si possono fissare nella pulsione sadica fine a se stessa. Ossia, se ci si accorge che il bambino ha un gusto della violenza fisica, allora s’interviene e si corregge. Ad esempio, se un bambino scortica una lucertola, ebbene sì, preoccupiamoci! Ma chi non ha dato un pugno a un compagno di scuola, specialmente se provocato? Mamma Limpida parla con Geg e non induce sensi di colpa. Ottimo! Ancora. Copiare una verifica è un capolavoro. Geg si sta addestrando alla vita futura e alla giusta difesa di sé, come ha imparato a casa anche a causa del fratellino. Bisogna favorire nel bambino l’intelligenza operativa, la “truffa sociale”, perché questa è la vera intelligenza, quella che serve nell’esercizio del vivere, e non quella astratta e teorica. Propongo un premio a Geg perché ha copiato e alla mamma e alla maestra perché non l‘hanno colpevolizzato. Il bambino è “di sinistra”, tendenzialmente in ebollizione e rivoluzionario, e spesso gli adulti si sono dimenticati il loro essere stati bambini e sono diventati moralisti e bacchettoni. Geg è assolutamente normale nel suo essere se stesso e sta crescendo bene. Arriviamo alle poesie da imparare a memoria, quelle che fanno odiare a vita la letteratura. Geg non l’ha imparata e non l’ha detto alla mamma. Limpida deve imparare a rispettare la “privacy” del figlio. Ogni bambino deve avere un mondo di cose per sé e può anche non condividerle. I genitori devono avere la giusta discrezione e il doveroso rispetto e non devono fomentare sensi di colpa per l’esclusione della mamma o del papà. Bisogna sempre favorire l‘emancipazione anche perché in questo momento della sua vita Geg è alle prese con altri conflitti ben più importanti, quelli legati alla formazione del carattere e nello specifico il complesso di Edipo e il “sentimento della rivalità fraterna”. Geg è promosso a pieni voti, fino a questo punto, dal sottoscritto, che è stato anche insegnante per quarant’anni, soprattutto perché non vive di scuola e sa districarsi da solo nelle vicissitudini personali e relazionali. Procediamo sempre nella ricerca di un conflitto evidente e consistente nella psiche di Geg e sempre secondo la versione di mamma Limpida.
“Verso fine anno ha iniziato a essere insofferente in casa. Si annoia e non sa cosa fare, si stanca facilmente delle cose che fa. Il suo maggior desiderio è quello di andare dal nonno e stare a lavorare nei campi con lui. Il padre è un po’ geloso di questa cosa, perché la vive forse come se non volesse stare con lui.”
Finalmente si profila un problema, un problema serio: la “noia”. Cari genitori, quando vostro figlio vi dice che si annoia, cominciate a preoccuparvi e non sottovalutate quello che vi sta dicendo, perché è l’accusa di un disagio e la precisa richiesta di aiuto. La parola “noia” deriva dal greco “nous” che significa “mente”. Consegue che “noia” è la degenerazione di una delle funzioni della “mente” e nello specifico della dimensione del “desiderio”. Un bambino che accusa la “noia”, non solo non ha desideri, ma soprattutto non desidera. Geg sta vivendo il conflitto edipico con i genitori e il conflitto affettivo con il fratello. Ben venga la scelta di andare dal nonno, avendo capito l’importanza psichica del nonno e della nonna e il bisogno di Geg di spostare l’angoscia edipica dal padre, vissuto come un nemico cattivo che punisce, al nonno, il padre buono che rassicura e insegna soprattutto l’amore verso la natura. Bisogna favorire la terapia che Geg ha scelto per sé: viversi con il nonno amando, giocando e imparando. La formazione del carattere sta avvenendo e la figura del nonno consente possibilità d’identificazione in una figura maschile che coltiva passioni e ha tanto da dire e tanto da dare. Il padre non ha nessun motivo di essere geloso, anzi deve favorire e non proibire la terapia scelta dal figlio e deve intervenire proponendosi come padre allettante e non contro il nonno. Ecco cosa dice Geg alla nonna a conferma del problema edipico e della rivalità fraterna.
