TOI – 1452b

Ti regalerò un piccolo pianeta,

un piccolo pianeta con due stelle,

le stelle binarie,

un pianeta pieno d’acqua al venti per cento,

di quel che manca è pieno di eudaimonia,

i buoni demoni,

i demoni del bene,

gli istinti vitali di Dioniso il matto,

gli angeli della cuccagna

che fan l’amore con madama Dorè

in tutte le chiese del circondario,

nei conventi abitati dagli ultimi monaci,

gli uomini soli e veri

che sono sopravvissuti alle tivvù caccose

e ai professori mercenari e scontati al centodieci per cento,

come le facciate dei palazzi fatiscenti di Forlimpopoli.

Quanti buoni demoni!

Tanti,

ma tanti e poi altrettanti.

Ma quanti sono questi demoni?

Sono tanti

quanti quelli che dentro sentiva Socrate

quando era fatto di cicuta e di peperoncino,

quando era fatto di poche parole e di tanti perché,

Socrate,

il figlio di Sofronisco e di Fenarete,

il fratellastro di Patrocle,

il marito di Santippe,

il sofista anomalo,

il marito anomalo,

il padre anomalo,

il misogino normale,

l’omosex normale,

il filosofo senza filosofia,

il perditempo dell’agorà,

quello che non scrisse nulla per pigrizia,

quello che ciondolava per le strade anfose,

quello che dormiva sotto i portici dipinti,

le stoà di Pirrone,

non il gesuita di don Fabrizio,

non il ruffiano del Gattopardo,

lo stoico Pirrone,

quello del giusto mezzo,

non la 500 di Nane Agnelli e di Viktoir Valletta anni 50,

quello dell’in medio stat virtus,

quello del sunt denique certi fines,

quos, ultra citraque, nequit consistere rectum,

non quello di Quinto Orazio Flacco da Venosa,

il furbastro che allettava gli schiavetti a piacimento

nella sua casetta parva sed apta ei,

non questo e non quello,

ma il demone che ti comprerò io,

me misero tapino,

senza un soldo nel taschino,

senza un cane e un topino,

ti offro un TOI-1452b con stelle incorporate,

con acqua a volontà

per gli sciacqui orali e per il bidet a ogni ora,

con le dovute cure e premure

per gli obesi e i nullatenenti,

per i politici e i giornalisti,

per Charlene e Marlene,

per Ilary e mastro don Gesualdo,

per i re e le regine,

per i matti e le mattine,

per chi ancora ha voglia di fottere e di fottersi

in questo nostro pianeta a rimasuglio,

un pianeta stupito con due stelle,

stelle binarie,

un pianeta pieno d’acqua al venti per cento,

ma di quel che manca è pieno di daimonia.

Salvatore Vallone

Carancino di Belvedere, 20, 09, 2022

LE GROSSE TRECCE

TRAMA DEL SOGNO

“Ho sognato che il mio amico aveva dei capelli neri, bellissimi e lunghi.

Io gli facevo due grosse trecce e poi gliele tagliavo.”

Mukuruzza.

INTERPRETAZIONE DEL SOGNO

Ho sognato che il mio amico aveva dei capelli neri, bellissimi e lunghi.”

Il sogno è breve, anzi brevissimo, e limpido nella sua simbologia, ma è tanto, tanto complesso nella sua apparente sinteticità.

Vediamolo subito.

“Il mio amico” cela sempre tanto di più di una semplice amicizia. “Il mio amico” è sempre tanto più di un amico normale, un alleato, un complice, un innamorato, un amante.

“Il mio amico” è una persona intima con cui si condividono intimità e segrete cure, desideri ardenti e sospirosi affanni.

“Il mio amico” è una persona privilegiata e non certo scelta a caso tra i tanti conoscenti, è un uomo con affinità psichiche elettive d’attrazione e convergenze parallele d’interessi.

Mukuruzza ha un uomo speciale con cui scambia materiale intimo e privato anche grazie al fatto che non ha un rapporto istituzionale e ufficiale che logora la qualità degli investimenti affettivi e libidici.

Tutti abbiamo un “amico” manifesto o latente, ufficiale e ufficioso, esibito o segreto, in fondo al cuore o dentro il cuore, una persona che è l’esatta “proiezione” dei nostri desideri in riguardo alle nostre attese di crescita individuale e alle nostre paure di esibizione sociale. “L’amico” è in primo luogo il nostro alleato, un “oggetto transferale” che esorcizza le nostre angosce in riguardo ai temi evolutivi della Mente e del Corpo, della nostra unita “psiche e soma”.

“L’amico” è il serbatoio del nostro bene e del nostro male, il deposito delle nostre colpe e delle nostre ambizioni, il complice dei nostri peccati indicibili e delle nostre gioie inconfessabili.

“L’amico” è la condensazione del Decalogo laico, quello che sta a metà tra la Filosofia morale ed estetica di un rigido Kant e il Pessimismo solidale e compassionevole di un indianeggiante Schopenhauer.

Veniamo al sogno, decisamente intrigante con i suoi doppi simboli e i suoi umani sotterfugi.

Mukuruzza ha un “amico” personale e privato su cui riversa, di volta in volta e alla bisogna, le “parti psichiche di sé” che aspirano a vedere la luce della realtà sempre in base ai bisogni contingenti della vita corrente.

Se poi questo “mio amico” ha i “capelli neri, bellissimi e lunghi”, il ricco patrimonio mentale ed estetico è in piena fusione nucleare senza strafare dalle leggi della Fisica delle particelle minime e dei sistemi massimi, senza derogare dai principi essenziali del microcosmo e del macrocosmo.

“L’amico” di Mukuruzza è un uomo che consente l’esibizione della Bellezza e della Consistenza delle Idee, una forza mentale di analisi che colpisce e affascina, avvince e incatena per la forza logica e per i contenuti originali. L’Estetica si sposa e si coniuga con la Logica secondo le coordinate della Oratoria e della Retorica, l’arte del bel parlare e l’arte del buon convincere. I “capelli neri, bellissimi e lunghi”, non sono l’oggetto della perizia di un abile parrucchiere, sono la “proiezione” dei bisogni di Mukuruzza di avere valore ideologico e abilità discorsiva, sono idee di sostanza e processi dialettici di persuasione in un mondo così povero di sostanza e semplificato nell’ignoranza. Mukuruzza aspira a un uomo che condensi i suoi bisogni di Logica discorsiva e i suoi desideri di convinzione e persuasione. Aggiungerei la terza arte della Logica e della Parola, l’Eristica, l’arte del convincere con il discorso ferreo e con la suggestione ipnotica. Si tratta sempre di proprietà e di doti del Pensiero che si traducono nel Verbo senza sconquassi emotivi e senza salti di logica.

Così Mukuruzza ha immaginato se stessa proiettandosi in questo benemerito e sostanzioso “amico”.

Io gli facevo due grosse trecce e poi gliele tagliavo.”

La cura e l’amabilità di Mukuruzza si mostra nella combinazione ideologica delle tante idee e dei valori logici dell’amico, meglio “proiettati” nell’amico, nell’emersione di quella “parte intellettiva di sé” che aspira a essere considerata e valutata nei bisogni e nei desideri profondi.

Eppure c’è una valenza erotica e sessuale nelle “due grosse trecce” che la donna “faceva” all’amico, un’induzione amorosa all’erezione del fallo. La simbologia dei “capelli” viene assolta dal meccanismo onirico e primario della “figurabilità”: la treccia grossa richiama il membro eretto come nei migliori affreschi delle falloforie e dei riti annessi. I meccanismi della “condensazione” e dello “spostamento” evocano catene associative di ordine mentale e ideale. In sostanza Mukuruzza elabora in sogno tutta la sua ammirazione e la sua attrazione nei riguardi dell’intelligenza e dei prodotti mentali del suo “amico”, la simbologia del “capelli bellissimi e lunghi”, e in questa reverenza non esulano il sentimento dell’invidia e una forma di aggressività verso colui che sa di più e sa meglio comporre il suo Sapere, la sua erudizione e la sua saggezza fino al punto di raggiungere l’Amore del Sapere, quello che si associa all’Amore per la Bellezza, la Filosofia, “filos kai sophia” per l’appunto e per la precisione.

Si spiega in tal modo anche la “castrazione” del fallo del Sapere, la decurtazione della potenza e della forza concesse a colui che sa di sé e dell’altro, la “castrazione” del Filosofo, dell’amante del Sapere come conoscenza psicologica ed estetica. Mukuruzza ha un amico saggio e apprezza la sua Filosofia di vita e di scienza. Di queste proprietà e di questa virtù è invidiosa e manifesta questa aggressività proprio nell’atto di tagliare le “grosse trecce” per incorporarle in un momento della sua vita e in una contingenza psichica e mentale in cui accusa un deficit di vigilanza e di conoscenze, di esperienza e di reattività. L’amico offre a Mukuruzza di colmare questa momentanea lacuna attraverso la simbologia onirica dei capelli belli, delle trecce interessanti e del taglio invidioso quanto virtuoso.

Questo è quanto e anche in abbondanza, ma ancora non basta.

Se avessi interpretato il sogno di Mukuruzza con la valenza erotica e sessuale, il discorso sarebbe stato più facile e consequenziale, nonché banale e semplicistico. Avrei detto freudianamente che le pulsioni erotiche e sessuali di Mukuruzza avevano investito il membro del suo amico procurando una notevole erezione, doppia rispetto a quella consentita da madre Natura. Non appagata di questo effetto naturale, Mukuruzza avrebbe ridestato la sua “invidia del pene” e avrebbe operato la “castrazione” dell’amico in pieno ossequio alla sua mancata e a suo tempo desiderata fuoruscita dell’organo sessuale, secondo la convinzione infantile che esiste un solo sesso, quello maschile per l’appunto.

La “traslazione” del membro eretto nella Filosofia trova conferma anche nelle antiche mitologie sul tema della Scienza e dell’Amore del Sapere.

Per rafforzare l’interpretazione del sogno di Mukuruzza e per renderla più degna e completa, richiamo il mito di Eros secondo le linee culturali e filosofiche di Platone nel dialogo titolato il “Convito”. Il concetto di Filosofia racchiude l’emozione sentimentale dell’Amore, “filos” e “filia”, e la coscienza razionale della Scienza, “sophos” e “sophia”.

Parliamo di Eros.

Eros nasce da Poros, colui che sa come procurarsi la ricchezza e che possiede l’intelligenza operativa, e da Penia, la povertà nel senso pieno di una forma di ricchezza, la pienezza del nulla.

Eros fu concepito per espressa e consapevole manovra della madre quando il padre era ubriaco di nettare dopo la festa in onore di Afrodite. Dai genitori matura il “giusto mezzo”, quello di non essere né buono e né bello, né ricco e né povero, né cattivo e né brutto. Nella sua vera essenza Eros non è un dio, è un “daimon”, uno spirito vitale, un’energia, una “libido”, un desiderio, un messaggero tra il cielo e la terra, una forza cosmica che unisce, una carica empatica che simpatizza, una fusione tra empatia e simpatia alla greca, una forza magnetica che attrae, un’eccitazione che cerca l’appagamento, una carica elettrica che esiste in grazie ai poli opposti. Per essere stato concepito nella festa di Afrodite, Eros si porta addosso la Bellezza, così come dalla madre Penia si porta dietro la forza della povertà e dal padre Poros si trascina il coraggio. La combinazione di questi divini attributi fa di Eros un originale “daimon” che esalta con facilità e naturalezza le doti dell’Amore e del Sapere, dell’Es e dell’Io per dirla secondo un registro psicoanalitico.

Eros tende alla “coscienza di sé” attraverso il bisogno di crescere, di arricchirsi, di coinvolgersi, di escogitare sotterfugi, di sperimentarsi, di esserci nelle varie forme e modalità che possiede e che sa mettere bene in atto. Non possiede niente, come la Madre Penia, e può possedere tanto seguendo le strategie del padre Poros. Eros può essere amante, bello e saggio secondo le dinamiche di una tensione psicofisica che contempla e coniuga l’azione del “Pathos”, l’istinto, con le armonie del Logos, la “Filia”. Questa “Sofia” appare sotto l’insegna luminosa di Afrodite, la Bellezza. Ma non basta. Quest’ultima è coniugata con l’Ethos, la “Kalokagatia”: il Bello e il Bene secondo Natura stanno insieme. Questa Natura non è “dionisiaca”, immanente al sistema neurovegetativo, né “religiosa”, trascendente la Realtà, ma è una Natura vivente che abbraccia il Tutto, “ilozoismo”. L’Ethos è dell’Uomo, secondo l’insegnamento di Socrate, e non si traduce nelle prescrizioni acritiche della Morale e fideistiche della Religione.

Convergendo su Eros, si può attribuire a questa energia vitale, “daimon”, il senso e il sentimento dell’Amore, l’erotismo e la sessualità, la “eudaimonia”, la Felicità legata a un buon demone, la seduzione e soprattutto la Bellezza in onore ad Afrodite e in onore alla Logica, armonia tra le parti. Ma la straordinaria duttilità e la poliedrica valenza di Eros si allargano nella nostalgia del Tutto e nella possibilità di perpetuarlo proprio rigenerandolo, la “genitalità”, freudianamente la “libido genitale” che contraddistingue l’uomo nella sua individualità e universalità. Eros esalta il dono della Vita e la generosità del dare la Vita nel suo essere la versione maschile della Dea Madre. La Filosofia è la trasmissione altruistica del Sapere, come il Padre è la versione fallica dell’Amore della Specie. Eros è il Padre buono che ama i figli e non li divora, li tutela e non li manda allo sbaraglio, li esalta e non li castra, li accompagna senza esser visto e facendo sentire la sua presenza nel messaggio e nei valori trasmessi: la Cultura. Ogni uomo e ogni donna sono Eros quando elaborano e vivono la “posizione genitale” nel corso della loro evoluzione psicofisica. Eros mette d’accordo il Maschile e il Femminile nel suo essere “androgino”. Eros insegna l’innocenza indiscriminata del donare, dell’investire “libido” nella sua qualità massima.

Meritava tutto questo mostruoso papello il sogno breve, anzi brevissimo, di una parsimoniosa e profonda Mukuruzza.

DODECAFONIA

Dodecafonia?

Capperi, chi è costei?

Cantami, o diva, dell’infame aedo l’ira funesta

che assommò l’Iliade e l’Odissea

direttamente dalla bocca parlante dei poveri Achei.

Dimmi, o diva, di quel magico sartorello cieco

che cucì, pezza dopo pezza, la veste greca a poema.

Parlami, o diva, di quel grillo loquace

che saltò e risaltò,

pezzo dopo pezzo e sempre sul pezzo,

tra le pieghe del nebuloso Olimpo

a racimolar l’identità di coloro

che coltivarono le ragioni dell’Essere e del Non-Essere

nelle agorà delle polis infettate dai Sofisti.

Dimmi anche di coloro

che seguirono Dioniso tra i pascoli eterni del corpo,

là dove nulla mancherà finché Lui c’è.

Dodecafonia?

Se un filosofo annaspa,

un poeta risorge,

un poeta rinasce sempre,

come il ramarro e come Tazio Nuvolari,

perché un poeta vale più di dodici suoni messi in fila,

anche con il resto di due,

perché un poeta vale più di dodici cafoni messi in fila

e reperiti in abbondanza nella terzultima città italiana vivibile,

molto lontana da Trento,

molto lontana da Bologna.

Tu mi dirai

che il poeta emette soltanto e solamente flatus vocis,

spifferi d’aria contaminata dalle raffinerie dei barili di Brent,

la russa Lukoil di contrada Targia.

Tu mi dirai

che il poeta spara soffioni boraciferi rafforzati dall’alitosi cronica

di uno stomaco dilatato da obesi dolciumi di ricotta.

Tutto qua!

Parole,

sono soltanto verba quae volant,

nient’altro che vortici che si muovono in lungo e in largo

per motivi politici tra i cieli opachi dell’augusta penisola,

voltaggi che volteggiano lungo i canali di etere del perfido mostro,

l’immarcescibile fatto e rifatto nelle cliniche delle parole a vanvera

da parte di servitori solerti e interessati al quibus,

les miserables de Montmartre,

les invalides de la Bastille.

