A PROPOSITO DI MIA MADRE

TRAMA DEL SOGNO

“Salve!

Avrei bisogno di un aiuto per una interpretazione di sogni che ultimamente sto facendo.

Sogno molto spesso una mia vicina di casa che ho conosciuto per pochi mesi e il 2 febbraio 2019 e’ morta per malattia: aveva 74 anni.

Diciamo che da subito ho incominciato a sognarla. La prima volta che era arrabbiata con me però era nel corpo di un’altra persona, poi un’altra volta, che ora non ricordo, in fine martedì 20 agosto 2019 e giovedì 22 agosto 2019.

Il martedì l’ho sognata di pomeriggio. Eravamo in un hotel che gestiva lei, era in piedi e poi si è messa a sedere. Parlavamo con altre persone, me compresa. Eravamo tutti seduti e io dicevo a questo ragazzo: “mettiti la maglietta di Marcello burlon, visto che l’hai pagata 200 euro”. E la signora morta (la mia vicina) rispose: “vedi, tanti genitori fanno spendere dei gran soldi per cose di marca che potrebbero fare a meno”.

Questo è di martedì 20 agosto.

Poi l’ho sognata ieri giovedì 22 agosto. Era tornata a casa e io dissi vicino ad un’amica: “andiamo a trovare Carla, (la mia vicina morta), so che è tornata”. Entrammo a casa sua e la trovai in piedi vicino ad una persona seduta al tavolo. La mia amica le disse: “ma Carla ti vedo molto bene, sei stata una grande, hai sconfitto una malattia che è difficile guarire”.

Lei sorrise e a quel punto si è rivolta a noi dicendoci: “vi presento un amico, si chiama Simone Jori”. Io rimasi meravigliata e guardai la mia amica dicendole: “eppure questo cognome non mi è nuovo. Mia madre di cognome fa Jori”. Dopo ci disse la Carla:”volete qualcosa da bere?” Camminò fino ad arrivare alla vetrina per prendere dei bicchieri.

Poi mi sono svegliata.

Se può aiutarmi ad interpretare questo sogno, le sarei grato, grazie.

Premetto che aveva altri vicini di casa e che conosceva da anni. Io da solo pochi mesi, ma viene solo da me. Loro non l’hanno mai sognata e le dirò di più. Io il mercoledì 21 andai a farle visita al cimitero e nel sogno ero consapevole che lei era morta perché volevo chiederle come mai stava lì e le volevo dire che io ero andata a trovarla al cimitero e le avevo portato dei fiori.”

Il sogno non è firmato. Chiamerò la protagonista Anonima.

INTERPRETAZIONE

CONSIDERAZIONI

La signora Carla è il risultato dell’operazione di difesa dall’angoscia del meccanismo psichico dello “spostamento”, a metà tra la “traslazione” e la “proiezione”. Anonima vive tramite la signora Carla i suoi vissuti e i suoi “fantasmi” nei riguardi della madre. “Mia madre di cognome fa Jori” è il chiaro indizio dello “spostamento” della figura materna operato dalla figlia nella signora Carla. Il sogno espone una serie di esperienze vissute e contrassegnate da un blando, quanto normale, senso di colpa.

Sogno molto spesso una mia vicina di casa che ho conosciuto per pochi mesi e il 2 febbraio 2019 e’ morta per malattia: aveva 74 anni.”

Si rileva la precisione delle date e degli eventi, ma soprattutto la “traslazione” della figura materna nella vicina di casa. Anonima sta sognando la madre e i suoi vissuti profondi nei confronti di questa figura significativa della sua formazione psichica: “sogno molto spesso”.

Diciamo che da subito ho incominciato a sognarla. La prima volta che era arrabbiata con me però era nel corpo di un’altra persona, poi un’altra volta, che ora non ricordo, in fine martedì 20 agosto 2019 e giovedì 22 agosto 2019.”

Degno di nota ancora la precisione maniacale dei tempi e delle date, a conferma di una difesa psicologica dall’emersione di contenuti traumatici nel sogno e nella veglia, classico meccanismo di difesa delle persone angosciate che nell’esercizio della memoria trovano la scorciatoia per non soffrire ricordando eventi ed emozioni più consistenti e ad alto tasso emotivo e sentimentale. “Che ora non mi ricordo” attesta di una “rimozione” difensiva, come si diceva in precedenza. “Arrabbiata” traduce sensi di colpa di Anonima nei riguardi della madre, vissuti che inevitabilmente ci stanno tutti. “Nel corpo di un’altra persona” attesta dell’uso dei meccanismi psichici di difesa dello “spostamento” e della “traslazione”: sogna la madre nel corpo di un’altra persona a lei similare e compatibile.

Il martedì l’ho sognata di pomeriggio. Eravamo in un hotel che gestiva lei, era in piedi e poi si è messa a sedere. Parlavamo con altre persone, me compresa. Eravamo tutti seduti e io dicevo a questo ragazzo: “mettiti la maglietta di Marcello burlon, visto che l’hai pagata 200 euro”. E la signora morta (la mia vicina) rispose: “vedi, tanti genitori fanno spendere dei gran soldi per cose di marca che potrebbero fare a meno”.

La madre di Anonima era una donna che dava il giusto valore ai soldi e sapeva come spenderli, era modica e modesta. La madre che gestisce un hotel attesta della socievolezza e delle abilità relazionali, della sua disposizione a esserci ma non a coinvolgersi. Si ribadisce la “traslazione” della madre in questa signora benefica Carla. Il sogno snoda dei ricordi e associa qualche caratteristica e qualche episodio riguardante la madre.

Poi l’ho sognata ieri giovedì 22 agosto. Era tornata a casa e io dissi vicino ad un’amica: “andiamo a trovare Carla, (la mia vicina morta), so che è tornata”. Entrammo a casa sua e la trovai in piedi vicino ad una persona seduta al tavolo. La mia amica le disse: “ma Carla ti vedo molto bene, sei stata una grande, hai sconfitto una malattia che è difficile guarire”.