“Geg ha raccontato alla nonna che il padre fa preferenze verso Gig. La cosa è un po’ vera. Gig ha un altro carattere e non si lamenta mai. Il padre ama i suoi bambini e loro vengono prima di tutto, però nei confronti di Geg è più severo, lo rimprovera e vorrebbe che fosse più docile. Ma Geg non lo è! Geg cerca tanto la complicità del padre, lo istiga, lo fa arrabbiare e poi va a farsi coccolare, però quando il padre gli propone di stare insieme lui, preferisce andare dal nonno.”
Gig ha un carattere diverso semplicemente perché i vissuti sullo stesso oggetto non possono essere identici: due caratteri identici non esistono neanche nei gemelli monozigotici. Anche Gig si sta formando e ha i suoi conflitti con il padre, con la madre, con il fratello e anche con il gatto di casa, ma al momento non si evidenziano in maniera teatrale perché Gig li elabora e li contiene usando meccanismi di difesa diversi rispetto al fratello Geg. Il padre è bravo, ma è severo con il figlio che in questo momento è in aperto conflitto con lui. All’incontrario deve essere suadente con Geg, il quale a sua volta non può essere docile con il padre perché la competizione è l’unica arma che in questo momento della sua vita la sua psiche concepisce. Il padre non deve punire e tanto meno colpevolizzare il figlio. La provocazione di Geg nei confronti del padre ha la finalità di constatare il legame affettivo di quest’ultimo nei suoi confronti. Meno male che c’è il sostituto del padre, il nonno venerando. Si vede chiaramente la psicodinamica edipica di Geg. Padre e figlio vivono la stessa psicodinamica in maniera diversa, uno come rifiuto da parte del figlio e l’altro come cattiveria del padre nei suoi confronti.
“Il padre lo punisce a volte vietandogli di andare dal nonno. Gli ho detto che secondo me è sbagliato e non ottiene niente, anzi peggiora la situazione. Dovrà essere Geg a decidere la domenica di star con noi e non con il nonno.
Ho parlato con Geg e ha detto che io non faccio preferenze, ma il papà sì.
Non pensavo fosse così difficile il ruolo dei genitori. Mi devo impegnare a essere più paziente, ma a volte la sera mi snerva perché non vuole fare niente di quello che gli dico. Come faccio? Non posso lasciargli fare quello che vuole! Grazie di tutto, intanto e aspetto i tuoi buoni consigli. Cordialità da mamma Limpida”
Sbagliatissimo e dannosissimo impedire al figlio l’esercizio degli affetti per motivi di gelosia da parte del padre. All’incontrario bisogna favorire la vita affettiva per dare a Geg la sicurezza dei suoi investimenti di “libido”, se vogliamo evitare che da adulto sia bloccato nell’espressione dei suoi sentimenti e nell’offerta erotica del suo corpo. Le preferenze sono il tema della rivalità fraterna. Geg sta dicendo che suo fratello è più amato di lui da parte del padre e che deve identificarsi nel padre, ma viene respinto e Geg provoca e, invece di un alleato amico e complice, si trova un padre che lo punisce confermando il senso di colpa di Geg e istigando in lui la conseguente espiazione. Certo che non bisogna consentire ai figli di fare quello che vogliono e i figli stessi non chiedono questo e non sarebbero capaci di chiedere e di fare questo. Bisogna ascoltarli, individuare il problema e agire sul conflitto nella maniera migliore. In questo caso il padre deve fare alleanza con il figlio due volte, una per il complesso di Edipo e l’altra per la rivalità fraterna, dimostrando a Geg che ha esagerato, che tutti stiamo bene in famiglia al posto giusto e facendo vedere i vantaggi dell’esser tanti e solidali. L’ostinazione di Geg conferma che il padre, non ha assunto la strategia giusta, perché è entrato in conflitto con il figlio e non l’ha capito. Ma la lettera di mamma Limpida non è finita.
“P.S. Mi sono dimenticata di dirti del peso. Geg ha sempre fame, mangerebbe sempre, anche per noia secondo me. Gig mangia poco e devo stare attenta a stimolarlo perché altrimenti non ha appetito. Geg è la mia fotocopia caratterialmente, forse per questo riesco a capirlo meglio del padre.