Dodecafonia?

Mi dirai ancora che sono registri diversi

per docenti di lingua italiana in svendita

nelle sfasciate scuole medie della triste penisola.

Insisterai dicendo che sono contagi identici

per gli ubriaconi del nord e i malandrini del sud,

uomini tenuti insieme dall’enorme debito pubblico

che nessuno mai pagherà

e paladini della patria borghese

che tanti odorano perché sa di fasciume.

Quanta miseria nei viali dell’ipocondria mediatica!

Cosa racconteremo ai figli dei figli mai avuti?

Diremo che dodici sono i mesi

che segnano le quattro stagioni di Antonio Lucio Vivaldi,

che otto sono i nani

con l’aggiunta del giornalista sempre in vista,

che sette sono i fratelli per i sette canali dell’etere maligno,

che sette le sorelle per tutti i pozzi di greggio e di fino,

che sette sono le spose per i soliti sette fratelli,

che quattro vale più di tre

e che tre val bene una messa in latino

nella caduca chiesa di san Filippo nel quartiere degli Ebrei.

Cosa posso dire io a te,

mia devota Dodecafonia,

di fronte a tanta tracotanza di donna navigata

nei mari dei Sargassi e degli Smargiassi?

Ma va a cagher,

o commistione e contagio,

o detto e ridetto,

o cotto e mangiato,

o cenere e lapilli!

Dammi sei parole,

soltanto sei parole,

la metà di dodici,

e ti solleverò lo scrittoio dall’impegno della calligrafia,

per scrivere le stesse manfrine dei bambini dispettosi

in cerca di fregole e di fragole trentine.

Grazie tante,

riattraversarti è stato veramente un piacere.

A bientot e a la prochain fois,

avec Juliette,

possibilmente.

Salvatore Vallone

Carancino di Belvedere, 18,12,2020

LA “COSA” PARLA 5

ENUNCIAZIONE PROGRAMMATICA IN PAROLE

Ideologie: cumuli di idee “a-peironiche”,

emersi da un Cielo indistinto,

fusi e confusi,

misti e frammisti.

Idee in parole e viceversa,

parole ideali,

idee verbali,

verba” ermeneutiche,

interpretative di fatti e di non fatti,

esecutive di misfatti,

pragma” verbali,

weltanschauung”,

visioni su visioni

per visionari,

per profeti,

per grilli parlanti,

parlanti a favore e anticipatamente,

parlanti a vanvera.

Si parla e si riparla.

Un plus-valore smodato di parole,

di parolai,

di tuttologi,

di neo-sofisti.

I mass-media parlano e sparlano,

verbalizzano e blatterano,

ideologizzano con incastri di parole,

labirinti di ideologie,

tortuosità in parole,

di parole in ideologie.

Incesti di idee parlate,

tabù di “verba, quae non sapienda sunt”,

incrinature e crisi in “apertis verbis”,

concerti parlati in spaccata,

balle lacerate di filosofi non profeti,

chiare e inservibili parole arrugginite dall’umido capitalismo,

vocabolari secolarizzati,

sintesi semantiche non deducibili in volatili e volubili analisi

nel quotidiano tanto parlare per etere e per cavo,

per bocca e per immagine.

Attimi scordati sulla chitarra sonante del tempo

tra storie incrociate,

cruciverba di miserabili torme

con dittature sacre e profane di sedicenti messia,

Caesar”,

Czar”,

papi e papisti,

guelfi e neo-guelfi,

guelfi e ghibellini,

laici lerci e affamati,

ubriachi della politica e della Storia,

una Storia non storicizzata,

che non trapassa e non si evolve,

una Storia alternativa e popolare,

ignota come il milite che non sa e non ha saputo mai di sé,

una Storia che non si è fatta Pensiero e Azione

come voleva don Benedetto Croce,

una Storia che è rimasta senza storia

a didascalizzare il vietato e il non-impedibile,

regolarmente punito perché irrazionale e neurovegetativo.

Quando sorgerà il Sole in Occidente?

Quando sorgerà il Sole là dov’è tramontato?

L’alba sarà quando nascerà il Pensiero alla luce del Sole

come simbolo di irrazionali architetture.

L’alba sarà quando vedrà la luce il Pensiero innocente,

il Pensiero bambino,

incorruttibile,

non compromesso con logge massoniche,

in-fante”,

che non sa ancora parlare,

ricco del suo senso e del suo significato,

significante,

portatore di “signa”,

di nulla reo e di tutto sapiente.

Il Pensiero bambino arriverà` sulle ali di cavalli fantasiosi

che come farfalle

si poseranno sui vari tabù del Sapere ufficioso,

del Sapere ufficiale.

Un Pensiero bambino di tutto curioso e di nulla sicuro,

un Pensiero innocente senza “Super-Io”,

intriso di amniotico “Es”,

orgoglioso del suo “Io”.

Un Pensiero bambino,

coscienza di libertà,

saputello e giovanile,

senza pretese di fatti,

di incarnazioni,

di trinitarie disposizioni,

di magiche virtù,

di esigenze storico-teologiche,

di contaminazioni nell’ “insù”,

nel “fuori di Se´”,

nel sospirato ritorno “a Sé e in Sé” dopo alienazioni impensate,

mai pensate,

eppur vere di cartesiana evidenza,

di bruniana furiosa eroica memoria.

Hanno inventato il mito del buon ebreo con la garanzia di Spinoza,

un Dio dotato d’infiniti attributi e infiniti modi,

ma io sono un Pensiero innocente

e non mi lego a nessuno.

Accà nisciuno è fesso”!

Pensiero “scugnizzo”,

furbo quel che basta per non essere fregato dagli americani

che sono appena sbarcati nel porto di Napoli

per il primo giro d’Italia in questo tragico 1944.

Pensiero “putel”,

Pensiero “petel”

figlio di nessuno,

né dell’aristocrazia inetta,

né del clero parassita,

né del terzo stato dal ventre obeso e dalle mani sudate.

Io sono un Pensiero vergine,

non coniugato in comune o in chiesa.

Io appartengo soltanto a me stesso.

Un plus valore da capitalizzare,

ti assicuro.

Ah, se potessi spendermi,

investirmi,

lasciarmi fottere dai fottuti borghesi!

Io non mi coinvolgo per principio e per posizione.

Io non sono colpevole per assunto di base,

io non discendo dal peccato di Adamo o dal suo seme.

Io sono incontaminato dalla morte

e non ho colpe da espiare in vita.

Sono lindo e sono puro,

senza quel peccato della disubbidienza

che impedisce le tautologiche gioie

che si sciorinano di parola in parola,

di concetto in concetto,

di giudizio in giudizio,

per sillogismi,

come l’acrobata sul trapezio di un circo e senza rete.

La colpa si è cristallizzata in trattati,

dialoghi e “De rerum natura”,

in riti orfici e cannibalici

(mangiami tu, che ti mangio anch’io),

dalle parole onnipotenti e dai pensieri profondi.

Quanti imbrogli si ordiscono

e quante colpe si esorcizzano con parole aliene al medesimo “Fato”:

for, faris, fatus sum, fari”.

Chi ha detto “ciò che è stato detto”?

Chi lo dice ancora oggi in cantilene latine e con musiche gregoriane?

Io sono un Pensiero innocente

e non ho l’arroganza dell’ “autoctisi”,

dell’atto del Pensiero pensante in atto.

Io sono ancora nel grembo dei simboli.

Lasciatemi pensare senza categorie,

senza “a priori” e “a posteriori”,

senza leggi e senza modi.

In me tutto e` centro e tutto e` periferia, o divin Cusano!

Intuisci un poligono di infiniti lati coincidenti in cerchi mirabili?

Non sono bolle di sapone,

ma verità mirabili in assenza della ripudiata scienza,

in attesa dell’addiveniente dio,

quello che non si vede ancora

nonostante che il vecchio Dio sia morto da tempo.

Non è notte ancora,

né dì.

La terra di nessuno,

il West,

è il luogo dove pasce il Pensiero bambino.

Dov’è il luogo?

U-Topia!

Il Non-Luogo?

Identica U-Topia!

Un Pensiero anoressico,

che non vuol crescere con una madre occidentale,

con una donna vecchia e smunta sulla via del tramonto ormonale.

Un Pensiero anoressicamente sano,

autopartorito senza travaglio: né grida o grandi gesta.

Io non ho verità da barattare,

indulgenze per anime in pena,

purgatori e meriti di santi in abbondanza

da contrabbandare con pacchetti di Marlboro.

Io non ho il triviale,

l’opinabile “doxa”,

le utilità moralistiche

quali verità forti per un Pensiero debole.

Lascia che cardinali pasciuti e politici ambigui

sghignazzino in Campidoglio in difesa della patria e del potere,

difensori unici di interessi costituiti in botteghe alternative,

intolleranti e fanatici supervisori di atti inconsulti.

Io mi affido agli umili personaggi

che attraversano la Storia senza coscienza sotto il nome di popolo,

loro malgrado o loro bengrado,

uomini costretti a scantonare al momento opportuno

in una morte volatile che tutto travolge,

vittime degli indifferenti qualunquismi di chi ha il potere,

uomini che non hanno scelto di essere nessuno

e che si ritrovano nel nulla o nel quasi nulla

per necessità ed egoistica rimozione.

Dimenticare è un meccanismo infausto di difesa

che, se aiuta a sopravvivere,

lascia di merda chiunque vi ricorre.

Tu non fidarti!

Affidati alla riflessione bambina di un Pensiero innocente,

debole e tollerante,

ecologico e dionisiaco,

che accetta e non rifiuta,

comprende e non condanna,

un Pensiero che vive dell’oggi

e nasce dal presente di un “carpe diem”,

verità di un attimo fuggente da fissare

che non necessariamente troverà la sua Leuconoe,

la “donna dalle bianche braccia”,

disposta a farsi sbattere

da un perfido Quinto Orazio Flacco in tanta vena di potta.

LA BASE DI “ESSERE”

LA PREMESSA

Questo testo è stato elaborato da un ragazzo di undici anni nell’ambito dell’attività scolastica.

IL TESTO

LA BASE DI “ESSERE”

Ditemi … cosa per voi significa “essere”?

Può per voi essere vivere, essere materia, essere umani, avere la morte…

Non voglio rovinare la vostra impressione su “essere”, ma intendo cercare di esprimere i miei e i vostri pensieri riguardo la base di tutto.

Siamo già tutti nati se stiamo leggendo o narrando questo testo, siamo parte dell’immenso universo, dunque.

Alcuni possono dire di nascere appena pensano, poiché, senza il pensiero non c’è differenza tra vivo o morto.

Per poter vivere bisogna sentirsi vivi.

Voler esserci, poter esserci e ciò spiega l’importanza della popolarità.

Se non si è popolari, non si è vivi, ma basta un qualsiasi essere vivente con se stessi per essere vivi.

Inoltre, se si vuole essere più vivi o anche immortali, si può lasciare traccia di se stessi e godersi la vita.

Alcuni altri pensano che pensare sia essere. Che l’uomo sia stato creato per pensare.

E’ anche vero che vivendo, pensando ed essere umani ed essere materia sia “essere”.

Ma l’umanità è troppo terrena per significare l’universo.

Essere fatti con ciò che è l’universo, pensare, vivere invece sono significati di essere con cui l’uomo poter fondersi con l’universo eternamente.

Con questo testo mi oppongo all’ateismo, l’umanità senza religione, che crede di sapere di più, la quale non sa però fondere l’universo con l’uomo.

Quindi per conquistare l’universo bisognerà essere religiosi ed avere un pensiero più esteso, oltre l’umanità.

Che voi, dopo questo testo, siate!

L’ANALISI PSICO-FILOSOFICA

Ditemi … cosa per voi significa “essere”?

NOTE FILOSOFICHE

“Significare l’Essere”, due parole antiche come l’universo e moderne come l’avvento dell’homo sapiens, si traduce in “interpretare i segni dell’Essere”. Si invoca quella Semiologia tanto cara a Umberto Eco, la Scienza dei segni, con tanto di “significante” e di “significato”, di soggetto datore di senso e di soggetto capace di decodificare il testo semplicemente perché possiede il Codice. Ma l’Essere richiamato nella cultura dell’Occidente ha un suo epigono, Parmenide di Elea in Campania, il filosofo della Magna Grecia a cui si attribuisce la seguente sintesi teorica, nonché tautologica: “l’Essere è e non può non Essere, il non Essere non è e non può Essere”. Nella soluzione della questione cosmogonica e nella ricerca del Principio da cui il Tutto Vivente, Natura e Uomo, si origina, Parmenide introdusse la sua teoria Ontologica, Metafisica e Logica in base alla quale l’essenza del Tutto si riduceva all’Essere non inteso, quindi, nella sua visibilità empirica ma nella sua matrice, alla Kant non nel fenomeno ma nel noumeno. La sua enunciazione programmatica ha una valenza logica inequivocabile, “l’Essere è”, infatti, traduce nel predicato quello che è contenuto nel soggetto, ma questa Verità è l’essenza del Tutto Vivente e ha una valenza ontologica immanente. Parmenide esordisce sulla questione filosofica Essere, è il primo filosofo che la analizza, ma tutti i filosofi successivi, greci ed europei fino a Heidegger e Sartre, si sono cimentati sul tema. Anche quando la Filosofia considera il “Non Essere”, ammette “l’Essere”. Platone, Aristotele, Agostino ed Hegel sono stati i filosofi che espressamente si son fatti carico dell’analisi dell’Essere.

TRADUZIONE PSICOLOGICA

“Mi sto chiedendo chi sono io nella sostanza e non soltanto in quel che appaio.”

NOTE PSICOLOGICHE

La richiesta del ragazzo di esprimersi sul significato dell’Essere è da dialogo platonico ed è ricca di implicazioni provocatorie verso gli interlocutori. Questo giovane talento non te le manda a dire le cose e dimostra a livello psicologico di avere un conto in sospeso con l’ambiente e con coloro che lo abitano: “per voi”. Si tratta di una bonaria aggressività e di una sana provocazione che, di certo, non dispongono per una serenità nell’affrontare la vita di ogni giorno e attestano di una vaga aureola di superiorità, un “complesso di superiorità” che sa tanto di difesa dal coinvolgimento, un “Io ipertrofico” che tende a differenziarsi nobilmente dagli altri. Tutto questo ci può stare tranquillamente in un adolescente in vena di affermazione dopo l’elaborazione della “posizione fallico-narcisistica”. Il “per voi” dovrà evolversi in “per noi” nella successiva “posizione psichica genitale” in riconoscimento della rete sociale e delle relazioni anche pericolose che immancabilmente costellano il selciato dell’esistenza.

Procediamo per ammirare le meraviglie del paesaggio e dei dintorni.

Può per voi essere vivere, essere materia, essere umani, avere la morte…”

NOTE FILOSOFICHE

La Vita, la Materia, l’Umanità, la Morte sono Essere nella convinzione comune. Il richiamo a Parmenide e Platone è nella Vita o essenza del Tutto: “essere vivere”. Il richiamo ad Aristotele ed Epicuro è chiaro nella Materia: “essere materia”. Il richiamo a Jaspers e Heidegger è inequivocabile “nell’essere umani”. Il richiamo a Sartre e Camus è oltremodo visibile “nell’avere la morte”. Ricordo che l’Essere ha una valenza Ontologica o discorso sull’essere, Metafisica o al di là della Natura, Logica o categoria di predicabilità, Antropologica o in riguardo all’uomo, Etica o in riguardo ai costumi e ai comportamenti, Religiosa o in riguardo alla soluzione dell’angoscia di morte.

TRADUZIONE PSICOLOGICA

“Sono vivo, ho un corpo, sono un uomo, devo morire.”

NOTE PSICOLOGICHE

Degno di nota è ancora il ricorso agli altri e alla loro opinione, nonché il culto di avere interlocutori e di assumere un ruolo di prestigio misto a nobile tolleranza. L’identità psichica del nostro filosofo in erba procede sempre per differenziazione dagli altri e per alto-locazione difensiva da un coinvolgimento più intenso. Persiste il “fantasma del voi”, nella “parte positiva” gli altri da me e nella “parte negativa” gli altri contro di me. Degli interlocutori il ragazzo non sa fare a meno, ma mantiene un doveroso distacco e un’accentuata provocazione.