Anonima offre in sogno un altro bozzetto e nello specifico la rievocazione di una brutta malattia superata dalla madre nel corso della sua vita. La figlia apprezza il coraggio e la capacità della madre di non lasciarsi andare agli eventi traumatici e tragici che possono accadere durante la vita. Trasla nell’amica quel complimento che avrebbe voluto possibilmente dire lei stessa a sua madre. Anonima ha una buona capacità di usare i meccanismi onirici dello “spostamento” e della “traslazione” in maniera di non coinvolgersi in prima persona per non agitarsi e svegliarsi.

Lei sorrise e a quel punto si è rivolta a noi dicendoci: “vi presento un amico, si chiama Simone Jori”. Io rimasi meravigliata e guardai la mia amica dicendole: “eppure questo cognome non mi è nuovo. Mia madre di cognome fa Jori”.

Ecco il disoccultamento di cui si diceva prima. Appare la figura materna, “mia madre di cognome fa Jori”. La signora Carla è pari pari la signora Jori, la madre di Anonima. La figlia ha rielaborato in sogno la figura materna e in maniera reiterata per razionalizzare la morte e per espiare i sensi di colpa che non ha potuto elaborare e saputo lenire quando la madre era in vita.

Dopo ci disse la Carla:”volete qualcosa da bere?” Camminò fino ad arrivare alla vetrina per prendere dei bicchieri.”

Non è ancora finita la psicodinamica perché la giusta conclusione è una cameratesca bevuta. Anonima sogna in maniera discorsiva e narrativa ed elabora pochi simboli in questo suo quotidiano sognare. Sogna come mangia, nel senso positivo della genuinità della persona che non è acculturata e che quindi descrive nel dormiveglia la trama che progressivamente costruisce.

Infatti questo sogno è stato fatto durante il risveglio e Anonima ha messo insieme le pezze di quella relazione importante che ha vissuto con sua madre.

Premetto che aveva altri vicini di casa e che conosceva da anni. Io da solo pochi mesi, ma viene solo da me. Loro non l’hanno mai sognata e le dirò di più. Io il mercoledì 21 andai a farle visita al cimitero e nel sogno ero consapevole che lei era morta perché volevo chiederle come mai stava lì e le volevo dire che io ero andata a trovarla al cimitero e le avevo portato dei fiori.”

Anonima ha aspirato a essere la figlia prediletta dalla mamma e segue un ragionamento ben preciso e lineare che tende a dimostrare che la “razionalizzazione del lutto” è anche avvenuta, “consapevole che lei era morta”, ma spesso associa altre figure materne con la precisa intenzione di esprimere il suo desiderio di avere la madre ancora viva. Il sogno si conclude con l’esaltazione del sentimento della pietas”: “ero andata a trovarla al cimitero e le avevo portato dei fiori.”

Di fronte al mistero della morte e al “fantasma” psichico la semplicità dei vissuti è veramente sorprendente nella sua bellezza. Sarai un potente altolocato o un misero senzatetto, la democrazia psichica esige il medesimo sentimento di rispetto e devozione.

Il sogno di Anonima è scritto in maniera chiara e scorrevole. La ripetitività di alcuni temi non toglie merito al dire e al narrare della protagonista. Anonima ha fornito elementi psico-culturali universali nello scorrere delle righe che la individuano con il nome ben preciso di figlia.

FRUTTI ROSSI RETATI

TRAMA DEL SOGNO

“Estraevamo con qualche difficoltà degli strani frutti rossi retati delle dimensioni di una mela dal nostro ombelico.

Mio padre ci aveva spiegato il modo di farlo. Per lo più bisognava insistere e soprattutto crederci.

A un certo punto sono seduto sul divano. Mio fratello nudo sale sul ventre di mia madre nuda a cavalcioni come a compiere una specie di copula che non era una propriamente una copula.

Trovo il corpo di mia madre assai giovane.

Giro gli occhi altrove. Poi mi sposto nell’altra stanza dove sulla mia scrivania vedo un cesto di quei frutti. Hanno al centro, nel punto in cui dovrebbe trovarsi il picciolo, una piccola chiazza bianca perlacea, simile ad una stomatite.

Mi avvicino goloso col pensiero di mangiarli, ma pensando all’improvviso al luogo da cui provengono provo un sottile disgusto.”

Gregorio

INTERPRETAZIONE DEL SOGNO

“Estraevamo con qualche difficoltà degli strani frutti rossi retati delle dimensioni di una mela dal nostro ombelico.”

Ecco il portentoso meccanismo onirico della “figurabilità” in azione!

Gregorio elabora una scena di parto, la trasla nell’ombelico al posto della vagina, rappresenta il feto con “strano frutto rosso retato delle dimensioni di una mela”. Il meccanismo funziona ed è creativo, poetico per la precisione, un’immagine che contiene un bel “fantasma” che risponde alla domanda universale: “come nascono i bambini?” Gregorio si fa assistere nel sogno, particolarmente scabroso nella sua semplicità, da altre persone, per mantenere un certo equilibrio nervoso e per non svegliarsi cadendo nell’incubo: la coincidenza del “significato latente” e del “significato manifesto”. Notare, ancora, come la figurabilità onirica rappresenta il feto: “frutto rosso retato” e la vagina nello “ombelico”, l’organo simbolico del potere della madre.

Mio padre ci aveva spiegato il modo di farlo. Per lo più bisognava insistere e soprattutto crederci.”

Ecco il padre, colui che insegna l’educazione sessuale ai figli, “ci aveva spiegato” come nascono i bambini e anche come si fanno i bambini, “il modo di farlo”. Insomma, il padre di Gregorio ha operato nel migliore dei modi una forma di educazione sessuale, ottemperando beneficamente al suo ruolo. L’elaborazione poetica appartiene al figlio, Gregorio per l’appunto. “Per lo più bisognava insistere e soprattutto crederci” apre lo scenario al coito e alla reiterazione dello stesso, al fine di avere un buon esito per tanta prestazione sessuale. “Crederci” lo decodifico dal latino come “affidarsi” a se stessi e alla donna con cui si è in relazione. Insomma: se vuoi un figlio, procedi con sicurezza e fiducia, sicut pater docet e come figura di riferimento privilegiata specialmente per un figlio maschio. Tutto bene fino a questo punto.