Anche con il peso non vorrei stressarlo troppo. Il padre, a volte, l’offende e gli dice che a dieci anni peserà più di un quintale. Aiutooooo!”
Se Geg ha sempre fame, sta chiedendo qualcosa di altro attraverso il cibo, una dose psichica maggiore di mamma e papà, un’attenuazione della conflittualità familiare, una comprensione a modo di avvolgimento psichico e di abbraccio fisico. Per il momento non ha gli strumenti psichici per fare da sé, quindi, cari genitori muovetevi con l’ascolto, con l’accudimento, con il nonno e fate in modo che possa tanto desiderare. Come si fa per farlo tanto desiderare? Non assillatelo con problemi banali e perbenistici, lasciatelo libero di scegliere il suo divertimento, lasciatelo fantasticare, lasciate che sorgano i bisogni legati al suo progressivo conoscersi e non siate impiccioni; soprattutto! Cosa vi chiede vostro figlio per stare e per crescere bene? Vi chiede di comunicare attraverso i sensi e di esaltarli: guardami, ascoltami, baciami, toccami, abbracciami, accarezzami. Il mio testo “Ma cosa sognano i bambini” sarà un ausilio psicopedagogico ogni qualvolta dialogherete con vostro figlio sul tema “cosa hai sognato stanotte”?
“Nelida sogna che è notte, gli interni della casa sono bui o con una luce fioca. Fa parte di un clan che con ogni arma lotta contro un altro clan. E’ un clan familiare, il capo è il padre e Nelida esegue gli ordini.
Sa che ci sono stati degli assassinii.
Poi si trova in una stanza buia, in un casolare abbandonato con una ragazzina magrolina e bionda, moribonda sul pavimento sporco di sangue che guardandola negli occhi tra gli spasimi la implora di ucciderla. Nelida deve darle il colpo di grazia, ma proprio non ce la fa e allora prova a rassicurarla o la tratta freddamente.
Nelida fa avanti e indietro da quel casolare a quello dove sta suo padre con gli altri del clan. Sta preparando la cena per tanti invitati, tra cui gente dell’altro clan. Sono tutti là a fare chiasso e a bere vino aspettando la cena.
Nelida corre nella notte e controlla mentalmente lo spazio accorciandolo per fare più in fretta e ogni volta che arriva davanti alla bambina non riesce a ucciderla e ogni volta che va da suo padre, lui le ripete l’ordine.
Infine torna dalla bambina e lei non c’è più, c’è una tipa che ha visto nell’altro casolare e questa prova a ucciderla, ma Nelida è più veloce e con un colpo la lascia tramortita al suolo.”
Ma che bella famiglia, ma che bella società!
Il sogno può elaborare qualunque psicodinamica e quello di Nelida offre un quadro ottimale del “sentimento della rivalità fraterna” e dello struggimento a esso collegato. Il “resto notturno” di Nelida usa la simbologia cruenta in maniera idonea per attestare dei conflitti con i fratelli, oltre che con i genitori. Nella parte finale del quadro, infatti, si presenta la “posizione edipica”, la conflittualità con la madre, così come in tutto il sogno è presente la maschia figura del padre e la soccombenza suggestiva di Nelida ai suoi ordini. Il conflitto tra fratelli ricorre frequente nei miti, nelle leggende e nei racconti popolari. Uno per tutti: la trilogia tragica del ciclo di Edipo, scritta da Sofocle, e in particolare “Antigone” e la sorella Ismene e i fratelli Eteocle e Polinice. E Romolo e Remo dove li mettiamo? E perché non ricordare Caino e Abele? Non sfigura in questa psicodinamica la sorella di Nelida.
Certamente in questo sogno non si può ricorrere al concetto di Rousseau in riguardo al bambino “buono allo stato di natura” e neanche al concetto di Freud di “perverso polimorfo”, sempre in riguardo al bambino. La concezione presente nel sogno di Nelida è semplicemente realistica: un fratello o una sorella “rompono” equilibri psichici e giustificano l’aggressività conseguente nel tormento struggente di conflitti senza fine.