Non voglio rovinare la vostra impressione su “essere”, ma intendo cercare di esprimere i miei e i vostri pensieri riguardo la base di tutto.”

NOTE FILOSOFICHE

La preoccupazione verte ironicamente sulla questione antropologica e sul rispetto dei simili, ma si tratta di un’impressione, non di una verità globale e metafisica. L’Essere di cui parla il nostro speculatore è decisamente l’Essere metafisico, l’essenza del Tutto, la Forma o l’Idea di Platone. Siamo in un ambito decisamente ontologico, discorso su ciò che è, e stiamo superando il territorio labile e ballerino della “impressione”, delle sensazioni, dei fenomeni, di ciò che appare, delle false verità legate ai sensi e alle percezioni non fondate sulla “coscienza di sé”. La direzione successiva è la Ragione che si apre alla Metafisica, come è successo a tutti i filosofi, da Cartesio in poi, che sono stati costretti a usare i ponteggi metafisici, a ricorrere a un “deus ex machina” per supportare le loro teorie e addirittura i loro sistemi logici e gnoseologici.

TRADUZIONE PSICOLOGICA

“Sto proprio cercando di capirmi nel profondo e sono alla ricerca della mia essenza.”

NOTE PSICOLOGICHE

L’atteggiamento di benefattore dell’umanità nel delucidare e partecipare le verità fondamentali, “la base di tutto”, denota una notevole e democratica onnipotenza socialmente tollerabile e compatibile con il ruolo del maestro di vita, dell’eroe che porta agli uomini la buona novella che rende l’umanità migliore e bella, del Prometeo degno del dono del fuoco. Il compito è veramente nobile e pretenzioso: “cercare di esprimere i miei e i vostri pensieri riguardo la base di tutto”. Queste sono le note psicologiche e soteriologiche del giovane protagonista, ma il vero viaggio metafisico, dopo le necessità logiche e il dialogo a senso unico con gli immaginari interlocutori, si sta avvicinando.

Siamo già tutti nati se stiamo leggendo o narrando questo testo, siamo parte dell’immenso universo, dunque.”

NOTE FILOSOFICHE

Appare lo stesso “ottimismo” logico di Aristotele e della Cultura greca in base al quale non è necessaria una dimostrazione scientifica dell’esistenza della Realtà dal momento che è visibile e, di conseguenza, innegabile. “Batti la testa contro la colonna del tempio di Athena e poi mi dici se la Realtà esiste o non esiste”: diceva l’uomo greco dell’agorà all’incauto Sofista che voleva anche discutere dell’esistenza di un mondo oggettivo. L’adolescenza ingenua del nostro giovane filosofo ammette la Sensibilità dell’Esistente e trascura quella Logica verso la quale sta marciando con intenti metafisici degni di un mistico e di un seguace di Buddha. “Siamo studenti vivi e vegeti, se stiamo lavorando sotto le direttive dei nostri bravi Professori e della nostra benemerita Scuola”. Non basta questa condivisione di condizione e di funzione, perché “siamo parte dell’immenso universo”. Questa è la verità innegabile e tutta da dimostrare dal momento che non basta la constatazione empirica. I sensi ci ingannano, diceva anche Cartesio nella ricerca di poggiare la sua teoria scientifica sul “cogito ergo sum” e di passo in passo cadde nel “genio maligno” per abbracciare la Divinità che non inganna proprio in virtù della sua bontà implicita. Insomma trionfa un’istanza “panteistica” e fusionale. Tutti siamo parte del “Tutto Vivente”. Quest’istanza primaria e culturale dell’umanità greca è in linea con la semplicità mentale del nostro giovane pensatore. Una religiosità naturale che vuole l’Uomo in fusione con la Natura secondo le linee di una simbiosi madre-figlio. Spinoza è richiamato in questa posizione filosofica, così come la teosofia buddista. La prima esigeva che l’uomo fosse un “modo” degli attributi “Pensiero” ed “Estensione” di Dio, la seconda affermava l’evidente condivisione della “Vita” da parte dell’Uomo e di tutta la Natura.

TRADUZIONE PSICOLOGICA

“Io esisto insieme agli altri e mi sento la parte di un Tutto.”

NOTE PSICOLOGICHE

Di notevole conforto è il doppio ricorso al “siamo” in attestazione di un ripiego momentaneo dal “voi” dei precedenti capoversi e di una proficua e salutare condivisione di sorte e di destino di uomini: “amor fati”. Obbligo rilevare che si tratta di atteggiamenti della formazione umana in un soggetto particolarmente sensibile a se stesso e agli altri. Il nostro adolescente tra un nobile e sacro pensiero individualistico non trascura lo stare insieme nel Collettivo e nel Sodalizio. E’ questa certamente una dialettica psichica profonda che il ragazzo ha vissuto sin dalla prima infanzia intessendo una psicodinamica che oscilla tra se stesso e il corpo, se stesso e la mamma, se stesso e il papà, se stesso e i suoi pensieri, se stesso e gli oggetti, se stesso e gli altri, se stesso e la ricerca di uno “spazio psichico” dove depositare i suoi vissuti prima di condividerli, un “luogo” ideale e concreto su cui stendere i suoi doni prima di consegnarli agli abitanti dello stesso spazio. Il conflitto psichico è delicato e porta a collocazioni che oscillano dalla netta chiusura alla provvida apertura, dalla spartana esclusione all’ateniese affidamento, dal riconoscimento di sé al rifiuto del mondo fino all’inclusione necessaria in uno Spazio di Tutti e in un Luogo di Tutte le Cose visibili.

Alcuni possono dire di nascere appena pensano, poiché, senza il pensiero non c’è differenza tra vivo o morto.”

NOTE FILOSOFICHE

L’affermazione è inquietante nella scarna formulazione e nel ricco contenuto. Il Pensiero è Vita ed è l’artefice della “Coscienza di Sé”, quell’Auto-consapevolezza che Socrate definiva nel suo metodo antropologico “conosci te stesso” e che l’Uomo greco aveva degnamente scritto nel frontone del tempio di Delo a Delfi. La Morte è assenza di Pensiero. La Vita senza Pensiero è Morte. La Vita è Pensiero intenzionato alla “Coscienza di Sé”. Più che sull’oggetto esterno il Pensiero si dirige su se stesso, sceglie se stesso come oggetto privilegiato della sua indagine. In questa introversione si attesta trionfante la Vita. E’ degna di nota, inoltre, la rievocazione della teoria filosofica, di Scuola esistenzialista e firmata da Martin Heidegger, tra “vita autentica” e “vita inautentica” o banale. La distinzione tra i morti in vita, “esistenza banale”, e i vivi in vita, “esistenza autentica”, è calata di peso nelle poche parole messe in croce dal nostro intraprendente ragazzo ed è basata sulla “Coscienza di sé” ottenuta con l’esercizio maieutico del Pensiero. L’angoscia dell’Esistenzialismo ancora non si manifesta, ma s’intravede tra le righe di quanto in maniera apodittica viene affermato.

TRADUZIONE PSICOLOGICA

“Sono consapevole di essere vivo perché penso e per me la morte è assenza di coscienza.”

NOTE PSICOLOGICHE

La predilezione per il soggiorno in se stesso e il ritorno nell’intimo e nel privato è oltremodo da considerare in questa sillogistica combinazione di concetti che concludono nell’affermazione “la consapevolezza del Pensiero è Vita e l’inizio del Vivere”. La “proiezione” difensiva su “alcuni possono dire di nascere” stempera l’angoscia di un diretto coinvolgimento in questa acrobazia filosofica e denota l’importanza accordata agli altri e il bisogno di gestirli attraverso una condivisione di idee e di convinzioni. Ancora bisogna aggiungere che il nostro amico ha proiettato in poche parole la sua esperienza vissuta, “erlebnis”, quella che lo ha visto precocemente razionale e pronto a stemperare le emozioni e le sensazioni. Il meccanismo psichico di difesa dall’angoscia della “razionalizzazione” ha messo in scena la “coscienza di sé” che ha dato il giusto grado alla freddezza della Morte e al calore della Vita. Razionalizzare gli istinti e le pulsioni con la testa di un bambino significa aver privilegiato per necessità difensiva il Logos rispetto a Eros e Thanatos, la Ragione tra l’Amore e l’Odio, tra la Vita e la Morte, tra la fusione e la scissione. Questo precoce e gigantesco Logos è tutto personale e va condiviso con giudizio e a giuste dosi. Gli altri non potrebbero capire quello che io cerco di contenere e circoscrivere.

Per poter vivere bisogna sentirsi vivi.”

NOTE FILOSOFICHE

La “Coscienza di sé” è la condizione del Vivere. La Vita può essere presente, ma di Essa nulla si può dire se non è “esperienza vissuta”, “erlebnis”, e per essere tale esige l’auto-consapevolezza. Il “sentirsi vivi” non si attesta nell’esaltazione allucinatoria dei sensi e nella formazione dei “fantasmi”, ma nella necessità di un “Io” che ragioni e a cui tutti i vissuti individuali si riconducano per essere ordinati nella formazione psicologica di ogni persona: “organizzazione psichica reattiva”. La possibilità della Vita è la Coscienza e le sue funzioni razionali, “processi secondari”. Paradossalmente si può vivere senza un “Io” coordinatore dei vissuti e la caoticità entropica è una forma di Vita, ma l’Io è la condizione “sine qua non” l’uomo “autentico” esiste, all’incontrario dell’uomo “banale” che si lascia vivere senza alcuna consapevolezza dei suoi vissuti. I richiami filosofici sono la “res cogitans” di Cartesio, l’Io dell’Idealismo, l’Io della Fenomenologia di Husserl e l’Io di Freud. La frase è talmente sintetica che i contenuti si spargono a larga vena. La sua apoditticità suppone un Sapere filosofico vasto e ampio che il ragazzo non può avere. E allora? Lo spiego nelle note psicologiche.

TRADUZIONE PSICOLOGICA

“Mi sento vivo quando provo emozioni e ne sono consapevole.”

NOTE PSICOLOGICHE

La sicurezza dell’affermazione dispone per una riflessione costante e progressiva su se stesso. L’autore si è macerato in tanto speculare tra sé e in sé sacrificando la gioia di vivere e il disimpegno della sua età a favore di un travaglio filosofico adulto più che adolescenziale. Le conoscenze filosofiche sono la “razionalizzazione” di quelle sensazioni e di quelle emozioni che il giovane talento ha accantonato a favore dei grandi ragionamenti sintetici. Le teorie e le tesi rientrano nella formazione psicologica e nel patrimonio delle idee dell’adolescenza. Del resto, i filosofi hanno immaginato i loro sistemi da bambini e da adulti li hanno trascritti in maniera complicata, quando nella loro Filosofia non hanno traslato i loro traumi irrisolti e la loro follia sublimata. Non c’è bisogno di ricorrere al Buddismo o a Pitagora o a Platone e riprendere in mano la teoria della “trasmigrazione delle anime” per spiegare quello che è successo e che sta succedendo al nostro baldo ragazzo. E’ tutto compreso nella formazione psicologica ed è a gratis. Certo, è anche vero che pochi giovani hanno così potenti i processi di astrazione. Se ogni male non viene per nuocere, è proprio vero che ogni bene viene per giovare.

Voler esserci, poter esserci e ciò spiega l’importanza della popolarità.”

NOTE FILOSOFICHE

“Esserci” è la traduzione del “Dasein” di Heidegger che è collegato alla “esistenza banale”, mentre “l’Essere” o il “Sein” appartiene alla “esistenza autentica” e la connota secondo le linee esistenziali dello “Essere per la Morte”, la disposizione psicofisica all’assurdità del morire e la soluzione all’angoscia del Nulla. La scelta della “esistenza autentica” comporta il superamento della “esistenza banale”, il “Sein” è la scelta, salutare più che evolutiva, del “Dasein”. In quest’ultimo è inclusa la vita sociale e le relazioni di massa che frastornano l’angoscia del Nulla a cui l’uomo è inesorabilmente candidato e destinato. L’uomo inautentico e banale è destinato a frastornarsi con il successo e la popolarità, a riempire le sue bisacce con il fumo della vanità mediale. “Voler esserci”, volere il “Dasein” significa ignorare la possibilità della vera “coscienza di sé”, quella che coordina le esperienze vissute e disegna il quadro del Vivere e della Vita. L’importanza della popolarità comporta il sacrificio dell’Io e l’impossibilità del Vivere e della Vita. L’Io è sacrificato al rumore dei media e alla massificazione dell’informazione. Volere e potere, quest’ultimo inteso come categoria della possibilità da Kierkegaard in poi, sono associati allo “Esserci”, alla “esistenza banale”, e confermano quante energie si investono nel Nulla di una Coscienza mai nata o pienamente abortita. La “popolarità” ha un prezzo umano altissimo, perché, impedendo la benefica “coscienza di sé”, impedisce la maturazione dell’uomo “banale” nell’uomo “autentico”. La “popolarità” è il frutto deleterio di improvvide e inconsulte scelte di Vita che allontanano dalla Verità.

TRADUZIONE PSICOLOGICA

“Voglio affermarmi orgogliosamente e voglio essere conosciuto dalla gente.”

NOTE PSICOLOGICHE

Il giovane filosofo è combattuto dalla dialettica del suo tempo e della sua psicodinamica: Essere e non apparire o Non Essere ed apparire? L’adolescenza ha una valenza psicofisica non indifferente nella scelta precoce di usare la testa e i “processi secondari”, la Ragione per intenderci, e dare poco credito agli ormoni e alle emozioni, ai “processi primari” del tipo la Fantasia e le allucinazioni creative. Di quest’ultimo trambusto psicofisico il nostro amico teme l’irruenza e l’assenza di un “Io” coordinatore e legislatore della Natura umana. Aspira alla popolarità, vuole essere conosciuto e vuole colpire con le idee originali che ha tanto pensato e finalmente partorito in grazie agli stimoli costruttivi di una buona scuola e di competenti maestri. Vuole e non vuole, si concede e si ritira: questa è la psicodinamica istruita.

Se non si è popolari, non si è vivi, ma basta un qualsiasi essere vivente con se stessi per essere vivi.”

NOTE FILOSOFICHE

Il nobile discorso filosofico e le alte speculazioni sull’Essere e sulla Coscienza dell’Io si stanno dirigendo giustamente verso orizzonti sociali e verso tematiche personali: la popolarità e la relazione sociale, la gloria di essere personaggi pubblici e la modestia moderata di avere poche relazioni. Si rileva un conflitto psichico tra le pieghe della Filosofia sociologica di Comte, la “Fisica sociale” della relazione dell’io e del tu. Il falso mito della Vita e dell’Essere nella società e la Verità di una relazione significativa e di buon valore confliggono nell’animo del giovane intraprendente. La convinzione che la giusta e vera esistenza non è quella “banale”, fatta di miti e di riti formali, ma quella “autentica”, basata sulla qualità di una libera ricerca sul senso dell’Essere e del Vivere, emerge nella predilezione per le relazioni ristrette a poche persone significative e maieutiche, quelle figure che aiutano a maturare i veri sensi e gli autentici significati dell’Essere uomini.

TRADUZIONE PSICOLOGICA

“Mi piacerebbe essere riconosciuto dagli altri, ma mi basta avere relazioni fidate e soprattutto un buon rapporto con me stesso.”

NOTE PSICOLOGICHE

Dopo un’apertura verso problematiche filosofiche di ampio spessore metafisico e di grossolana materialità, quale vivere la vita senza consapevolezza perché deprivati di quella “coscienza di sé” che nessun maestro ha insegnato a ricercare, il nostro giovane e inquietante eroe converge verso l’intimo e il privato e svela le sue note caratteristiche e formative, le sue predilezioni psicologiche e i suoi “fantasmi”. Degno di nota è la funzione esercitata da un tema attuale, la popolarità, con un tema psicologico, il narcisismo, nonché la scelta personale del ridimensionamento dei valori dominanti in riguardo al prestigio sociale.