Che il sogno ce la mandi buona!

A un certo punto sono seduto sul divano. Mio fratello nudo sale sul ventre di mia madre nuda a cavalcioni come a compiere una specie di copula che non era una propriamente una copula.”

Dopo l’insegnamento paterno e l’autorizzazione a procedere arrivano i nostri a cavallo di un caval: la madre dal ventre nudo, il fratello nudo a cavalcioni.

Si copula o non si copula?

Gregorio guarda se stesso “seduto sul divano” perché si proietta nel fratello e realizza con la dovuta censura il desiderio libidico di avere dalla madre l’insegnamento sessuale opportuno e concreto. Il tutto dopo avere avuto la licenza didattica dal padre. E’ assolutamente normale e giusto che ogni figlio e ogni figlia si chieda il perché della censura concreta dei genitori in riguardo alla sessualità e all’erotismo, in riguardo alla vita del corpo neurovegetativo. Gregorio procede con cautela morale e si “sposta” sul fratello. Non poteva essere una “copula” vera e propria perché sarebbe stato un incesto e il “Super-Io”, individuale e culturale, non sarebbe stato davvero contento.

Vediamo dove va a parare il nostro eroe puritano.

Trovo il corpo di mia madre assai giovane.”

Che bella immagine!

Che bel vissuto!

La mamma bella e il desiderio bello del corpo vivente sono recuperati dall’età in cui il figlio aveva l’età giusta per desiderare sfacciatamente con pudore. Da bambino Gregorio ha desiderato il corpo della mamma. Freud lo chiamò “complesso di Edipo” e costruì un mare di teorie sopra tragedie antiche e moderne. Immarcescibile questa “posizione psichica” dell’infanzia in universale, al di là delle razze e del censo, al di là delle ipocrisie e delle verità filosofiche, al di là del gusto e del sapore.

Guai al bimbo e alla bimba che non hanno desiderato fisicamente il padre e la madre!

Quasi in un nuovo vetusto e attuale comandamento si coniuga questo “desidera e riconosci il padre e la madre” per avere anche una fausta vitalità sessuale all’interno di una armonica “organizzazione psichica”.

Giro gli occhi altrove. Poi mi sposto nell’altra stanza dove sulla mia scrivania vedo un cesto di quei frutti. Hanno al centro, nel punto in cui dovrebbe trovarsi il picciolo, una piccola chiazza bianca perlacea, simile ad una stomatite.”

Rimozione” e “spostamento” sono due ben precisi “meccanismi di difesa” dall’angoscia di aver tanto peccato nel pensiero e non nell’opera: giro gli occhi altrove” o non ci rifletto e dimentico e “poi mi sposto”, dopo il fratello, “sulla mia scrivania”, mi riapproprio dell’alienato in maniera delicata e compatibile al mio vissuto psichico e ai mie “fantasmi” edipici. Ricordo che il “fantasma” è una rappresentazione primaria della realtà psichica, il nostro modo infante e bambino di pensare che non si abbandona mai, neanche dopo il benefico avvento della razionalità, un pensiero fantasioso e caldo oltremodo ricco di allucinazioni e di emozioni, una modalità onirica di inquadrare i propri vissuti, un essere poeti e “criatori”, come diceva Giambattista Vico. Insomma il “fantasma” è una rappresentazione della realtà psichica sempre e in ogni caso. “L’altra stanza” in cui Gregorio si sposta, quella dove è posizionata la “scrivania”, rappresenta l’attività razionale adulta, quella con cui ha proprio razionalizzato i suoi “fantasmi edipici”, le rappresentazioni fortemente emotive e simboliche delle sue varie relazioni con i genitori e nello specifico la madre. “Quei frutti” sono le rappresentazioni simboliche del feto con tanto di cordone ombelicale: “Hanno al centro, nel punto in cui dovrebbe trovarsi il picciolo, una piccola chiazza bianca perlacea, simile ad una stomatite.” Sono in un “cesto” che rappresenta simbolicamente il grembo materno, l’apparato genitale femminile, il sistema ovarico riproduttivo. Ricordo che il cordone ombelicale è il tramite che lega il figlio alla madre e che dopo il parto si taglia ma non si scinde il rapporto simbiotico psichico con l’augusta genitrice. Io sono ancora affetto da un meraviglioso “complesso di Edipo” e ho un altrettanto meraviglioso rapporto con mia madre, ho un cordone ombelicale ancora ben funzionante e attivo. Di mia madre, fuori di me, conservo la reliquia nel cimitero di Siracusa. Ma questo è tutto un altro discorso e un altro discorrere.

Via con il sogno di Gregorio!

Mi avvicino goloso col pensiero di mangiarli, ma pensando all’improvviso al luogo da cui provengono provo un sottile disgusto.”

Ecco la gola e i suoi peccati, ecco la vitalità sessuale, ecco l’erotismo, ecco il corpo campo d’amore, ecco la “libido” e l’energia vitale di Dioniso e di Sigmund, di Darwin e di Nietzsche e di Bergson. “Goloso col pensiero” ossia il sistema neurovegetativo e il sistema nervoso centrale, la vitalità e la razionalità, l’emozione e la ragione, Dioniso e Aristotele, Giordano Bruno ed Hegel, la poesia e la filosofia, l’essere umano, il vivente per quello che restrittivamente di esso conosciamo e possiamo dire. Dell’altro e di altro non so fin adesso, ma sto cercando con la lanterna di Diogene, sto ricercando con il metodo di Aristotele e di Renè Descartes.