Via con la decodificazione!
La “notte”, il “buio”, la “luce fioca” attestano lo stato crepuscolare della coscienza, i vissuti e i fantasmi che affiorano dalla dimensione psichica profonda, dalle “rimozioni” che Nelida ha operato in difesa dall’angoscia legata alla sua collocazione familiare di primogenita. Infatti Nelida appartiene a un “clan”, il suo “clan” composto dal padre, dalla madre e dalla sorella, un “clan” che vive insieme ad altri “clan” in una società gaudente e ricca di conflitti. Il simbolo del “clan” accentua in maniera sanguigna la relazione tribale tra i vari componenti: la famiglia “natura” più che la famiglia “cultura”, la famiglia “libido” più che la famiglia “valore”. Nelida riconosce la figura carismatica del padre e la sua dipendenza all’autorevole personaggio, attestando che in quanto a risoluzione del complesso di Edipo siamo ancora in fase di liquidazione. Nelida è eccessivamente affascinata da questa losca figura di assassino e totalmente dipendente da lui nel male, l’uomo che le dà l’ordine di ammazzare sua sorella, nonché sua figlia, e che glielo ripete sempre. Nelida proietta nel padre la sua pulsione fratricida dettata dal naturale, quanto normale, “sentimento della rivalità fraterna”.
“Sa che ci sono stati degli assassinii.”
Dal generico Nelida passa al puntuale, al suo diretto coinvolgimento in questa psicodinamica che rischia di tralignare in un tragico psicodramma: “la ragazzina magrolina e bionda, moribonda sul pavimento sporco di sangue che guardandola negli occhi tra gli spasimi la implora di ucciderla.” Potenza del sogno che riesce a trasfigurare un sentimento di profonda ostilità nella concretezza di un atto! Nelida si trova in un contesto logistico idoneo: “in una stanza buia e in un casolare abbandonato”, la sua aggressività mortifera e la “parte negativa” del fantasma fraterno. Degna di nota è la descrizione tenera della sorella, magrolina e bionda, come lo “spostamento” in lei del desiderio implorante di essere uccisa. In caso contrario Nelida si sarebbe svegliata e il sogno si sarebbe interrotto per manifesta coincidenza del “contenuto latente” con il “contenuto manifesto”. Ulteriore nota degna è l’ambivalenza affettiva verso la sorella: “prova a rassicurarla o la tratta freddamente” perché a ucciderla proprio non ce la fa. Ricapitolando: Nelida sposta sul padre la sua pulsione omicida nei confronti della sorella e all’uopo si sottomette alla figura paterna, dimostrando nei suoi confronti una mancata emancipazione e un’autonomia psichica in “fieri”.
Comunque è Nelida che “deve darle il colpo di grazia”.
Nelida è in piena isteria, “fa avanti e indietro”, è combattuta tra il desiderio e il privilegio di figlia unica, oltretutto preferita dal padre, in quel clan e la pulsione di sbarazzarsi in qualche modo della scomoda presenza di una sorella, oltretutto insanguinata e moribonda. L’intensità del conflitto affettivo è attestata dal suo andirivieni tra la casa ricca di cibo, simbolo degli affetti, e la casa, simbolo di morte, della sorella. “Erano tutti là a fare chiasso e a bere vino aspettando la cena.” La variazione dello stato di coscienza si attesta in questa situazione di grande ambivalenza affettiva nel “bere vino”. Nelida è in piena crisi ed esperisce un rimedio meraviglioso traendo dalla sua infanzia la “magia” come soluzione al suo drammatico momento.