Inoltre, se si vuole essere più vivi o anche immortali, si può lasciare traccia di se stessi e godersi la vita.”

NOTE FILOSOFICHE

L’attrazione verso gli altri e verso le tematiche culturali in atto è forte e contrastata. Adesso il nostro baldo ragazzino sente il richiamo della società e dei suoi miti come la popolarità e il successo, sta valutando la possibilità di vivere una Vita come costume comanda e come società propone secondo i valori edonistici del consumismo psicologico e della massificazione sociale al fine di emergere dall’anonimato. “Godersi la vita” si traduce nell’uso degli strumenti atti al benessere del Corpo e della Mente. “Lasciare traccia di se stessi” equivale all’essere nobili individualisti e maestri benefattori. Quest’ultimo valore non è consono alla “esistenza banale” e si avvicina all’onnipotenza dell’immortalità del messaggio lasciato in eredità ai posteri.

TRADUZIONE PSICOLOGICA

“Ho paura di morire e vorrei vivere in maniera tranquilla e magari fare nella vita delle cose importanti che possano essere ricordate.”

NOTE PSICOLOGICHE

Sopravvivere a se stessi è veramente un “meccanismo di difesa dall’angoscia di morte”, è un “andare sopra la vita” per disporre di sé in maniera irreale e contraria agli eventi naturali. Dall’uso della Ragione l’adolescente filosofo sta passando ai problemi personali, sta evidenziando le angosce di base dopo aver fatto un uso precoce della “razionalizzazione”, meccanismo di difesa principe. Dalla Filosofia, che ha elaborato per lenire le angosce, alla Psicologia, il passo è breve e siamo in territori limitrofi. La psicodinamica usata dal ragazzo è di andata e ritorno, di uscita e di entrata, d’investimento e di introspezione, di relazione con gli altri e di relazione con se stesso. Il processo è proficuo e doloroso.

Alcuni altri pensano che pensare sia essere. Che l’uomo sia stato creato per pensare.”

Come non detto! Il giovane prodigio è tornato alla Filosofia e ha spolverato ben bene gli assunti di base del pensiero di Parmenide e di Hegel: l’identità di Pensiero e di Essere. Spiego: “l’Essere è e non può non essere” è un assioma, una tautologia, un principio logico di identità A è A codificato da Aristotele nel suo “Organon” e si identifica con il Tutto vivente, la Realtà Uomo-Natura. Il Tutto è Essere e l’Essere è Pensiero. “Tutto ciò che è reale è razionale e tutto ciò che è reale è razionale” è il principio che governa e giustifica lo Spirito assoluto di Hegel costituito da Idea, Natura e Spirito. La seconda frase del ragazzo pone il problema se l’uomo è stato creato per pensare e si assume la responsabilità di ammettere la creazione come motore del Tutto: “In principio Dio creò il cielo e la terra” e poi fece “l’uomo a sua immagine e secondo la sua somiglianza”. Accede alla verità primordiale ebraica di un Dio che pensa la realtà, la dice, esempio “sia la luce e la luce fu” e la crea. L’uomo può solo pensare il Tutto creato da Dio per ritrovare l’autore. Dal Panlogismo al Creazionismo biblico il salto non è da poco, ma tutto è consentito a una giovane mente aliena da conoscenze filosofiche e in preda alla risoluzione delle sue angosce esistenziali. Dalla Metafisica dell’Essere e dello Spirito assoluto si è trasbordati nel Genesi biblico.

TRADUZIONE PSICOLOGICA

“Ma la mia sostanza è davvero soltanto il pensiero?”

NOTE PSICOLOGICHE

“Alcuni altri” è la chiara “proiezione” di se stesso e delle sue perplessità: “ma io devo soltanto e assolutamente pensare?”, e ancora “Ma io mi riduco alla mia razionalità?”, e ancora “Il mio essere è il mio pensare?”. Come si nota chiaramente le domande sono “filosoficissime”, tanto speculative che di più non si può neanche se si usa un buon candeggio, ma sono assolutamente “psicologicissime” perché vertono sulla collocazione personale in se stesso prima che nel mondo. Il giovane si sta chiedendo semplicemente “Chi sono io?” e si sta rispondendo in maniera razionale rispetto a un suo coetaneo che avrebbe usato i “processi primari” piuttosto che i “processi secondari”, la Fantasia piuttosto che la Ragione. Si tratta della solita difesa dall’angoscia e del solito uso di ragionamenti e del ridimensionamento dei “fantasmi” e delle emozioni implicite. Mi spiego meglio e mi ripeto: il ragazzo ha operato sin dal primo anno di vita e precocemente con i “meccanismi di difesa secondari” e ha ridotto al minimo l’uso dei “meccanismi di difesa primari”. Ancora meglio: il ragazzo si è difeso dalle cariche energetiche dei suoi “fantasmi”, rappresentazioni primarie degli istinti e delle pulsioni, razionalizzando le sue esperienze e raffreddando la sua realtà interiore. Procediamo con fascino e curiosità in attesa di altri sconvolgenti richiami a teorie filosofiche e ad assunti di base della “organizzazione psichica reattiva”, struttura, della nostra giovane promessa.

E’ anche vero che vivendo, pensando ed essere umani ed essere materia sia “essere”.”

NOTE FILOSOFICHE

Ritornano la tesi e la convinzione che il Vivere e l’esercizio della Vita si assimilino e si equiparino al Pensiero, inteso come attività riflessiva di stampo razionale e come “processo secondario”. Non basta, perché Vivere, investimenti di energia, e Pensare, la Mente, coincidono con la Materia umana, il Corpo. L’essenza dell’Uomo contiene un Corpo che vive e una Mente che pensa. Il nostro filosofo sta facendo i conti con la “Materia” ed è costretto a distinguere sempre più tra Platone e Aristotele, tra l’Essere dell’Idea e l’Essere della Metafisica e della categoria logica. Cartesio con la “res cogitans” e la “res extensa”, Spinoza con il suo panteismo e l’unicità della sostanza Dio, Hegel con il panlogismo e Husserl con il platonismo capovolto sono richiamati nel sincretismo spietato di questa lapidaria frase. Ricordo che l’Essere è la sostanza metafisica e la categoria logica che abbraccia il Corpo e la Mente. Fin qui la Filosofia!

TRADUZIONE PSICOLOGICA

“E’ anche vero che io ho un corpo che vuole vivere e godere e che non sono soltanto pensiero.”

NOTE PSICOLOGICHE

La Psicologia dice chiaramente che il ragazzo sta cercando “sé in sé” senza un maestro. E’ alle prese con la questione amletica del privilegiare il Corpo o la Mente. Alla fine taglia la testa al toro e risolve ricorrendo alla sua unità psicosomatica. Bel colpo! L’intento programmatico esistenziale si attesta nel mantenere in fusione la Mente e il Corpo e il progetto di Vita è degno di essere vissuto insieme agli altri. E’, oltretutto, vero che tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. L’introspezione è certamente l’abilità metodica su cui il giovane si è elettivamente cimentato ed esercitato nel suo scavo archeologico alla ricerca delle essenze “eidetiche”, mentali, quelle idee platoniche che sa che sono dentro di lui e non certo fuori. Ma sarà poi vero che l’armonia tra il Corpo e la Mente è la Felicità? La ricerca porta il ragazzo a partorire la sua Verità e sarà interessante vedere dove va a parare in questa sua nobile e aristocratica tensione dialettica.

Ma l’umanità è troppo terrena per significare l’universo.”

NOTE FILOSOFICHE

Questa è la frase più inquietante per uno studioso di Filosofia e di Psicologia. Anche la terminologia è degna di stupore e di interesse, una sintesi pregna di concetti da persona che ha tanto riflettuto anche linguisticamente e che sa il fatto suo. La domanda non è veramente peregrina: “un adolescente può assemblare senza difetti logici i concetti di “umanità troppo terrena”, di “significare” e di “universo”?” Ritorna il “significare”, ritorna il caro Umberto Eco e la Semiologia, il discorso sui “segni”, “signa” latino, le insegne delle legioni romane: ridurre tutto “l’universo” a segni, attribuire ai segni “significanti” e “significati”, decodificarli e tradurre l’universo in un insieme di “segni” da parte di un uomo troppo terreno. Misticismo e materialismo trovano una loro composizione nell’atto del “significare”, un’operazione che nobilita e distingue l’eccellenza umana materiale. Empito filosofico panteista decisamente degno di Benedetto Spinoza ed empito teosofico buddista albergano in un uomo “Materia e Mente” collocato in un universo come parte del “Tutto Vivente”. La Filosofia greca presocratica si sposa alla Filosofia post-socratica negli assunti culturali di base dell’uomo fuso nell’universo e dell’uomo capace e forte del suo “significare” in Logica, attribuire “segni”, ridurre in “segni”, decodificare i “segni”. Umberto Eco dall’alto o dal basso del suo “Nulla eterno” sorride ridicendo che la Semiologia siamo noi, è un’umana capacità logica di inquadramento dei dati e che il giovane fenomeno non ha fatto altro che tirare fuori ciò mentalmente ha elaborato.

TRADUZIONE PSICOLOGICA

“Del resto, io sono un ragazzo modesto rispetto a quello che mi circonda e non posso capire e spiegarmi tutto.”

NOTE PSICOLOGICHE

Ma questo baldo e speculativo giovane si sta dirigendo verso la “sublimazione” della Materia e si sta approcciando alla sua parte spirituale inserendosi nel Tutto e trovando in esso il suo significato etereo. Del resto, un adolescente in piena formazione psicofisica vive notevoli trambusti ormonali e sconquassi relazionali ed è chiamato a rispondere alle annose questioni del “chi sono io” e del “dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio. Una difesa psicologica dal suo corpo in tempesta è quanto meno doverosa e necessaria. La nobilitazione delle volgari pulsioni è concessa e permessa dalla Filosofia e dal Filosofare. Ritorna il meccanismo psichico di difesa dall’angoscia della “razionalizzazione”, benefico di suo ma non a tutte le età. Se poi si associa il processo psichico di difesa della “sublimazione della libido”, l’evoluzione psicofisica è particolarmente complessa e delicata. Ricapitolando la psicodinamica, si tratta di poderose capacità di astrazione messe in circolazione per un’adeguata difesa dal Corpo e dalle pulsioni, un “Io” chiamato in causa con i suoi meccanismi e processi di difesa per difendersi dalle aggressioni armate dell’istanza “Es”, il serbatoio dinamico degli istinti e delle pulsioni, nonché delle emozioni genuine e incontrollabili.

Essere fatti con ciò che è l’universo, pensare, vivere invece sono significati di essere con cui l’uomo poter fondersi con l’universo eternamente.”

NOTE FILOSOFICHE

Il sorprendente giovane conferma che l’uomo è immerso nell’universo come sua parte e partecipa della stessa sostanza, di poi opera l’atavica distinzione tra “Materia” e “Spirito”, tra il laico Corpo e la nobile Mente. L’uomo è fatto di Materia, ma l’uomo ha qualcosa di più che lo contraddistingue e differenzia dal resto dell’universo, l’uomo ha l’Essere nei due “significati” di Pensare e di Vivere, di Pensiero e di Vita. Dall’universo che contiene il “Tutto Vivente”, uomo compreso, dal “pan-Cosmismo” che esige il “Tutto materia vivente”, il nostro prepotente filosofo passa senza colpo ferire a differenziare l’Uomo nobilitandolo con il Pensiero e la Vita, meglio quella consapevolezza del Vivere che è annessa e si traduce nell’Essere. Cari lettori, capite che le questioni sono già complicate, ma vi avverto che si stanno complicando ancora di più, per cui fate in tempo a rifocillarvi di fosforo per ridestare la vostra intelligenza. Allora, ricapitolando e allargando il discorso, le attività umane nobili sono il Pensiero etereo e l’astratto Vivere; entrambi rientrano nella grande Madre dell’Essere come “significati”, portano i segni e i sensi parziali dell’Essere. Il Dio di Spinoza è il grande Essere da cui derivano gli infiniti “attributi” e da cui conseguono gli infiniti “modi” dell’unica Sostanza Essere, Dio. Pensiero e Materia sono i “modi” che riguardano direttamente l’Uomo. Ma non basta, perché il giovane talento dopo la fusione panteistica riporta tutto nell’individualità e opera la scissione dall’Essere secondo le coordinate greche già conosciute. L’uomo si è staccato dal Tutto Vivente, “Ilozoismo”, e ha commesso il peccato originale della Cultura greca, la “ubris” o ira o violenza. L’autonomia del “conosci te stesso” si paga con il senso di colpa di aver rotto l’unità del “Tutto” e di avere affermato la “Parte”, come Adamo quando disubbidisce all’ingiunzione di Dio. Dal “Tutto” ti stacchi individuandoti e al Tutto ritorni affinché la Morte non sia angoscia e il distacco non sia un perdita depressiva. Il prezzo che si paga all’autonomia psichica e alla “coscienza di sé”, Essere come Pensare e Vivere, si riscatta in quanto è l’unica possibilità che l’Uomo ha per poter ritornare al Tutto Cosmico e per purificare la colpa della necessaria rottura dell’unità e dell’equilibrio del Tutto Vivente.

TRADUZIONE PSICOLOGICA

“Eppure mi piacerebbe essere parte di un tutto e stare bene senza differenziarmi dagli altri.”

NOTE PSICOLOGICHE

Il giovane talento sta parlando di sé in termini filosofici, usa il meccanismo psichico di difesa dall’angoscia della “proiezione” per non prendere coscienza del suo normale bisogno di dipendenza affettiva e psichica. Continua a usare il meccanismo di difesa della “razionalizzazione” traslandolo nella Filosofia, in un concetto sul Cosmo, la Grande Madre, che oscilla tra fusione e distacco, proprio le psicodinamiche che ha vissuto e sta vivendo in questo momento della sua esistenza: autonomia e far legge a me stesso o dipendenza psichica dalla madre e dal padre. Questa è la sua strenua battaglia in linea con i tempi e con le relazioni. Uscito dalla “posizione psichica edipica”, conflittualità con i genitori, si avvia verso la “posizione psichica genitale”, sessualità rivolta all’oggetto del desiderio e senso-sentimento di donazione. Questo passaggio è importante per l’evoluzione psichica. Ma bisogna anche considerare l’esito della “posizione psichica fallico-narcisistica” nella quale il soggetto si compiace di se stesso e delle sue capacità chiudendosi in una dimensione solipsistica. L’autocompiacimento delle proprie doti intellettive e della propria persona è ben visibile nel nostro piccolo genio, così come l’amor proprio. Si profila nel paragrafo il ritorno alla fusione dopo il distacco, il ritorno al padre e alla madre dopo la separazione, ma sono psicodinamiche “in fieri” e che si possono controllare. E’ opportuna una nota sul concetto del “Tempo”. Quest’ultimo viene concepito non lineare ed evolutivo, ma circolare e basato sulla ripetizione degli schemi dinamici e dei contenuti. Il “breve eterno” psichico, la dimensione del presente in atto nell’Io consapevole, spiega questa intuizione del ragazzo: tutto ciò che è presente nella coscienza esiste e di questo si può parlare sempre al presente.

Con questo testo mi oppongo all’ateismo, l’umanità senza religione, che crede di sapere di più, la quale non sa però fondere l’universo con l’uomo.”