Convergo sul sogno di Gregorio e analizzo “ma pensando al luogo da cui provengono”, l’ombelico secondo “Gregorio padre” e l’apparato genitale secondo la scienza, “provo un sottile disgusto”. Ancora un “pensando”, anzi un “ripensando” leopardiano, la ragione fredda in atto che stacca dalle emozioni e le abbandona pensando di tenerle sotto controllo e senza sapere che ciò che butti dalla porta ti rientra dalla finestra, come la tanta spazzatura che inonda la mia città greca. Ancora ritorna l’emozione del “sottile disgusto”, un gusto emotivo contrastato e contrapposto, una guerra di gusti, quello emotivo e sensoriale e quello razionale e morale, l’eterna diatriba occidentale e psicoanalitica tra Es e Io alleato del Super-Io in questo caso. E’ questo lo psicodramma onirico di Gregorio, l’essere in conflitto con se stesso e nello specifico tra le sue istanze psichiche della vita istintiva ed emotiva, “Es”, della vita censoria e morale,”Super-Io”, della vita razionale e discernitiva, “Io”.

Mi fermo e consegno quanto emerso dal prodotto psico-poetico di Gregorio.

OGNI TRENO MI PORTA DA TE

Croce sulle spalle.
Corona di spine.
Cadde una prima volta.
Parlò con la madre.
Cadde una seconda volta.
Simone lo soccorre.
Veronica lo asciuga.
E una terza.
Consola le pie donne.
Si affida al Padre.
In croce.
Golgota, chiodi, sete, aceto, invocazione, abbandono.
Elì, elì, lama sabactani!
Il cielo si fa plumbeo dall’ora sesta all’ora nona,
la terra trema.
Il Padre non ti ha abbandonato.
Ogni stazione è stata raggiunta e intensamente vissuta,
ogni treno mi porta da te.
Il sepolcro era aperto all’alba del terzo giorno.
Un angelo vi sedeva accanto.
La madre si avvicina
e chiede dove hanno portato il figlio.
Ha i profumi e le bende per onorare il corpo ferito.
“Colui che tu cerchi,
o donna,
è risorto,
ha sconfitto la Morte
e ora siede alla destra del Padre.”
E noi miseri mortali?
Che sarà di noi?
Ogni treno mi porta da te.
Il dolore avvicina,
l’amore è sempre tragedia.
Dolore, amore, amore, dolore.
Che ci hanno fatto?
Da soli deposti nel sepolcro.
Ultima stazione.
Vittime di un inganno,
siamo umani,
siamo in balia dell’attesa di un ritorno,
un venerdì santo granitico in mezzo a tutta questa precarietà.
Improvvisavano
e hanno ucciso diecimila anziani questi assassini di merda,
questi impostori del circo,
questi imbecilli di sempre.
Giocavano,
giocavano al rimbalzo da un canale all’altro dell’etere tossico.
Non hanno vaccinato subito i vecchi,
quelli che viaggiavano dai settanta ai settantacinque.
Erano tutti amici miei.
Li conoscevo tutti.
Li sentivo addosso.
Erano sessantottini.
Sfogliavo i loro petali uno per uno,
giorno dopo giorno.
Eran belli e forti,
ma sono morti.
Una strage di Stato,
un’altra strage di Stato.
Sul crinale del Golgota e di Bergamo
le ombre delle croci sono le insegne
per precipitare nel baratro della vergogna,
nel precipizio dell’ignominia,
nel grande peccato mortale.
Ogni treno mi porta da te.
Intanto,
intanto tutt’intorno sboccia la lussuria della primavera.
Eppur io amo.