“Nelida corre nella notte e controlla mentalmente lo spazio accorciandolo per fare più in fretta”: trattasi di risolvere l’angoscia attraverso un procedimento magico di accelerazione del tempo e di riduzione dello spazio, un processo che il sogno offre come normalmente naturale e di cui la funzione onirica è maestra. La velocità di esecuzione è direttamente proporzionale alla carica d’angoscia che il sogno di Nelida sta acquistando. La “censura” onirica funziona bene e il sonno può continuare anche se disturbato. La psiche di Nelida sperimenta l’onnipotenza sotto le frustate psichiche della rivalità fraterna. Nelida deve uccidere la sorella facendo la volontà del padre, ma non è capace di un così atroce delitto. “Ogni volta che arriva davanti alla bambina, non riesce a ucciderla e ogni volta che va da suo padre, lui le ripete l’ordine.” Nelida ha spostato nel padre la sua aggressività mortifera verso la sorella e può continuare a dormire ponendosi come arbitro e mediatrice della situazione. E’ possibile cotanto travaglio e cotanto conflitto di fronte alla gelosia e alla competizione affettiva? Certamente che sì! Il sogno è confermato dalle psicoterapie psicoanalitiche che si operano su questi casi di “fratelli coltelli”. Necessita, a questo punto, un “deus ex machina” per risolvere il dilemma mortifero e il dramma affettivo tra un padre che vuole che la figlia uccida la sorella bambina e la figlia che non sa uccidere la sorella bambina eseguendo gli ordini del padre. Altro che Sofocle, altro che Eschilo, altro che Euripide! Questa tragediografa si chiama Nelida e compone i suoi drammi naturalmente sognando e naturalmente evolvendo i suoi fantasmi. Il dio ricercato in questo caso, quello che serve per risolvere la tragedia, è la madre di Nelida, “una tipa” tirata in ballo nel suo sogno in difesa della sorella-figlia e dalla cui violenza mortifera si difende prendendosi la giusta, ma non atroce, rivincita. Nelida si rifà sulla madre estendendo la sua aggressività edipica verso di lei.
“Infine torna dalla bambina e lei non c’è più, c’è una tipa che aveva visto nell’altro casolare e che prova a ucciderla, ma Nelida è più veloce e con un colpo la lascia tramortita al suolo.”
La “legge del taglione” esige che “chi di spada ferisce, di spada perisce”, chi vuole uccidere, deve essere ucciso, ma Nelida conclude il suo sogno nel modo migliore possibile e nel modo più proficuo a livello psicologico, componendo lo struggimento della rivalità fraterna nel giusto sentimento, meglio risentimento
La prognosi impone a Nelida di razionalizzare il fantasma accettando la sorella, ma soprattutto di risolvere i suoi conflitti con i genitori, con un padre alleato e complice e con una madre nettamente ostile. Il tempo e il ciclo di Edipo per Nelida è già trascorso. Adesso può soltanto osservarlo nella cavea del teatro greco di Siracusa quando capita la rappresentazione della trilogia di Sofocle.
Il rischio psicopatologico si attesta in una psiconevrosi edipica: “isterica” con somatizzazioni legate all’aggressività non scaricata che si ritorce contro o “fobico-ossessiva” con crisi di panico legate al bisogno di espiare i sensi di colpa.
Riflessioni metodologiche: ma cos’è il “deus ex machina”? Nella tragedia greca antica, dal quinto secolo ante Cristum natum, appariva alla fine della rappresentazione da un’impalcatura alle spalle degli spettatori, latinamente “machina”, un dio per porre fine al conflitto drammatico che gli uomini avevano esposto in versi nella cavea del teatro. Era un dio, perché soltanto un dio poteva assolvere la colpa, “ubris”, e impedire l’ereditarietà della colpa stessa. Cos’era la “ubris”? Il peccato originale dei Greci: l’ira e il turbamento dell’equilibrio costituito dagli dei, lo sconvolgimento dell’armonia sociopolitica che comportava la pena di morte, come nel caso di Socrate. I Greci proiettavano i loro valori culturali nell’Olimpo intelligente per favorirne l’introiezione e l’assimilazione. Un esempio di ereditarietà della colpa è il seguente: Agamennone, l’artefice principale della distruzione della città di Troia, viene ucciso dalla moglie Clitemnestra in complicità con il suo amante Egisto, il figlio Oreste uccide la madre e l’amante, le Erinni perseguitano Oreste, un dio lo assolve nella tragedia che conclude la trilogia di Eschilo. Il tempo segnava l’anno 458 ante Cristum natum.