NOTE FILOSOFICHE

Pensate, pensate! Un ragazzo di undici anni si oppone all’ateismo con un testo umanistico sintetico che suppone conoscenze e formazione filosofiche di alto livello. Il processo psichico di “sublimazione” dell’angoscia depressiva della perdita funziona bene e viene chiamato in causa. Il grande peccato originale viene fissato “nell’umanità senza religione” che crede di sapere di più del creatore, Scienza, e non sa fondersi con l’universo e non sa vivere in simbiosi, il Panteismo di Spinoza. Spiego: dice il ragazzo intraprendente che l’uomo deve fondersi e non scindersi con l’universo creato da Dio e che la Scienza è anti-ecologica. L‘uomo deve tornare a Dio da cui proviene e la “coscienza di sé” è fondamentale per questo recupero dell’unità del Tutto Vivente. Allora, l’uomo si è scisso da Dio creatore dell’universo e a lui deve ritornare tramite la “coscienza di sé” e non il “Sapere” generale che è arrogante e peccaminoso perché è come un competere con il Creatore. L’uomo crede di sapere più di Dio, ma la Scienza non serve per il ritorno al Padre o alla Madre o al Tutto Vivente e semplicemente perché salvifica e indispensabile è soltanto la “coscienza di sé”. L’Uomo ricerca il suo posto nell’universo e la sua dipendenza da Dio, da un Assoluto, da un Principio. La Religione è da intendere non come un insieme di temi fideistici desunti da varie professioni storiche, ma come un bisogno psicologico di dipendenza e di ricollocazione di un Uomo alla deriva nell’universo. Il giovane talento si schiera contro l’assenza e la negazione di Dio. Non è vero che Dio è morto, al contrario è l’Uomo che senza Dio è Nulla.

TRADUZIONE PSICOLOGICA

“Io non posso vivere da solo. Devo vivere con gli altri e devo avere dei valori importanti, ma soprattutto devo riconoscere quelli che mi stanno attorno sin da quando sono nato.”

NOTE PSICOLOGICHE

Ritorna il processo di difesa dall’angoscia depressiva di perdita della “sublimazione”. Il meccanismo, sempre di difesa, della “razionalizzazione” supporta l’elevazione al cielo e il richiamo verso l’alto. A undici anni tale ricorso e tali usi sono assolutamente normali se usati nelle giuste dosi. La “libido” o energia vitale non è gustata nella sua essenza istintiva e pulsionale, ma viene edulcorata e commutata tramite la Ragione e la speculazione in una ricerca astratta di verità storiche e ataviche. L’Io prevale sull’Es, come si è rilevato in precedenza, le attività di vigilanza e di autocontrollo controllano le pulsioni e offrono un adolescente cresciuto in fretta per difesa e più razionale di un cosiddetto adulto in circolazione nei circuiti televisivi e politici. Riemerge il bisogno di chiusura in un ambito familiare dopo un’apertura al mondo e a coloro che lo abitano. Il giovane è in contrasto con l’introversione e l’estroversione intese come strategie psicologiche ed esistenziali. In questo conflitto l’uso della Ragione non lo aiuta, ma lo allontana dalla giusta collocazione psicologica di un “sé” adolescente. Chi spada ferisce, di spada perisce. Troppa e precoce razionalità non formano il genio, ma un bambino in sofferenza.

Quindi per conquistare l’universo bisognerà essere religiosi ed avere un pensiero più esteso, oltre l’umanità.”

NOTE FILOSOFICHE

La proposta costruttiva e soteriologica è, di conseguenza, quella di tornare alla fusione con Dio creatore tramite la sua creazione, l’Universo, e di avere gli orizzonti allargati e alieni dalle bassezze terrene e materiali, “un pensiero più esteso, oltre l’umanità”. Alzare lo sguardo al Cielo e rifondersi con il Creatore tramite il creato, “l’universo”, in cui l’Uomo è stato a suo tempo inserito a pieno titolo privilegiato. La grecità della “ubris” si fonde nuovamente con il Panteismo e la Religione viene intesa come avere un Pensiero, una Filosofia allargata che specula non scientificamente sulla Realtà vivente, ma globalmente come ricerca della giusta collocazione dell’Uomo, la creatura che si pone come “significante”, che “sa di sé” e delle sue mirabili capacità progressive, del suo ruolo e del suo metodo per risolvere i suoi problemi e le sue angosce. L’Uomo è colui che interpreta i “segni”, decodifica, e dà i “significati” alle Cose della Realtà Vivente proprio perché ha in prima istanza dato a se stesso la Verità di sé, la coscienza del suo Essere. I richiami filosofici abbondano e sono gli stessi che abbiamo incontrato nel corso di questa analisi polivalente, a metà tra la Filosofia e la Psicologia dinamica.

TRADUZIONE PSICOLOGICA

“Per affermarmi chiedo a me stesso di avere tanti ideali e tante relazioni umane significative e non formali.”

NOTE PSICOLOGICHE

Le angosce di un ragazzo di undici anni che si è ben individualizzato, che “sa di sé”, che viaggia verso l’autonomia psicofisica e che deve risolvere le dipendenze psichiche e soprattutto affettive dai genitori e dalla famiglia, queste sono le angosce e i conflitti del nostro spigliato giovane. Tra una benefica “regressione” difensiva al grembo materno e un bisogno di essere privilegiato in un ruolo nobile e impegnativo scorre il recupero da parte del protagonista di una umanità che va oltre l’umano. Cosa vuol dire “oltre l’umanità”? Si richiama la filosofia disorganica di Nietzsche e il testo “Umano, troppo umano” e la speculazione sul Superuomo, andare “oltre l’Uomo” per l’appunto. I concetti di “Super” e di “Oltre” prospettano una dimensione psichica al di là della consapevolezza dell’Io. Freud aveva individuato l’Inconscio come la dimensione psichica ancora inconsapevole e che vuole emergere alla Coscienza con tutto il suo carico energetico, un buon alleato per far nascere tutto quello che si è prospettato in noi e che ancora non ha trovato la sua naturale realizzazione: la creatività e la Fantasia non divergono dalla Scienza tramite e in grazie al Sapere di sé, condizione unica per la risoluzione dei conflitti psico-relazionali. Atteggiamenti psichici e modalità mentali sono stati tradotti in pensieri e in Scienza. Dalla dipendenza all’emancipazione tramite il “sapere di sé” come condizione del “sapere dell’Altro” e della Natura, è questo il tragitto che segue L’Essere tramite il Pensiero. Senza autocoscienza il Pensiero non progredisce e l’uomo non è autentico nel suo vivere e non può reinserirsi nel “Tutto Vivente” da cui ci si era scisso.

Che voi, dopo questo testo, siate!”

NOTE FILOSOFICHE

La conclusione del testo tesse religiosamente l’elogio dell’arroganza e della buona onnipotenza, quella che non si lascia aggredire e combattere per la sua connaturata generosità. Sorprendente e incredibile è il monito del pontefice massimo che ha elargito la buona novella, la metodologia umana ed esistenziale intorno alla Verità e alla sua gestione. La Verità è sempre ammantata di sacro e si nasconde per lasciarsi cogliere soltanto dall’uomo che la cerca e le toglie il Velo di Maya. Fu così al tempo dei Greci e dei grandi sacerdoti, fu così al tempo di Socrate, di Budda e di Cristo, fu così al tempo delle religioni monoteistiche. Con la morte di Dio l’uomo è rimasto solo e attende il prossimo Ente e la sua Verità. Mi piace concludere con la rielaborazione dei temi di Nietzsche.

TRADUZIONE PSICOLOGICA

“Questo è l’augurio che faccio a me stesso dopo la presa di coscienza che mi ha consentito questa riflessione sul significato di Essere. Adesso sono pronto a migliorarmi.”

NOTE PSICOLOGICHE

Il nostro benamato ragazzo benedice quel popolo a cui ha elargito la sua Verità e auspica il ritorno all’Essere tramite il Pensiero. L’auspicio è rivolto a se stesso e il bisogno della “coscienza di sé” è la traduzione del suo cammino di vita e del suo travaglio psichico. Dalla Ragione al ritorno al sacro e al mistero, questo è il processo seguito e foriero di buoni progressi.

Dai, allora, caro e sconosciuto amico mio, metticela tutta e avanti con giudizio e con modestia. La strada intrapresa è quella giusta. Buttati fuori e comprova con gli altri che quello che tu pensi è condivisibile e accettabile. E non dimenticare mai il corpo quando esci con la persona che ti attizza.

Questo è quanto.

DOMANDE & RISPOSTE

L’analisi del testo del giovane portento è stata affidata alla riflessione di un collega con cui condivido la formazione filosofica e psicologica, nonché la passione per gli spaghetti alle cozze e i cannoli alla ricotta della Fattoria Italia in quel di Solarino. Il colloquio è stato proficuo e chiarificatore.

Collega

Ho visto che ti sei dilungato nell’analisi di questo testo. Ti è piaciuto? Ma un ragazzino di undici anni può scrivere queste cose?

Salvatore

Mi è piaciuto un casino e non mi ha sorpreso. Non ho alcun dubbio che si tratta di farina del suo sacco. Il testo non può essere stato manomesso o copiato o ispirato da chissà chi e da chissà cosa. Lo ha scritto in maniera consona alla sua età e formazione. Non può aver copiato perché quello che afferma è logico-consequenziale e dimostra di averlo ben elaborato e capito. Non poteva certo scrivere quello che non sapeva e che non aveva pensato. E poi la titubanza della forma fa capire il travaglio del cimento più grande di lui e alla sua portata non per grazia ricevuta, ma per la tendenza a macerarsi sui grandi problemi e sui grandi sistemi che poi sono i suoi conflitti e i suoi dubbi.

Collega

E allora come lo spieghi questo exploit?

Salvatore

Questo ragazzo ha messo per iscritto le tematiche umane universali e lo ha fatto seguendo linee principali della sua formazione psichica. E’ un giovane prevalentemente introverso che si è costruito dopo tanta riflessione e che ha privilegiato sin da piccolo la sua razionalità e ha trascurato le sue emozioni. Tecnicamente ha preso paura della vita dei “fantasmi” ed è stato educato al cinquanta per cento a ragionare sulle cose e per il resto ha scelto di usare la testa. A livello psicodinamico ha usato “meccanismi psichici di difesa dall’angoscia adulti e secondari”, ma anche i “meccanismi primari” sono presenti. Comunque il ragazzo da piccolissimo, primo anno di vita, ha elaborato pochi “fantasmi” perché per paura li ha voluti subito razionalizzare e capire. Da questa esigenza primaria di soluzione dell’angoscia nasce il filosofo, meglio la tendenza riflettere e a filosofare sui temi essenziali dell’esistenza. Tutto qua! Secondo me ha una buona dose di narcisismo e un culto di sé che lo ha portato a differenziarsi dagli altri e a coltivare se stesso. E questo tratto psichico va considerato perché danneggia il gusto della vita.

Collega

Ma quello che hai tirato fuori di filosofico capisco che risponde a verità e non è strappato con i denti, ma mi pare che ti sei troppo allargato sui temi anche perché il tuo amore per la Filosofia non è mai tramontato. Pensi che chi leggerà la decodificazione potrà condividere quello che hai scritto?

Salvatore

Io lavoro di gusto e per mio gusto, tutto il resto è importante ma non determinante. Mi diverto finalmente a essere libero di trovare connessioni e richiami senza dover rendere conto agli addetti ai lavori. Le implicazioni e le contaminazioni mi esaltano. Io sono un teorico della necessità di riattraversare tutto quello che è stato detto in vario modo anche perché tutto è stato detto e adesso si tratta soltanto di approfondirlo, di rimetterlo insieme e di applicarlo alla scienza per migliorare la realtà degli uomini e della Natura dell’Essere, per dirla con le note del ragazzo.

Collega

Che idea ti sei fatto di questo ragazzo?

Salvatore

Dimmi la tua.

Collega

Sai che non sono bravo a descrivere e a cogliere i dettagli come te, soprattutto a metterli insieme per formare un quadro plausibile.

Salvatore

Minchiate! A te la parola.

Collega

Un bambino introverso si è evoluto in un ragazzo che teme di essere diverso dai suoi coetanei e che tende a isolarsi per la paura di non essere capito. Da piccolo si è risparmiato le angosce legate alle rappresentazioni del suo Io e ha precocemente cominciato a ragionare e a farsi una ragione di tutto. La paura della sua strategia adulta lo ha esaltato ma anche addolorato per la difficoltà a mettersi in contatto mentale ed emotivo con i suoi simili. Il meccanismo di difesa poco usato è lo “splitting”, la scissione delle rappresentazioni mentali primarie o fantasmi, a tutto favore della “razionalizzazione”. Come vedi, ho confermato quello che hai detto.

Salvatore

Per paura ha goduto poco la bontà creativa della sua Fantasia. La parola è stata usata per i grandi concetti e non per le mille stronzate dell’infanzia.

Collega

Ai genitori cosa dici?

Salvatore

Che hanno un figlio eccezionale e geniale e suggerisco, a loro e a tutti quelli che interagiscono, di materializzarlo al massimo, di portarlo con i piedi per terra e di insegnarli alla Feuerbach che “l’uomo è anche e soprattutto ciò che mangia” o qualcosa di simile.

Collega

Stasera a casa tua?

Salvatore

Il proverbio dei contadini siciliani dice in lingua italiana che “quando è ora di mangiare arrivano tutti i miei compari, ma quando è ora di lavorare non arriva neanche un cornuto per aiutarmi”. Ecco, tu sei uno di questi cornuti! Ci vediamo dopo, ma non ti presentare senza una guantiera di cannoli di Girlando.

IL  RICONOSCIMENTO  DELLA  MADRE TRA  ANDROGINIA  E  SOPRAVVIVENZA

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“Anna sogna di trovarsi di notte in un luogo illuminato soltanto dal riflesso della luna.

Davanti a lei c’è un canale sommerso dall’acqua che straripa e allaga i campi.

Anna vede soltanto il riflesso dell’acqua, ma sa che ci sono le sponde sotto forma di muretti e che fungono da passerelle.

L’acqua scorre impetuosa e Anna cammina velocemente sopra il

muretto-passerella destro seguendo il flusso forte della corrente.

A un certo punto si rende conto che deve tornare indietro e per risalire il canale deve spostarsi a sinistra e poi saltare a destra: così di continuo. Comincia a saltare a sinistra e a destra e riesce a farlo bene. Per un tratto vede suo figlio che risale il canale insieme a lei, ma dopo non lo vede più.

Risale la corrente con l’angoscia di cadere dentro l’acqua e di annegare.

Ma vede che ce la fa facilmente e che è semplice e divertente saltare a  sinistra e a destra.

Anna è contenta e soddisfatta di se stessa.”

Si prospetta l’interpretazione di un sogno veramente funambolico, non solo a livello dinamico, ma anche a livello simbolico dal momento che le condensazioni sono precise e di vasta portata; alcune hanno una valenza di “archetipi”, sono simboli universali che vanno al di là dell’elaborazione  culturale e individuale, altre sono ad ampio spettro perché includono temi culturali e filosofici. Si tratta nello specifico dei simboli della “acqua”, della “destra”, della “sinistra”, della “luna”. E’, inoltre, sorprendente come il sogno di Anna riesca a camuffare la figura materna e la psicodinamica collegata all’universo femminile con una simbologia assolutamente naturale: “l’acqua” e la “luna”. I simboli sono attinenti per diversi aspetti e per alcuni attributi.

Il sogno di Anna si può definire “come riconoscere la madre” nella fase finale del complesso di Edipo e mostra la dialettica madre-figlia senza trascurare le paure e le angosce che si accompagnano all’emancipazione relazionale e all’autonomia psichica.

Il sogno contiene ancora una caratteristica importante che si può definire “come si risolve il complesso di Edipo in una dimensione di sopravvivenza”: una forma di onnipotenza nell’andare sopra la vita. ”L’acqua scorre impetuosa e Anna cammina velocemente sopra il muretto-passerella destro seguendo il flusso forte della corrente.” Il sogno di Anna è coniugato al femminile e, oltre al funambolismo, presenta i caratteri acrobatici della magia. “Anna vede soltanto il riflesso dell’acqua, ma sa che ci sono le sponde sotto forma di muretti e che fungono da passerelle.” Trattasi dell’illusione ottica di camminare sulle acque da parte di un eventuale ingenuo spettatore e della consapevolezza di Anna del sostegno determinante dei muretti. Inoltre, Anna,  per risalire il canale, “comincia a saltare a sinistra e a destra e riesce a farlo bene.” Questa è la potenza plastica della “figurabilità” del sogno che supera i limiti della fisica gravitazionale e fa gridare al miracolo. Quanto meno Anna in sogno si permette delle gesta ginniche che nella realtà sono molto improbabili.