Sava

Carancino di Belvedere, 01, 04, 2021

DALL’EPISTOLARIO DI ANTONIA SOARES

ANTONIA, L’UNICA E LA DOPPIA

Ciao Fernando,
sono Antonia e ho deciso di scriverti
perché ho bisogno di fermarmi un attimo.
In questi giorni corro troppo con il cervello,
quasi il galoppo di uno stallone di razza.
Penso all’euro,
alla fesa di tacchino,
al telefonino da mettere in carica,
al culo a mandolino di mia sorella,
al teatro con i burattini e le marionette,
alla zucca gialla ricca di carotene,
alla cieca fortuna che ci vede da dio.
So pensare a tutte queste cose
e mi ricordo anche di spegnere la moka
prima che il caffè venga su come uno zunami
e inondi il piano della cucina.
Penso,
mi ricordo anche di portare dentro la legna per la stufa
e di svuotare la vaschetta della cenere.
Penso, ma non sono.
Mi ricordo, ma non sono.
Dentro di me sono confusa come una mentecatta
e di per me stessa mi sento sguazzata come una lattina di coca cola.
Non so pensare o capire come sto,
non riesco a mettere in ordine le mie idee.
Ma cosa voglio?
Non so pensare al lavoro,
alla comunità alloggio,
non so pensare a un programma,
se un programma io posso pensare.
A volte sento che il mio corpo funziona,
funziona anche bene se vogliamo,
ma c’è un nastro in testa
che mi frastorna e mi rimescola,
un nastro di pensieri come un film,
una pellicola di celluloide
che scorre girandomi e rigirandomi dentro.
Nessuna immagine si può fermare
perché il nastro deve scorrere e non si può fissare.
E così so
che di corsa sono finalmente andata in farmacia
a prendere lo Xanax per mia madre e l’Efferalgan per me,
che si sono tenuti cinquanta centesimi di resto
e che mi hanno fottuta con questo maledetto euro che non capirò mai
perché la morte della lira mi ha mandato in confusione.
E così so
che alle tre di notte mi sono bevuta una moka express,
che ieri ho fumato meno di un pacchetto e mezzo di sigarette,
che venticinque euro non corrispondono alle cinquanta mila lire
che mio padre mi dava per il lavoro in serra,
che la fesa di tacchino non equivale al petto di pollo
soltanto perché costa meno.
Ma io dove sono?
Dove sono?
Io sono dietro,
dietro i pensieri,
dietro il corpo,
dietro la faccia,
dietro questa facciata esterna di benessere,
dietro le faccende quotidiane,
dietro le attività del centro diurno,
ma sono così dietro che mi sono persa di vista.
Ho bisogno di sentire,
di sentirmi,
di fermare questo film,
questo nastro che scorre indipendentemente da ciò che faccio,
ma che è così confuso
che non riesco a proiettarlo in uno schermo grande
per poterlo focalizzare.
Ci sono due Antonie,
una fa e partecipa attivamente alla vita quotidiana
e in qualche modo funziona,
e una sta dietro la fronte
perché non le è possibile stare altrove.
Questa Antonia qualche volta scende da dietro la fronte
e va tra la pancia e il cuore.
E allora un senso di tristezza la invade
e tutto sa di tristezza,
ma questa Antonia non sa darle un nome,
non sa capire.
E tutto diventa così pesante,
così inumano da uscire fuori di testa e fuori dalla testa.
Le pareti della mia stanza sono tutte bianche e senza quadri,
ma c’è una minuscola macchiolina nera
che tempo fa ho fatto con i colori a olio
e io qualche volta sono lì,
sono in quella macchiolina
e sono quella macchiolina.
La cosa mi aiuta a sentire che non tutto funziona
perché c’è sempre qualcosa di nero.
Quella macchiolina è più nera di tutti i miei vestiti
che sono sicuramente più grandi
ma che ormai sono diventati parte di un esterno
e che quindi io non sento più come miei
perché tutto di me fa parte di un esterno forse ancora sconosciuto.
La mia posizione non è ancora definita in questo esterno
e parto sempre svantaggiata.
Leader o merda?
La leader non sono capace di farlo,
ma mi piacerebbe,
mi piacerebbe un casino.
La merda sono capace di farla,
ma non mi piace,
non mi piace per niente.
O forse si è comunque e sempre unici
senza correre il rischio di perdersi nell’omogeneità di tutti gli altri.
La partecipazione è comunque e sempre un rischio,
ci si può perdere come sta succedendo a me,
non ci si trova più,
non ci si sente più
perché importante è stare con gli altri,
sentire gli altri,
essere con gli altri nelle attività mie e degli altri.
Ma io,
io quella di sempre,
quella che conosco o credo di conoscere da anni,
quella che sente l’angoscia e che vive il nero come unico spazio,
quella che è tutto e quella che è niente,
quella che preferisce essere niente
perché il niente è l’unica cosa possibile,
un’assenza assoluta eppure una presenza,
un essere in tanti da tutte le parti senza esserlo,
un eppure niente,
insomma io dove sono?
Si, forse mi trovo in una posizione scomoda,
forse la mia è una posizione scomoda,
ma è meglio così sicuramente,
perché adesso la mia posizione è più funzionale
o comunque adesso ho più possibilità di arrivare da qualche parte.
Partecipare alla vita è sempre più funzionale,
perché la vita è fatta per essere vissuta e non per essere sfibrata,
ma credo che per vivere la vita
bisogna essere in equilibrio con se stessi e con gli altri
e io non sono in equilibrio con me stesa
e forse non lo sono nemmeno con gli altri.
Non lo sono con me stessa
perché comunque sento che c’è una parte di me che sta dietro a tutto
e che forse si fa avanti solo qualche volta quando scrivo,
quando mi sento triste o nervosa,
quando mi vengono le mie cose,
quando vado al supermercato per comprare la fesa di manzo.
Forse è così che devono andare le cose,
devo trovare a quella parte di me uno spazio adeguato e compatibile,
devo trovarle la misura giusta,
devo lasciarla vivere qualche volta e nella giusta misura
perché non vada a invadere tutto.
Questa invasione potrebbe essere distruttiva,
se non per me, per le relazioni che ho con gli altri.
Ma sai una cosa?
Qualche volta mi manca questa parte di me,
perché sono io comunque
e questa sua presenza in sordina dietro i pensieri,
dietro la pancia a botte,
dietro il sedere a cofano,
non mi fa stare bene
perché mi fa sentire nell’esigenza di sentire,
di sentire più me stessa,
di sentire dove sto andando e non di andare e basta,
perché io e lei siamo corpo e mente, materia e spirito
e non può funzionare il corpo mentre la mente si sente triste,
non può funzionare la materia mentre l’anima si sente in fallo.
La mia mente è divisa tra due correnti di pensiero,
una di tutti i giorni che nasce con l’euro e che sembrerebbe funzioni,
una che sta dietro e osserva
e che forse si sente anche trascurata.
La mia anima è malata di peccato
perché la mia materia ha tanto peccato in parole, omissioni e opere
e forse si sente inadeguata agli entusiasmi dell’unità europea
o della fesa di tacchino impanata alla milanese.
La mia materia ha peccato e la mia anima si è ammalata.
Questa è la verità,
la mia verità,
la mia elementare verità.
Infatti io sono fatta dei quattro elementi.
Il mio corpo è la terra,
il mio spirito è il fuoco,
la mia mente che funziona è l’acqua,
la mente che contempla è l’aria.
Tutto questo fa parte di un unico pianeta
e l’unico pianeta è l’essere umano
e io sono un essere umano.
Si,
siamo fatti così
e nello spazio c’è spazio per tutti.
Importante è vivere in armonia con tutte le nostre parti
e dare a ognuna lo spazio giusto.
Ma non è sempre facile.
So mettere tutto a far parte di un gioco armonioso,
ma a volte funziona a settori e uno esclude l’altro.
Ci si sente facilmente un tutto unico di notte,
quando tutto tace e il buio occulta le parti,
ma la luce del giorno porta con sé la disgregazione
ed ecco che allora si diventa un corpo che funziona,
uno spirito che dorme,
una mente che viaggia come l’euro in Europa,
un pensiero che è agli albori
e partecipa alle relazioni con tutti gli elementi.
Così inevitabilmente c’è un’altra me stessa
che si sente esclusa e che osserva tutto,
non una sola me stessa
ma tante me stesse che sentono e che osservano.
Lo psichiatra dice
che l’identità dell’essere umano non è assolutamente monolitica,
ma è costituita da tante parti,
da tanti modi,
da tanti modelli.
E allora va bene così,
sono nel giusto
e sono nel normale.
Ti ringrazio,
amore mio,
perché mi dai la possibilità di riflettere
e di stare bene nella mia confusione,
perché mi dai la possibilità,
scrivendoti,
di mettere ordine nel mio piccolo caos anche da sola e senza farmaci,
soltanto con la certezza che comunque tu ci sei.
Ciao, sempre tua Antonia & Antonia,
l’unica e la doppia.