Il sogno di Anna si può, in ultima istanza, definire nel suo oscillare a destra e a sinistra come la dialettica psichica tra la “parte maschile” e la “parte femminile”, altrimenti detta “androginia psichica”, che per la sua prima formulazione ci riporta al “Convito”, un delizioso dialogo del grande Platone datato quarto secolo “ante Cristum natum”. Vi invito a leggerlo e nel caso specifico si tratta della parte VI, il discorso di Aristofane.

Partiamo con l’analisi del sogno estrapolando i simboli dominanti. Il sogno si svolge “di notte” a testimoniare che la coscienza è obnubilata. Anna è in uno stato crepuscolare, in una dimensione interiore e intima: al tema del sogno, che di per se stesso sviluppa l’interiorità, si associa anche l’atmosfera psichica di abbandono al sonno e al sogno, di disimpegno dalle mille attività della giornata, di riflessione su se stessa. Non basta la notte a connotare la scena onirica, ma si aggiunge come rafforzamento la fievole e bianca luce del “riflesso della luna”. La “luna” è il classico simbolo dell’universo femminile e nello specifico del ciclo mestruale, ma condensa anche il fascino e la seduzione nelle espressioni più crudeli. Si pensi alla “licantropia”, al tema favolistico del “lupo mannaro”, al delirio legato alla visione della luna piena e all’angoscia innescata dalla luna nuova. Quando è luminosa, la luna non contiene la “parte negativa” del fascino e della seduzione femminile, quella che, invece, contiene la “luna nera”, la luna nuova, quella minacciosa e infida che si sa che è in cielo ma non si vede, quella che guarda dall’alto e si nasconde agli occhi atterriti del povero maschio. Questa fase lunare condensa la “parte negativa della donna” in quanto minaccia il maschio nella sua virilità con la sua seduzione subdola, castrante e addirittura mortifera. Si richiamano a tal uopo i miti in riguardo a Lilith, alle sirene, alle maghe, alle streghe, tutte figure femminili improntate a tremendo danno per l’universo maschile soltanto perché portano il maschio alla perdizione con le lusinghe carnali, con le magie psichiche, con la decerebrazione, con la malattia mortale e con l’asportazione traumatica del membro. Ovvio che questa cultura è stata elaborata dai maschi sin dal tempo antico, a testimonianza del terrore che incuteva la femmina, più che la donna, con l’angoscia di castrazione collegata alla recettività sessuale del suo corpo e soprattutto con l‘angoscia collegata alla prorompente sessualità, così diversa da quella maschile e così impegnativa per il maschio. Nel sogno di Anna la luna è luminosa, quindi è femmina e seducente e fa da degno contorno coreografico al teatro femminile in cui si svolge la psicodinamica. La notte e il paesaggio oscuro, inoltre, condensano la femminilità neurovegetativa, l’intimità, la seduzione, la caduta della vigilanza e della razionalità, la creatività, la fantasia, i meccanismi del “processo primario”, proprio quelli che elaborano il sogno.

Procediamo con l’analisi.

Davanti ad Anna c’è “un canale sommerso dall’acqua che straripa e allaga i campi”. Il “canale” nella  sua funzione di regolamentare l’acqua ha una valenza maschile di natura logica e impositiva, mentre l’acqua è un attributo simbolico dell’archetipo “Madre”. Il simbolo femminile dell’acqua è dominante nel sogno di Anna in maniera direttamente proporzionale alla sua forza e alla sua potenza. L’acqua è regolata dal canale in cui impetuosa scorre, ma straripa e allaga il territorio circostante. L’acqua è l’elemento classicamente associato alla vita per la fertilità della madre terra e per il feto che naviga nel liquido amniotico durante la gravidanza. Va considerato che la donna forgia la vita nel suo grembo secondo il registro biologico del sistema neurovegetativo ed endocrino. L’acqua rappresenta, inoltre, l’energia vitale, lo slancio vitale, la forza irresistibile della natura, il sistema neurovegetativo, la “libido” di Freud depurata in parte dalla valenza sessuale e arricchita di una valenza energetica, il principio cosmogonico del primo filosofo greco, Talete.

Simboli maschili sono il canale con gli argini che non si vedono e la “destra”.

Rappresentano la direttività e la razionalità legate all’universo maschile. Ma la femminilità del sogno è anche direttiva e precisa. Anna coniuga la parte fallico-narcisistica introducendo nel sogno la sua parte maschile introiettata quando da bambina si viveva in attesa che si evidenziassero i caratteri sessuali. Anna “vede soltanto il riflesso dell’acqua”, è attratta dalla sua femminilità e dalla figura materna sopra cui cammina nella parte destra e seguendo il flusso della corrente. Anna domina la scena ed è padrona della sua psicodinamica, dal momento che va verso “destra” e procede sicura sopra il muretto dell’argine del canale: ”sa che ci sono le sponde sotto forma di muretti che fungono da passerelle”. Va giù di corsa con impeto e sicurezza nel giostrarsi con la sua femminilità e con la figura materna. L’identificazione ha avuto buon fine ed è arrivata all’identità psichica femminile con quel tratto maschile di impeto e di sicurezza. Fino a questo punto la parte progredente del sogno.

“A un certo punto si rende conto che deve tornare indietro”. Anna ha la consapevolezza di aver osato tanto e deve rivisitare, più che regredire, le sue conquiste saltando a sinistra e a destra, da una sponda all’altra del canale. Anna torna indietro a rafforzare la sua identità per l’insorgere di una normale paura di se stessa e della sua sicurezza. Del resto, il sogno di Anna ha visitato la madre e adesso deve rassodare le sue conquiste. Il figlio l’accompagna, ma Anna non ha un conflitto con la sua maternità, per cui può lasciarlo e non lo vede più. Si è soltanto ricordata che anche lei è mamma come la sua mamma. Il saltare a sinistra e a destra vuole attestare la completezza dell’ essere umano nella “androginia psichica”. Ogni persona, al di là del suo sesso biologico, a livello psichico possiede ed esprime quelle che simbolicamente si definiscono “parte maschile” e “parte femminile”, la parte razionale e la parte emotiva, la parte affermativa e la parte remissiva, la parte fallica e la parte recettiva: attributi del corredo psichico ascritto simbolicamente all’universo maschile e all’universo femminile. Nel rivisitare se stessa Anna mostra in sogno tutta la sua umana consistenza, l’angoscia di cadere nell’acqua. La femminilità ha un peso e un costo per essere portata in giro una volta libera dall’invadenza della figura materna. E’ questa la valenza edipica nell’ultima fase, il riconoscimento della figura materna per affermare se stessa come femmina. Si presenta l’angoscia di essere fagocitata dalla madre, di non riuscire a liberarsi dal possesso della figura materna. Anna ha fatto la sua ribellione alla madre per affermarsi come persona e ci è riuscita perché ha vissuto la madre come l’altro da sé e non necessariamente come una matrigna o una strega, la “parte negativa della madre”.

E’ semplice e divertente risalire e non regredire. E’ come se fosse il rafforzamento di una presa di coscienza. Anna sa di sé e della sua femminilità e si è riscattata dalla madre. Anna è appagata. Magari in sogno si è spaventata, ma dopo ha risolto anche la paura e ha rivisto la sua emancipazione e la sua autonomia psichica. Bisogna vivere la madre nella sua sacralità e nella giusta dimensione psichica e non come un ostacolo all’affermazione. L’identificazione si è risolta nell’identità, per cui ”Anna è contenta e soddisfatta di se stessa.”

La prognosi impone ad Anna di godere delle sue conquiste psichiche e di rafforzare il suo rapporto con la madre con una finalità generosa dopo aver tanto ricevuto. I genitori anziani vanno adottati dai figli e non depositati dolcemente in case di riposo, i nuovi “lager”. Anna deve portare avanti la sua autonomia con un intento donativo.

Il rischio psicopatologico si attesta nella “regressione” al conflitto con la madre per l’insorgere di un bisogno di dipendenza psichica a causa di una crisi affettiva. Consegue la caduta della qualità della vita con sintomi psicosomatici da psiconevrosi edipica.

Riflessioni metodologiche: il sogno di Anna induce a parlare sul destino del complesso di Edipo, in particolare sul tema se si risolve del tutto o se si trasforma. La risposta immediata è che il complesso di Edipo, meglio il paradigma edipico, non si risolve mai del tutto così come si prospetta nella teoria psicoanalitica e così come si propone ogni genitore e ogni figlio. La relazione edipica si può proiettare sui figli e capovolgere da parte dei genitori sotto l’incalzare dell’angoscia di morte legata all’evoluzione del tempo e all’involuzione organica della vecchiaia. Come si manifesta? Facilmente un padre e una madre non vogliono fare a meno del possesso del figlio o della figlia. Oltretutto nella senescenza i genitori hanno bisogno di essere serviti e mantenuti. Si generano in tal modo conflitti tra genitori e figli, tra famiglia d’origine e famiglia di nuova formazione. E’ famoso il mito della suocera cattiva. Non sono soltanto i figli che devono risolvere il complesso di Edipo, ma anche i genitori che si ritrovano a vivere quello che hanno già vissuto al loro tempo con i loro genitori. Si ripete la storia della “Nutella”: la nonna la dava alla mamma, la mamma la dà alla figlia, la figlia la darà a sua figlia e così nel tempo che sarà: una “coazione a ripetere” della squisita crema al cacao e alle nocciole da spalmare sugli affetti familiari. Ma, attenzione al diabete!

COMPLESSO  DI  EDIPO  E  ANGOSCIA  DI CASTRAZIONE

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“Giuliana sogna un corridoio che ricorda la vecchia casa dove abitava.

Distesa sul pavimento blocca la porta d’ingresso con i piedi sulla maniglia.

Dietro quella porta c’è qualcuno che vuole entrare per farle del male o per rubare.

Giuliana è terrorizzata.

E’ disperata perché sente che non sarebbe resistita per tanto tempo.

Continua a urlare chiamando il marito, ma la voce non esce e le si strozza  in gola.

Chiama anche la figlia perché a sua volta chiami il papà, ma sa che non può sentirla.

Alla fine urlando si sveglia da una terribile angoscia.”

 

Il sogno di Giuliana è classico e universale, non conosce distinzioni di sesso e di razza, di tempo e di spazio, di cultura e di politica, di economia e di religione perché riguarda il naturale rapporto psichico dei figli con il padre e con la madre, una psicodinamica antichissima e formativa che Freud elaborò psicologicamente come “complesso di Edipo”. La dimensione edipica è il degno tributo che paghiamo per la conquista della nostra identità psicofisica e della nostra autonomia, dopo aver vissuto tanto travaglio e altrettanto struggimento nell’elaborazione dei fantasmi in riguardo ai nostri genitori. All’incontrario di quanto pensava Freud, la valenza sessuale non è esclusiva e dominante in questa fase evolutiva della “libido” e della formazione del carattere, ma è una componente consistente che porta alla “libido genitale” e alla maturazione psichica della vita sessuale. La situazione edipica contiene sensazioni e sentimenti, modi affettivi e modi amorosi, modalità di relazione con persone e oggetti, la fantasia e la ragione, i fantasmi e i concetti: “in nuce” il nostro essere adulti. La fase edipica è il prezzo degnamente onorato e investito nei riguardi del mito delle origini e nei riguardi degli archetipi “Madre” e “Padre”. Di poi, la vita o meglio l’esercizio del vivere ci può riservare idee ed eventi, fantasie e fatti che possono scatenare in qualsiasi momento e in qualsiasi spazio tutto il materiale edipico vissuto e sedimentato, chiaro e oscuro, con i suoi fantasmi e i suoi vissuti, i suoi ricordi e le sue dimenticanze, le sue caratteristiche così personali nel loro essere così universali. Ecco che il sogno custodisce nel suo presente e nel suo “breve eterno” il magma psichico legato ai nostri genitori e lo può in qualsiasi momento recuperare e rimettere in edizione sulla scena onirica con quella precisione apparentemente dimenticata e in quel linguaggio caduto in disuso. L’esempio concreto a portata di mano è Giuliana, una donna già figlia, già moglie, già madre, almeno da quello che ci dice la trama del sogno. La sua condizione psichica non dimentica e non confonde i suoi vissuti, per cui basta ancora uno stimolo di poco spessore o un trauma notevole per rimettere in palcoscenico il suo antico desiderio di tanto padre nella valenza del trauma sessuale e nella figura del ladro. Giuliana si trova in una situazione ambigua di figlia e di madre, da questa parte della barricata con i suoi genitori e dall’altra parte della barricata con i suoi figli e, perché no, anche con il marito che possibilmente cerca ancora la madre nella propria donna. Gli stimoli a ridestare l’edipico sono tanti nel quotidiano vivere e non mancherà un “resto diurno” a fungere da causa scatenante del sogno di Giuliana e di tutti quelli che sono nati da madre e padre o hanno avuto madre e padre. Ricordo che esiste la distinzione tra genitori naturali e genitori psichici: non sempre devono coincidere o possono anche non coincidere. Ma perché tanta angoscia edipica nei sogni? Semplicemente perché la situazione edipica non è stata elaborata in maniera adeguata a suo tempo e il complesso edipico non è stato liquidato in maniera ottimale: semplicemente non si sono riconosciuti i genitori e questi ultimi non ci hanno aiutato a crescere anche in questi ambigui versanti. Un’ultima questione è la seguente: si liquida totalmente il complesso di Edipo? La risposta non solo è negativa, ma addirittura la dimensione edipica riesce a camuffarsi in mille modi e a capovolgersi nei ruoli. Ma di questo parleremo in altra circostanza.

Procediamo con l’analisi del sogno di Giuliana, una trama altamente emotiva che riguarda e coinvolge tutti proprio perché facilmente l’abbiamo vissuta e rappresentata negli stessi termini.

“La vecchia casa dove abitava” si trasla dalla dimensione spaziale in quella  temporale ed equivale a “quand’era piccola”, ai vissuti e ai fantasmi di quando abitava con i suoi genitori. Il corridoio rappresenta il tramite di un vissuto, il collegamento di un fantasma, un nesso emotivo. Giuliana torna indietro nel tempo e si ritrova bambina o adolescente con la struttura psichica e le psicodinamiche di quel periodo tradotte dai meccanismi del sogno.

“Distesa sul pavimento blocca la porta d’ingresso con i piedi sulla maniglia.” La scena del sogno va subito al dunque e propone, più che simboli, la psicodinamica edipica tramite i meccanismi della “figurabilità” e della “drammatizzazione”: Giuliana distesa che si protegge dai suoi fantasmi  immaginando un uomo fuori dalla porta pronto alla violenza, quella sessuale in questo caso dal momento che è “distesa sul pavimento”. I piedi e la maniglia sono simboli fallici, ma non sono importanti perché la scena onirica è chiara nel suo essere drammatica. Giuliana si ritrova addosso l’angoscia edipica collegata alla violenza sessuale di un maschio simile alla figura paterna. Giuliana si trova davanti a quel suo desiderio pulsionale e al conseguente fantasma di “castrazione”. Giuliana s’imbatte nella colpa di aver tanto malignamente fantasticato seguendo la direzione dei suoi ormoni.

“Dietro quella porta c’è qualcuno che vuole entrare per farle del male o per rubare”. Trattasi di violenza e di castrazione, la prima in espiazione del senso di colpa di aver desiderato il padre e la seconda in base alla sua condizione sessuale femminile, la mancata crescita del clitoride nella forma del pene. Non indifferente è la frustrazione del senso e del sentimento collegata al fallimento del suo progetto,del suo desiderio, della sua pulsione. Ma perché è un maschio che viene a punirla e per assurdo un surrogato del padre?Perché non può essere la madre? Semplicemente perché la violenza fisica si ascrive simbolicamente all’universo maschile, al corredo degli attributi psicofisici del  maschio. La punizione compete al padre e a lui, sempre simbolicamente, si ascrive. In effetti Giuliana teme il suo desiderio, quello che a suo tempo fu l’investimento della sua “libido” nel padre. Adesso, sempre in sogno, teme la punizione dall’oggetto del suo desiderio di allora, sempre il padre.

“Disperata” e “terrorizzata” perché Giuliana sa di subire una violenza sessuale. Possibilmente la causa scatenante è stata un altro tipo di violenza, magari molto più sottile, subita nel giorno antecedente e magari “intra moenia”. Ricordiamo che i sogni parlano di noi e in forma specifica ci dicono la nostra verità in atto anche tramite rocambolesche associazioni.

Giuliana cerca aiuto e chiama il marito, anzi urla, ma la voce si strozza in gola: classico sintomo di “castrazione” e d’impotenza, di vanificazione delle energie e di solitudine. Trattasi di scene classicamente edipiche ed emotivamente direttamente proporzionali all’intensità del desiderio e dell’innamoramento vissuti nei riguardi del padre a suo tempo. L’oggetto del desiderio di prima nel sogno di Giuliana viene convertito nell’oggetto del dolore, della condanna e della colpa.

“Chiama anche la figlia”, ma Giuliana sa già che non può sentirla, perché  Giuliana è una donna sola e questa sua solitudine è più angosciante della violenza sessuale temuta e trasfigurata in sogno. A questo punto il sogno traligna e l’angoscia diventa ingestibile. Il risveglio soccorre Giuliana con l’emissione della parola gridata, la gola non è più strozzata, il risveglio è la soluzione salvifica per il suo equilibrio psicofisico.

La castrazione nella vita attuale porta Giuliana a sognare la castrazione edipica del tempo adolescenziale e a sentirsi sola come allora quando doveva districare la matassa del suo magmatico complesso senza poterne parlare con nessuno: la solitudine e l’impotenza, la colpa e l’espiazione, insomma un quadro normale anche se fortemente drammatico.

La prognosi impone a Giuliana di razionalizzare le situazioni di disagio psichico che evocano lo struggimento edipico e di razionalizzare il quadro umano ed esistenziale anche attraverso l’ironia e lo spirito critico. L’angoscia è della realtà in atto e richiama quella edipica che a suo tempo era normale.

Il rischio psicopatologico si attesta nella caduta della qualità della vita a causa dell’esaltazione di tratti depressivi con somatizzazione dell’angoscia collegata al senso d’impotenza. Si possono presentare inspiegabili variazioni dell’umore. Siamo, pur tuttavia, nell’ambito delle psiconevrosi.

Riflessione metodologica: la psicodinamica edipica nella bambina si snoda nel modo seguente: una forte attrazione globale verso il padre e una conseguente ostilità verso la madre. L’angoscia di “castrazione” la indurrà a recuperare  quest’ultima e a ’identificarsi al femminile. Mentre il bambino si trova il pene, la bambina si convince che il suo clitoride non crescerà, per cui matura la coscienza della differenza sessuale e indirizza la sua “libido” nel desiderio di avere un figlio dal padre e successivamente nella forza della seduzione verso il maschio per accedere definitivamente nella risoluzione edipica con l’identificazione sessuale nella madre. L’assunto di base è il seguente: si nasce bambini, ma si diventa maschi e si nasce bambine, ma si diventa femmine. Da questo travaglio psichico dipende non solo la scelta dell’oggetto d’amore dopo la pubertà, ma anche l’istanza del limite, della norma e della realtà. I fantasmi della fase edipica sono prevalentemente erotici e struggenti: il desiderio, il possesso, il piacere, la colpa, la castrazione, il conflitto. In particolare i fantasmi della “parte positiva e negativa del padre e della madre”, che il bambino aveva già elaborato nella “fase orale” sia pur in maniera rudimentale ed elementare, si arricchiscono e si complicano dopo la fase edipica. I sogni edipici sono dominanti non solo nell’infanzia e nell’adolescenza, ma anche nella vita adulta come nel caso di Giuliana. Il simbolo del “ladro” è molto ricorrente e traumatico e si traduce nel mio “dizionario psicoanalitico” come “castrazione psicofisica e compensazione traslata, difesa dall’angoscia edipica”: la castrazione mi porta a cercare appagamento fuori dall’ambito familiare e questa figura del ladro mi consente di sognare, condensandola e spostandola, la mia dimensione edipica.

UNA  MADRE CAPSULA E UN PADRE CLOWN

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“La capsula folle.

Sono nell’androne di un palazzo abbastanza ombroso, devo prendere l’ascensore per salire al quinto piano. La gabbia in cui è contenuto l’ascensore è simile a quella del palazzo in cui abitava L.B., una gigante griglia metallica tutta arrugginita.

Entro nel cubicolo ed appare sulla soglia del portone un altro inquilino. Si avvicina. E’ un padre con un bambino. E’ sulla cinquantina. Li aspetto. Anche loro vanno al quinto piano. Partiamo.

L’ascensore è strettissimo, le porte si chiudono e sembra di stare in una capsula spaziale, che al posto di salire verso il quinto piano, utilizzando il normale percorso dentro la gabbia metallica, ne esce fuori e balzella buffamente per il cortile, facendo un percorso alternativo, come se fosse diventato un grosso essere animato che compie il percorso a piedi.

Al che, un po’ preoccupata e un po’ divertita, assisto alla scena: la vedo sia da fuori, seguendo la goffa andatura della capsula,che da dentro, con il corpo completamente aderito alla parete curva della capsula.

A questo punto il tizio, il padre del bambino, inizia a molestarmi. Prova a baciarmi, mi infila le mani nelle mutande, mentre il bambino resta immobile e ignaro. Io mi chiedo come possa fare una cosa del genere di fronte a suo figlio e perché insista se vede che io non sono consenziente. Per di più in cortile davanti a tutti.

Riesco a fuggire dalla capsula, senza andare al quinto piano. Inizio a gridare a tutti che quell’uomo ha cercato di molestarmi; ma credo di scoprire poco dopo che quell’uomo è un clown e che la comunità di clown che viveva lì lo avrebbe difeso e non mi avrebbe creduta. Invece mi credono, scendono dai loro piani e mi ascoltano, mi dicono che ho ragione.

Tra questi, arriva anche G. in pigiama, mi ascolta e mi dà un bacio per calmarmi. Gli sono molto grata per questo.”

Questo è il sogno di Marta; così come l’ha scritto, io l’ho trascritto per una prima riflessione: la retorica, la discorsività, il racconto. Il sogno di Marta ha tutti i requisiti di una sceneggiatura futurista o qualche attributo del teatro dell’assurdo. Marta ha dato il titolo alla sua produzione onirica , “la capsula folle”, e si è compiaciuta nello scriverla con la migliore affidabilità possibile. Ma questo è il vero sogno o ha subito dei rammendi logici durante la trascrizione? Il “processo secondario”, il pensiero logico, si è inserito sul “processo primario”, i meccanismi adibiti all’elaborazione del sogno? La risposta è nettamente positiva: il sogno è stato rielaborato e rammendato con toppe logiche e consequenziali. Si vede in special modo sul sogno di Marta,la quale ha trascritto il “contenuto manifesto” aggiungendo i nessi logici per compilare in maniera credibile la trama della “capsula folle”. Eppure il sogno ha mantenuto il senso dell’assurdo, del paradosso e dell’imprevedibile. Il  sogno nella sua integrità e nella sua integralità al momento ci è escluso.

Procediamo con l’analisi del sogno di Marta e in questo caso estrapolerò i punti salienti, quelli che hanno una consistente essenza simbolica, i “fantasmi” di un certo spessore, per poi inserirli nella giusta psicodinamica.

“Sono nell’androne di un palazzo abbastanza ombroso, devo prendere l’ascensore per salire al quinto piano. La gabbia in cui è contenuto l’ascensore … una gigante griglia metallica tutta arrugginita.”

Il sogno esordisce con simboli della socialità quotidiana e con un umore grigio, un’atmosfera crepuscolare dov’è inserito un simbolo materno, “l’ascensore”, un grande grembo, di poi la “gabbia” che contiene l’ascensore. Sono tutti simboli di madre, condensazioni che riguardano l’universo femminile. Si aggiunge un rafforzamento peggiorativo ”gigante griglia metallica tutta arrugginita”: una madre affettivamente fredda, arida e tanto ingombrante. Marta esordisce offrendo il “fantasma” della madre, il suo vissuto profondo sulla figura materna nel suo versante negativo. Il simbolo del “salire al quinto piano” si traduce nel “processo psichico di difesa dall’angoscia della sublimazione”. Marta ha tutte le buone intenzioni di difendersi dalla possente e fredda figura materna proprio sublimandola, destituendola delle parti negative e rendendole positive. Per libera associazione anche L.B. ha una madre pesante ed enigmatica.

“Entro nel cubicolo e appare sulla soglia del portone un altro inquilino … E’ un padre con un bambino … Anche loro vanno al quinto piano. Partiamo. L’ascensore è strettissimo: le porte si chiudono e sembra di stare in una capsula spaziale,…”

Si presenta la figura paterna, un alleato di Marta che usa la “sublimazione” per sopravvivere e che condivide la stessa oppressione dell’ascensore, della griglia, della gabbia, del cubicolo, della moglie in termini chiari, della madre di Marta in termini ancora più chiari.

“… sembra di stare in una capsula spaziale che al posto di salire … ne esce fuori e balzella buffamente per il cortile, facendo un percorso alternativo … un grosso essere animato che compie il percorso a piedi.”

Il senso di oppressione si coglie tutto e specialmente nella “capsula”, un simbolo di grembo materno in gravidanza con tutto il potere della madre, un potere di vita e di morte. Non funziona più la “sublimazione” della figura materna o meglio della “parte negativa della madre” e allora la psiche nel sogno provvede a ridicolizzare il nemico: “balzella buffamente”,”un grosso essere animato”. La metafora della mamma con annessa satira è servita. Marta si sta difendendo in tutti i modi dalla “parte negativa della figura materna” secondo la teoria di Melanie Klein e secondo un processo di “splitting”, di scissione. Adesso si scinde anche Marta in una che assiste da dentro la capsula e soffre, in una che è fuori dalla capsula e ride. Da mettere in rilievo la capacità di Marta di tradurre in immagine i contenuti che formano la trama del sogno: la “figurabilità” si scatena nell’elaborare la capsula o il cubicolo per rappresentare il senso di costrizione attribuito alla madre.

“… un po’preoccupata e un po’ divertita … seguendo la goffa andatura con il corpo completamente aderito alla parete della capsula.”

Le strategie di Marta  sono due: con la prima riesce a staccarsi dalla figura materna e a razionalizzarla con ironia affermando la sua autonomia, con la seconda si costringe a subirla e a dipendere irrimediabilmente. Pur tuttavia è opportuno precisare che stiamo parlando non della mamma reale di Marta, ma del “fantasma” della mamma di Marta, di come Marta ha introiettato ed elaborato la figura materna nella sua parte negativa.

“A questo punto il tizio, il padre del bambino, inizia a molestarmi.”

Si presenta di botto il complesso di Edipo nella sua valenza erotica e si rompe l’alleanza del padre con la figlia o meglio della figlia con il padre. Il bacio, le mani, il bambino immobile e ignaro, l’incredulità, l’immoralità e altro di turpe e di incestuoso … questi  sono gli elementi atti a rappresentare la seduzione paterna e la “scena primaria”, il coito dei genitori immaginato dalla figlia o a cui ha assistito suo malgrado. Ma il punto più ilare del dramma edipico di Marta è questo:”Per di più in cortile davanti a tutti”. In termini pacati e in sequenze calibrate si consuma la pulsione erotica della  bambina Marta verso il padre, le sue fantasie edipiche, i suoi desideri erotici. Tutto è normale e nulla di nuovo si manifesta sotto il sole, per cui non mi dilungo.

“Riesco a sfuggire dalla capsula, senza andare al quinto piano. Inizio a gridare a tutti che quell’uomo ha cercato di molestarmi … ma quell’uomo è un clown … la comunità dei clown non mi avrebbe creduta e invece mi credono … scendono dai loro piani … e mi danno ragione.”

La liberazione dalle angherie materne è evitata per il momento anche senza il processo di difesa della “sublimazione”: “senza andare al quinto piano”. Marta, allora, aggredisce il padre incestuoso, ma il padre nei suoi vissuti non è soltanto oggetto di desiderio, ma è soprattutto un uomo triste e solo, il re dei pagliacci, quell’uomo che la gente crede che sia di buonumore, ma che nel suo cuore ha un dolore, il dolore dell’anaffettività, di chi non si è sentito mai amato. Il “clown” condensa la mancanza d’affetto e si compensa in maniera traslata facendo divertire gli altri per farsi accettare e per avere un ruolo, ma resta nel suo fondo più profondo un uomo solo. E’ presente nel ”clown” un complesso d’inferiorità che viene riscattato mettendosi al servizio del piacere degli altri. … Sogna Marta:“ma quell’uomo è un clown”, è un uomo che ha sofferto, un uomo frustrato negli affetti e nella dignità. Marta pensa di essere creduta o non creduta. Anche quelli come lui mi danno ragione. Marta oscilla come in precedenza tra l’essere approvata e l’essere disapprovata, tra il fuori la capsula e il dentro la capsula.

“Tra questi arriva anche G. in pigiama, mi ascolta e mi dà anche un bacio per calmarmi. Gli sono molto grata per questo.”

E’ Marta che fa il sogno ed è corretto scientificamente addebitare a lei la maternità del significato di tutto quello che produce, il sogno è tutto materiale di sua proprietà. Marta condanna il padre per le sue pulsioni erotiche, ma in effetti è Marta che condanna e assolve se stessa per le sue pulsioni edipiche verso il padre e per le sue frustrazioni affettive verso la madre. Ecco che nel finale arriva l’uomo giusto, un pagliaccio molto intimo, “in pigiama”, che non è il padre ma che è come il padre. Questo clown giusto e morigerato riesce a calmarla con un bacio e lei gli è grata come a un genitore.

Marta ha risolto il suo complesso di Edipo dopo avere rischiato di essere fagocitata dalla madre, ingombrante come una capsula, inimitabile e astiosa. Si rivolge al padre, di poco carattere perché non si è ribellato alla moglie, ma oggetto del suo ambiguo interesse. Comunque un uomo come il padre l’ha trovato e ha risolto il versante paterno, ma ha paura di identificarsi nella madre ed è alla ricerca della sua identità femminile, almeno di un completamento.

La prognosi impone a Marta di accrescere la consapevolezza sulla sua identità femminile e portare avanti il processo di autonomia psichica dalle figure genitoriali.

Il rischio psicopatologico si attesta nelle difficoltà a gestire il ruolo femminile e a oscillare tra i cambiamenti d’umore e qualche somatizzazione nevrotica dell’ansia.

Riflessione metodologica: ognuno è responsabile dei suoi sogni, anche se non può impedirli, gestirli e condizionarli. Il sogno è una “coazione a ripetere” e ha tratti nevrotici e psicotici. Il sogno è la manifestazione profonda di un mondo interiore e di una dimensione poco conosciuta, ma per questo motivo non bisogna ricorrere alla superstizione per spiegare quello che attualmente è inspiegabile. Si resta in attesa che la scienza incrementi la conoscenza. Passiamo oltre. La “scena primaria” si concretizza nell’immaginazione del coito dei genitori da parte dei figli; questo episodio può essere immaginato o vissuto e condiziona in maniera traumatica l’evoluzione della “libido” nella formazione del carattere. Nel sogno di Marta la descrizione è evidente anche se indiretta: “bimbo che resta immobile e ignaro” “come possa fare una cosa del genere di fronte a suo figlio”. Passiamo oltre. Una definizione della figurabilità: meccanismo deputato a tradurre in rappresentazione o immagine i contenuti che formano la trama dei sogni, effettuando una selezione tra le diverse rappresentazioni che traducono il vissuto psichico, il fantasma, il bisogno, il desiderio, il trauma. La “figurabilità” sceglie la migliore immagine concreta per un concetto astratto.

LA BELLA ADDORMENTATA NEL BOSCO … DI EDIPO

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“Patty sogna di dormire sul divano e di sentire quello che dicono le altre persone nella stanza.

Vuole rispondere , ma non riesce ad articolare le parole.

Vuole alzarsi, ma si sente bloccata e trema.

Sa che per svegliarsi subito una persona deve toccarla; ad esempio sua madre. Oppure deve sentire la sveglia, altrimenti ha bisogno di tanto tempo per svegliarsi.”