Salvatore Vallone

Pieve di Soligo, 30, aprile, 2002

IO SO

So che hai un amore per le mani,

le tue mani,

non solo le tue mani,

so che hai un amore per la testa,

la tua testa,

non solo la tua testa,

so che hai un amore per il collo,

il tuo collo,

non solo il tuo collo,

so che hai un amore per Modigliani,

Mody,

non solo Modigliani,

so che hai un amore per gli occhioni,

i tuoi occhioni,

non solo i tuoi occhioni,

so che hai la giovinezza per il corpo,

il tuo corpo,

non solo il tuo corpo,

so che hai per me la morte che verrà

e avrà i tuoi occhi.

 

Salvatore Vallone

 

Carancino di Belvedere 11, 01, 2022

 

DIALOGO DI UN CONTASTORIE E DI UN TERZO PASSEGGERE

Anankè,
mio caro Democrito?
Dimmi orsù,
o brutto cagnaccio materialista di Abdera,
di questa eterna naturale Necessità
che tende i rigogliosi atomi verso la vita del nostro Tutto
e li combina in colossali e variate fusioni
come uno chef vanaglorioso e volgare
che insulta dagli schermi televisivi
la memoria delle nostre gloriose madri
con l’inciuciare il superfluo e il banale
in un piatto di oscure tendenze e di incerte disposizioni.
Dimmi orsù,
o rude composto di morbida carne,
di quest’anima materiale coesa,
di questa materia animata intrippata
e sempre in odore di universale santità.
Dimmi, orsù e suvvia,
di questo umano travagliato peregrinare
che ottunde e disgrega il composto degli atomi
con il peso degli anni e la malasorte dei borghesi politicanti
e lo destina a quella Morte da cambiamento d’insieme
come in un nuovo arredamento d’ambiente
nel migliore showroom di Nervesa della Battaglia,
quello propinquo al cimitero monumentale della vittoriosa guerra 15-18,
la Guerra Granda,
dove Pasquale Squillaci da Siracusa riposa
con le sue ossa rotte e il baricentro sfondato da una crucca granata.
Dimmi orsù,
caro il mio filosofo materialista del cazzo,
dell’angoscia del tempo che verrà
in questa breve stagione di vita mortale
che tarda a veder l’oblio del risveglio,
che s’inarca nel cielo stellato delle tre sorelle,
Cloto, Lachesi e Atropo,
colei che fila,
colei che intreccia,
colei che taglia,
le ineffabili Moire che abitano quel Cielo
dove Orione pose li suoi riguardi
e i suoi intrighi erotici luminosi:
tre stelle in fila e sempre disposte.
Dimmi orsù,
o generoso benefattore della tua angoscia,
dimmi dell’attesa del Nulla eterno
e della malattia mortale di Epicuro e di Soeren,
di Martin e di Jean Paul,
della follia da fantasma di morte di Friedrich
quando abbraccia in piazza Savoia
il cavallo frustato dal nerboruto infame cocchiere,
dimmi di coloro che hanno fatto senza viltà il gran rifiuto,
come Cesare e Cesarina,
come Michele e Michelina,
come Luigi e Gabriella,
come tutti quelli che l’animo schiudono alla buona novella
al pensiero che gli atomi sono ciambelle con il buco.
Dimmi soltanto
se si tratta di nobili unità senza parti,
uniche ed eccezionali,
diverse per forma, posizione e ordine,
come spiegò l’insigne Stagirita
prima di essere eletto nell’agorà di Roma
nella lista dei fancazzisti e dei crumiri,
nella lista degli sposi e dei firmati,
nella lista dei chirurgi estetici
e degli esteti castrati dalle madri.
Dimmi,
o gran figlio di una mignotta,
se il tuo Tutto inizia da una spruzzata
di sangue mestruale e di merda infantile
nell’ampio lenzuolo bianco
che la Carmela da Calascibbetta ha steso sul suo letto verginale
per dimostrare domani al mondo la sua verginità
e la sua capacità di concepire bambini felici.
Ma tu insisti e persisti
nel dire che è tutta una questione di atomi
e io non reggo più le prediche dei preti
in quest’Italia garibaldina e a misura di talent scout.
Io,
intanto e per gradire,
ascolto Quinto Orazio Flacco,
l’epicureo romano de Venosa,
il basilisco de Roma
che fa il tifo per la società sportiva Lazio,
il football club della via Prenestina,
là dove i bambini e le bambine giocano
con palle di ruvida pezza,
con palle di gomma bianca e puzzolente.
All’uopo e alla bisogna dice il suddetto:
“aequa lege Necessitas
sortitur insignis et imos,
omne capax movet urna nomen.
La Necessità con giusta Legge
trae a sorte i grandi uomini e gli umili;
l’urna capace agita ogni nome.”
La Necessità è l’Anankè
e l’Anankè non è il Fato,
non è la Parola che è stata detta,
profferita,
sigillata,
l’inequivocabile Verbo incarnato e imposto
semplicemente perché è la sola e l’unica Verità.
La Necessità è nei corpi
che anelano quel divenire
che conduce alla Morte:
punto e basta!
Dimmi allora dell’Uomo,
del suo Verbo.
Dimmi anche del gatto Coraggiosetti
e del suo Verbo miagolato in moduli ironici
o in caselle contrassegnate degnamente da Arcaplanet.
Quali Parole e quale Anankè
in noi miserabili umani che uccidiamo un povero rapinatore,
anche due alla bisogna e all’americana,
senza colpo ferire
e inneggiando alla sacralità della proprietà privata?
Quali Parole e quale Anankè
nel gatto Pietro sempre in cerca di potta
negli anfratti del suo podere di tre tummini
e negli scaffali di Amazon & compagnia cantante?
Ma tu non parli
e sei sordo alla mia gioia,
tu non parli
e sei muto al mio cantare
di uomo che sogna
e sognando trascolora
in attesa del sogno ultimo e dell’ultimo sogno,
il Bardo.