 

Il sogno di Patty è il classico prodotto di un momento evolutivo importante durante il complesso di Edipo e per la precisione l’identificazione della figlia nella madre dopo aver abbandonato le ultime mire espansionistiche sul padre. Patty procede a risolvere il senso di colpa verso la madre per aver tanto osato contro di lei e si allea doppiamente con il nemico di ieri assolvendosi e identificandosi al femminile in riparazione del “fantasma di castrazione”. E’ obbligo precisare che questo fantasma si manifesta in maniera diversa nelle bambine rispetto ai maschietti.

Passo per passo analizziamo il sogno.

E’ possibile “sognare di dormire”?  Certamente e sicuramente sì!  Ma cosa significa?  Esprime il bisogno psicofisico di ridurre la vigilanza della coscienza e di disimpegnarsi dalle mille attività e fatiche della vita quotidiana. Patty vuole ridurre le esigenze del “principio di realtà” e le funzioni dell’”Io” in una situazione particolarmente stressante e lasciarsi andare a un benefico rilassamento per la ricostituzione del suo sistema nervoso. Patty ricerca il crepuscolo della coscienza.

Il “divano” è un sostituto del bisogno di affidamento e rievoca l’universo femminile nel suo essere accogliente e intrigante.

“Sentire quello che dicono le altre persone nella stanza” attesta di un conflitto severo tra la funzione di vigilanza dell’Io che ascolta e il bisogno di disimpegnarsi dagli stimoli dell’ambiente che esigono, di cui si diceva in precedenza. I discorsi degli altri rappresentano le “proiezioni” di Patty: gli stimoli a tenersi sveglia per controllare la realtà che contrastano con il bisogno di affrancarsi dai conflitti e di lasciarsi andare.

A questo punto del sogno si presenta un “fantasma di castrazione” nella valenza dell’inanimazione: Patty “vuole rispondere, ma non riesce ad articolare le parole”, come se fosse scattato un segnale dentro di lei che le imponesse un blocco della parola e della comunicazione, un blocco che le ingiunge di non partecipare o meglio di partecipare a metà, ascoltando soltanto. L’incapacità ad articolare le parole è angosciante ed evoca l’immagine di una bambina bloccata nel contesto familiare e sociale, una bambina mortificata nelle sue genuine energie e nei suoi investimenti psichici. La “libido” è in netto stallo e Patty e in crisi. Una bruttissima sensazione quella vissuta da Patty, ma siccome non prevale l’incubo, ancora può dormire: l’angoscia è gestibile dal sistema economico e dinamico della psiche.

La “parola” è simbolo della Vita materiale e psichica, è entità divina e sacra dell’origine del Tutto, è Madre e Padre, è incarnazione dell’energia cosmica, è oggettivazione della “libido”, è comunicazione rassicurante, è un dono dei genitori e dei figli. “In principio era il Verbo, ed il Verbo era presso Dio ed il Verbo era Dio”: inizio del Vangelo di Giovanni. Si pensi al dramma di Patty nel non aver parole o peggio di aver parole e di non riuscire a partorirle, ad articolarle, a dar loro la luce.

Si arriva al punto più tormentato e tormentoso: Patty “vuole alzarsi, ma si sente bloccata e trema”. Ritorna il “fantasma di castrazione” in maniera aggravata. Dopo il blocco della parola, arriva il blocco motorio, un fantasma d’inanimazione  che impedisce il libero fluire delle energie vitali nel corpo e la loro libera espressione. Patty è consapevole che “per svegliarsi una persona deve toccarla”: serve uno stimolo esterno come autorizzazione a riprendere le normali funzioni della veglia. Si sveglia se la tocca la mamma o se suona la sveglia, stimoli che la conciliano con la realtà: due dimensioni diverse ma che hanno un nesso, una affettiva e una fantasmica. La “mamma” è un archetipo, un simbolo universale, rappresenta l’origine e l’amore della Specie, gli affetti, la protezione, le premure, l’emozione, la fantasia, gli stati crepuscolari della coscienza. La “sveglia” è un meccanismo freddo che misura il tempo spazializzandolo nel suo quadrante: un simbolo di evoluzione e di morte, quel tempo ingrato che imperterrito trascorre e ti porta alla fine. Nel sogno di Patty si evince un particolare momento evolutivo del conflitto edipico e nello specifico con la madre: la riconciliazione con la madre dopo il senso di colpa per averla discriminata e aver desiderato di sostituirla con il padre. Patty ha bisogno d’identificarsi nella madre per diventare donna e allora aspetta da lei la mossa di svegliarla a nuova vita e a nuova dimensione psichica, una definitiva crescita con la liquidazione del conflitto con i genitori e la possibilità di socializzare e ascoltare da sveglia, partecipando ai discorsi della gente che le vive attorno. La sveglia è l’altra soluzione, la meno auspicabile nel suo essere implicita: il tempo evolve e Patty matura psicologicamente in maniera innaturale. E’ preferibile la carezza della mamma che sveglia la sua femminilità e introduce la sua autonomia psichica alla coazione del tempo. Adesso Patty è emancipata dalle pendenze edipiche e si può dedicare alle relazioni sociali.

Questo è quanto.

La prognosi impone di accettare il bacio della mamma per l’ultima e definitiva volta, onde razionalizzare il “fantasma di castrazione” nella sua doppia valenza e liquidare la psiconevrosi edipica. Bisogna porre particolare attenzione alle energie bloccate che vanno investite negli affetti e che comunque non devono ristagnare.

Il rischio psicopatologico si attesta nella conversione isterica delle energie bloccate e nei disturbi psicosomatici. In particolare una psiconevrosi legata alla mancata risoluzione del conflitto con il padre e con la madre.

Riflessione metodologica: il sogno di Patty mi è stato trasmesso con il dubbio di essere un vissuto doloroso da sveglia o il ricordo effettivo di un sogno, un vissuto nella dimensione reale o nella dimensione onirica. La questione è stata risolta con le seguenti motivazioni. L’interpretazione del sogno verte sempre su un prodotto rammendato logicamente e comunicato da svegli, quindi, il sogno di Patty, classico sogno o blocco psicofisico più o meno cosciente, è sempre un prodotto psichico e può essere analizzato come tale. Del sogno nella sua integralità, del resto, noi perdiamo gran parte e allora, se consideriamo il sogno anche come una “fantasticheria” dietro lo stimolo del ricordo, è sempre possibile interpretare il “contenuto manifesto”. Il sogno di Patty fa pensare allo stato ipnotico, la normale dimensione del “pre-sonno” che tutti attraversiamo ogni volta che ci rilassiamo e ci accingiamo a dormire. Succede, infatti, nelle situazioni ipnotiche indotte per motivi terapeutici che si dia il comando di non muoversi e questa strategia funziona con i soggetti ipnorecettivi ossia con le persone che hanno una soglia di suggestione molto bassa e quindi sono sensibili alle ipnosuggestioni. Essere ipnorecettivo non significa avere una malattia psichica, ma in ogni caso è sempre meglio verificare l’esistenza di un disturbo della vigilanza e del sonno. Sull’ipnositerapia esistono molti limiti e perplessità e l’uso spettacolare della tecnica, fatto da ciarlatani anche in spettacoli televisivi, è deprecabile, per dirla con un eufemismo. Nel sogno di Patty si rileva, ancora, che gli stimoli reali, se fosse stata sveglia, non l’hanno destata e hanno consentito lo stato ipnotico. Altrettanto si può dire degli stimoli sognati da Patty, la gente che parlava nella stanza; non scatta l’incubo e il risveglio immediato perché il “contenuto latente” non coincide con il “contenuto manifesto”: la situazione onirica è rassicurante e prevale il bisogno di continuare a dormire. Da sognante o da desta l’interpretazione del sogno di Patty non cambia ed è anche bella perché rievoca le fiabe della “bella addormentata nel bosco” e di “Biancaneve”, tranne che in quei casi era il principe a risvegliare la donna alla vita sessuale adulta con un bacio, alla consapevolezza della “libido genitale”, per dirla con termini  freudiani.

IO… E  MIO  PADRE

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“Ero in una strada di campagna … di sassi … molto stretta … in macchina con mio figlio a fianco …

C’erano molti cavalli … liberi … impazziti …

Io correvo … e cercavo di schivarli …

Ne ricordo uno … magro nero … in mezzo all’erba …

Poi sono arrivata in una casa …

Il padrone era li … noncurante …

Io mi sono fermata … l’ho avvisato …

Lui quasi noncurante … ha chiuso il cancello …  e io ho pensato … quei cavalli hanno bisogno di libertà…

Nel sogno io non avevo paura.”

 

Questo è il sogno di Annalisa: una poesia naturale, una lirica veramente bella che mi piace definire “quando il sogno diventa poesia”.

Il “contenuto manifesto” è talmente incalzante che ho voluto trascriverlo così come Annalisa l’ha formulato, scena dopo scena, sequenza dopo sequenza, puntini di reticenza dopo puntini di reticenza. Questi ultimi lasciano tanto spazio al non detto, a ciò che non è possibile dire ma si può soltanto liberamente immaginare.

Andiamo alla ricerca del “contenuto latente” decodificando i simboli, per poi evincere la psicodinamica implicita.

La “strada di campagna” rappresenta la ricerca di una soluzione a un arduo problema o a un delicato conflitto: ”sassi”, “molto stretta”. Annalisa ha una realtà particolare e una funzione importante in atto, è mamma premurosa e protegge suo figlio: “in macchina con mio figlio”, “a fianco”, una relazione speciale, quasi una naturale simbiosi alla luce del significato neurovegetativo della “macchina”, il grembo materno e la funzione genitale.

Il “cavallo” è simbolo classico del padre, vedi “il caso clinico del piccolo Hans” di Freud, sia nelle nevrosi fobiche e sia nei sogni, sia da svegli e sia da dormienti. In ogni caso il cavallo evoca e racchiude l’universo maschile, la forza e l’eleganza della persona e del personaggio specifico, il padre. Annalisa si sta approcciando con cautela e delicatezza alla figura paterna e ne vede “molti” di “cavalli-padri”, li vede “liberi” nella loro espressione, li vede “impazziti” nel loro derogare dalle regole, direi quasi nella loro sacralità e nella loro genialità creativa. Ammirazione e fascino contraddistinguono questo approccio di Annalisa con la figura paterna, un approccio che non deve essere stato sempre lineare e privo di conflitti, ma un rapporto che si è amorevolmente composto come nelle migliori combinazioni affettive.

Annalisa ammira e teme questi “molti cavalli liberi e impazziti”, ha un vissuto ambivalente d’amore e odio nei confronti dei padri così liberi, così folli, così fascinosi; il “cercavo di schivarli” esprime il suo bisogno di un rapporto esclusivo di ammirazione e di contemplazione senza lasciarsi coinvolgere in prigioni ambigue e in catene dorate come nelle migliori sceneggiate napoletane.

Ecco l’uscita dal generico e il profilarsi del padre di Annalisa: “ne ricordo uno”, “magro nero”, “in mezzo l’erba”. Nella realtà in atto,“in mezzo l’erba” esiste il ricordo di un bel padre, fisicamente caratterizzato: suo padre in carne e ossa.

Ecco che, dopo averlo riportato alla memoria, Annalisa lo riporta al presente,  il presente come presenza nella psiche di Annalisa: “sono arrivata in una casa”. Il padre è nella sua interiorità, nella sua storia esistenziale, nella sua evoluzione di donna e di madre: l’immagine, resa con poche parole, ha il senso del “sublime” matematico e astronomico di kantiana memoria.

Il padre interiorizzato è un padrone. Dopo la bellezza e la fierezza emerge il vissuto di un uomo duro e forte, un uomo di potere, un’autorità autoritaria e non autorevole; l’altra caratteristica del padre di Annalisa è la “noncuranza”, un attributo anaffettivo, fatto di distacco e di freddezza. Così si è difesa Annalisa dal fascino paterno, attribuendo al padre i tratti che ha usato lei per non restare coinvolta in un amore impossibile e innaturale, la “noncuranza”. Trattasi del solito, quasi famigerato, complesso di Edipo e nello specifico la relazione con il padre, dal momento che non si affianca nel sogno alcuna figura femminile al di là di quella della protagonista.

Annalisa sa del suo trasporto pericoloso nei confronti del padre e si è “avvisata avvisandolo”, non ha esternato il grande amore, ma lo ha ricambiato con la stessa freddezza di quel padre padrone che occupa un posto importante nella sua formazione psichica e nel suo modo di relazionarsi con i suoi uomini, in questo caso suo figlio e suo padre. Con il primo un attaccamento materno fortissimo e con il secondo un distacco affettivo per paura di essere coinvolta in un malessere senza fine e senza fini. Il “padre-cavallo”, avvisato dalla figlia della presenza di cavalli folli e liberi in mezzo ai prati, è mezzo salvato, recita un proverbio che tanto si addice al caso di Annalisa. E’ soprattutto il padre di Annalisa a incarnare gli attributi della bellezza, della libertà e della creatività.

Annalisa proietta nel padre la sua noncuranza, la sua risoluzione del complesso di Edipo e ha “chiuso il cancello”, ha definito gli ambiti del riconoscimento del padre come un uomo libero, felice e folle: ”quei cavalli hanno bisogno di libertà”. La legge del padre buono e migliore, quello di Annalisa, è quella che lei ha introiettato. Il padre e anche gli uomini hanno bisogno di libertà, visto che manca la mamma. Annalisa si è identificata nel padre più che nella madre: “ubi maior, minor cessat” dicevano i nostri progenitori latini, “dove c’è il maggiore, il minore decade”. Questa identificazione contrastata ha portato Annalisa a incarnare la figura mitologica di Afrodite, la dea dell’erotismo nata dalla fusione dello sperma di Urano con la schiuma dell’onda del mar Egeo dopo che il figlio Crono aveva evirato, per l’appunto, il padre.  Annalisa ha maturato dalla sua relazione con il padre e dalla prevalente identificazione nei suoi tratti una collocazione di potere verso il maschio e verso il maschile. Lo vuole maschio e bello come il padre, autorevole all’incontrario del padre.

Nel sogno non c’era paura, a conferma che Annalisa ha parlato di sé tirando fuori le sequenze ben conosciute del suo film interiore in riguardo al suo rapporto con il padre e al fantasma psichico collegato.

La prognosi impone di mantenere questa buona risoluzione del complesso di Edipo, fatta del riconoscimento del padre e della madre e nel caso specifico d’identificazione nelle parti migliori del padre e della madre. Annalisa, in tal modo, ha usato la libertà consentita dalla situazione di figlia. Non poteva identificarsi totalmente nel padre e negare la madre, pena la negazione del suo essere femminile.

Il rischio psicopatologico si attesta nella conflittualità con i maschi e nelle difficoltà relazionali, affettive e sessuali: la sindrome della “virago” o di Afrodite può degenerare nella solitudine anche se crea fascino e paura nell’universo maschile.

Riflessione metodologica: “quando il sogno diventa poesia”. Non dimentichiamo che la funzione onirica condivide con l’arte, gran parte dell’attività estetica, l’uso dei meccanismi del “processo primario” e l’effetto  catartico: purificazione dall’angoscia. Poeta deriva dal greco e significa “creatore”, una creazione non dal nulla ma da un fare, “poiein”, e da un qualcosa, a testimonianza che l’essere vivente uomo può elaborare vissuto su vissuto, intessendoli in oggetti estetici attraverso un fare prevalentemente a imitazione della Natura come volevano i filosofi greci. Il sogno è la massima democrazia in riguardo alla poesia, perché tutti siamo artefici inconsapevoli o coatti dei nostri sogni. Tutti sogniamo, anche quelle persone che dicono di non sognare soltanto perché non ricordano i loro sogni. Il sogno è l’attività mentale del cervello durante il sonno. Soltanto la morte cerebrale conclude il nostro pensare e il nostro sognare. Ma sarà proprio così? Anche lo stato di coma è una forma di sonno e di sogno. O forse è una nuova dimensione del percepire, una nuova forma del sognare? Certo che il coma comporta un’attività, anche minima, del cervello e si traduce in un percepire a livello subliminare ossia sotto la soglia della coscienza.