Salvatore Vallone

Carancino di Belvedere, 30, aprile, 2021

LA VOLTA CELESTE

Mi viene voglia di vivere,

vivere per sempre,

in eterno,

non vivere così e così,

tanto meno al meglio delle condizioni date,

come dice il mio dottore,

vivere,

vivere bene,

vivere alla grande,

vivere sul pezzo e sul mazzo,

vivere senza malinconia e senza gelosia,

vivere finché c’è gioventù nella vecchiezza.

C’è questa Cosa immantinente,

questo Ca immanente e trascendente che è la Vita,

un alito eterno che attraversa i corpi

e vola verso il cielo stellato,

verso l’ultimo degli ultimi orizzonti infuocati della Gigante rosa

in odore di Nana bianca.

Il nostro corpo è in prestito.

Lo dicono tutte le Chiese.

Lo dicono le pensioni da fame dell’ENPAP.

Ci pensi?

Come racconti tu questa storia,

nessuno al mondo.

Come te non c’è nessuno,

così unico e solo.

La presto volentieri questa carcassa,

o amato cuore in un disio d’amante.

Eppure,

vorrei tanto guardare dentro i tuoi occhi

e chiudere i miei tra le tue braccia.

Grazie per la grazia degli intrecci,

grazie per l’assenza dell’asprezza,

grazie per la terra grassa e morbida,

grazie per le parole che mi fanno pensare

a quanto senso ha un fuoco acceso

e qualcuno accanto che racconta,

mentre ai bordi del perimetro del mondo

i lupi attendono il loro pasto con pazienza.

Grazie.

Io sono quella là,

quella della provincia dell’impero

in un mondo di stelle senza fine:

la volta celeste,

la stella del nord,

la stella del sud.

Il Sole ha ingoiato Mercurio e Venere.

La Terra ha chiesto asilo a un altro sistema.

Speriamo,

speriamo che gli idioti non sparino sui poveri gommoni alla deriva.

Sava

Carancino di Belvedere, 20, 06, 2021

IMMERSA NEL SONNO DEI SENSI

dedicata alla mai abbastanza compianta Mara Eli
chiedendo aiuto a Orazio

La luce della consapevolezza è emersa dalle profondità
e tu,
mia bellissima donna,
sei ancora immersa nel sonno dei sensi.
Il maschile orgoglio è stanco di desiderarti
e senza il calore della passione attende fuori e al freddo,
si mostra
e si pavoneggia
in attesa che ti apri alla gioia dei sensi.
Abbandona questa indolente inerzia
e accorgiti di me e del mio desiderio
che attendiamo in questa strada
la rivelazione della tua bellezza.
Io non vivo
e non dormo
nell’attesa che tu ti sveli e ti riveli.
Tu sei fatta per il maschio e per il suo orgoglio,
per la passione e non per l’inerzia.
Il mio corpo sa trattenere il desiderio
in attesa che ti disponi
a ricevere quel mio fuoco nascosto
che aspetta
e che soltanto tu puoi spegnere.

Salvatore Vallone

pose dolente in Pieve di Soligo e nell’aprile del 2018

 

IL MIO COMPLEANNO ZEN

TRAMA DEL SOGNO

“Il luogo era un insieme della casa in campagna di mia nonna, di un monastero Zen e di un campeggio per artisti di strada in cui si allenavano con i numeri di giocoleria e costruivano amache e altre cose da vendere.

Lì viveva una comunità folta e l’atmosfera che dominava era di serenità e di grande equilibrio. Io ero arrivata da poco e abbastanza inaspettatamente e sentivo quel posto come la mia vera casa.

Erano i giorni attorno al mio compleanno. Lì c’era mia madre che sorseggiava una tisana e mi teneva la mano, contenta per il fatto che avrei passato il mio compleanno insieme a lei.

C’era anche una donna di cui sono stata innamorata nella vita lucida, che vive in Brasile e che non vedo da due anni, e io ero curiosa di cosa avrei provato a passare il giorno del mio compleanno insieme a lei.

Lei era molto sorridente e amorevole, come tutti là, ed era felice che fossi là. I sorrisi non erano mai espressione di un’allegria frizzante o esplosiva, ma come di una calma interiore, un’amorevolezza profonda e gratitudine.

Io e mia madre guardavamo la foto dei miei due fratelli maschi: erano seduti su un tronco e guardavano davanti a loro verso l’orizzonte con lo sguardo assorto, erano seri nel volto ma sereni, assolutamente presenti nei loro corpi.”

Io sono Lucia.

INTERPRETAZIONE DEL SOGNO

Il luogo era un insieme della casa in campagna di mia nonna, di un monastero Zen e di un campeggio per artisti di strada in cui si allenavano con i numeri di giocoleria e costruivano amache e altre cose da vendere.”

Lucia parla di sé in maniera gentile e garbata, come si conviene a una donna giovane che si trova sul cammino della sua vita a percorrere le strade che portano alla riflessione sulle proprie radici, sulla spiritualità elevata al Buddismo Zen e sull’arte dei giocolieri e dei “vocumprà”. Questi sono i tre pilastri su cui poggia l’esistenza in atto di Lucia, tre colonne su cui poggia anche la Sicilia nella tradizione popolare di Colapesce. La “nonna” è stata una figura importante per la formazione psichica di Lucia. Da lei ha mutuato lo slancio verso l’originalità o la tendenza a non massificarsi, nonché un buon pragmatismo e una altrettanto buona manualità. Arte e spiritualità attestano della “sublimazione della libido” da parte di Lucia come difesa dall’angoscia di vivere e il processo difensivo si riversa sulle spalle e sulla pelle delle proprie pulsioni erotiche e sessuali. La “casa di campagna” della nonna rievoca Cappuccetto rosso e le sue arcinote traversie, ma non mi dilungo in questo riferimento. Lucia è in preparazione di un evento da celebrare in questo luogo e insieme a questa gente, un luogo dell’anima nonostante le apparenze materiali, un luogo Zen, un monastero dello Spirito con i dintorni artistici e creativi tanto forieri della Bellezza e dell’Armonia. Anche attraverso il gioco e la “giocoleria” si arriva nelle sfere alte dei cieli e nei luoghi delle reincarnazioni. Ognuno ha il destino che si è scelto a suo tempo, come Lucia, la nonna, i monaci, i giocolieri, gli artisti di strada. Tutti abbiamo anche un’amaca su cui distenderci per la meditazione e su cui dondolarci in armonia con le oscillazioni dell’intero universo.

Lucia esordisce con le sue complessità psichiche e decodificandole si corre il rischio di banalizzarle. Comunque sorridere non guasta mai e soprattutto se si sa sorridere nel vero senso della parola e non lasciandosi suggestionare da temi antichi e moderni come la cocaina o l’oppio dei popoli.

Lì viveva una comunità folta e l’atmosfera che dominava era di serenità e di grande equilibrio. Io ero arrivata da poco e abbastanza inaspettatamente e sentivo quel posto come la mia vera casa.”

Dopo i trambusti formativi Lucia ha trovato un equilibrio psicofisico mettendo insieme il meglio delle sue esperienze vissute nel privato e nel sociale. “Quella serenità e quell’equilibrio” sono decisamente aspirazioni di una donna che è venuta appena fuori da una tempesta dei sensi e da un trambusto delle emozioni. Lucia si è acquietata e adesso ama stare in mezzo alla gente della sua pasta, persone creative e dalle forti tendenze a “sublimare” nell’Arte il corpo e i suoi annessi e connessi. Lucia “era arrivata da poco”, Lucia ha conosciuto altre turbolenze per poter affermare che quel posto era la sua “vera casa”. Lei stessa si meraviglia di questo approdo inaspettato in una comunità pneumatica dove domina “serenità” e “grande equilibrio”, tutto il contrario di quello che Lucia ha vissuto in precedenza e che volentieri vuole lasciarsi alle spalle. E’ evidente che Lucia si trova sulla strada di Damasco, la strada delle turbolenze magnetiche e psichiche, quella che volge all’incontrario tutto quello che l’attraversa, viventi e uomini compresi. Dopo una vita spericolata e vissuta alla grande Lucia sente il bisogno di convertirsi, volgersi nel contrario, di fare una conversione nell’opposto, dalla materia allo spirito, dall’esaltazione della prima all’esaltazione del secondo, dal processo psichico di difesa della “materializzazione” al processo psichico di difesa della “sublimazione”, difese sempre dall’angoscia esistenziale collettiva e dall’angoscia depressiva personale. Il sogno di Lucia si snoda per eccessi e non contempla una linea mediana su cui scorrere senza scompensi e salti mortali senza rete. Si presenta un “Io” pienamente consapevole del suo misticismo e di usare la “sublimazione della libido” come l’unica panacea della brutta esistenza e dei peccatori carnali. In ogni caso Lucia “sente quel posto come la sua vera casa” e allora non resta che visitarla con reverenza e con rispetto, visto che si tratta di una dimora ad alto tasso di celeste essenza.

Erano i giorni attorno al mio compleanno. Lì c’era mia madre che sorseggiava una tisana e mi teneva la mano, contenta per il fatto che avrei passato il mio compleanno insieme a lei.”

Continua la rassegna delle presenze psichiche di Lucia, delle persone particolarmente significative da ammettere alla sua visione e al mistico consesso. Le radici chiamano e chiedono la soluzione del tributo. Il giorno genetliaco di Lucia si festeggia insieme alla “madre”, la diretta responsabile di tanto travaglio e di tanta figlia. In precedenza era stata chiamata in causa la “nonna” nella sua “casa di campagna” per allietare questo sogno nel segno del Femminile e del lieto evento. Sono presenti tre donne, due mamme e una figlia; di uomini neanche l’ombra, almeno fino adesso. Una “madre” che “sorseggia una tisana” e tiene la mano alla figlia è una scena idilliaca e orientale, così come la “nonna” nel contesto bucolico risulta più casereccia del pane di casa e più concreta della bottegaia che vende il baccalà presso il mercato del popolo. Lucia costruisce in sogno atmosfere rarefatte e rilassamenti da nirvana o da fumatori di oppio. Manca la verve energetica in maniera direttamente proporzionale all’intensità delle energie investite nella precedente vita, meglio nel precedente modo di pensare e di vivere di Lucia. La fusione con la madre attraverso un cordone ombelicale adulto è una larvata dipendenza da questa figura anche se vissuta più come sorella e compagna di viaggio da parte di una figlia chiaramente cresciuta e consapevole dei suoi vissuti. La rievocazione della scena del parto è pronta e i festeggiamenti si snodano tra ricordi e nostalgie. La rinascita in vita come evoluzione spirituale si attesta nel compleanno che Lucia vive giustamente in compagnia della madre carnale. Dal corpo allo spirito il passo non è di certo breve e poco impegnativo, perché si tratta di anni luce da impiegare nel percorrere la linea dello “spaziotempo” proprio quando s’incurva. Il compleanno Zen merita tanta prosopopea in un locale dove si serve esclusivamente estasi e atarassia in versione chiaramente analcolica.

C‘era anche una donna di cui sono stata innamorata nella vita lucida, che vive in Brasile e che non vedo da due anni, e io ero curiosa di cosa avrei provato a passare il giorno del mio compleanno insieme a lei.”

E’ un sogno tutto al Femminile e secondo i dettami del “principio psichico femminile”. Adesso subentra “una donna di cui sono stata innamorata nella vita lucida”, la terza donna del sogno di Lucia. Questa figura rappresenta simbolicamente la “vita lucida”, la coscienza vigilante e la materia vivente, il “principio di realtà” e l’istanza psichica dell’Io concreto e pragmatico che usa la “libido” in maniera godereccia. Lucia è stata legata a questa donna secondo i canoni dell’innamoramento e della passione e conosce molto bene questo trasporto sensoriale e affettivo. Lucia conosce bene se stessa quando si è vissuta nella realtà di una relazione grassa e crassa. Di poi ha iniziato a sperimentarsi in questa nuova dimensione di “libido” sublimata e vuole condividerla con questa donna che nel recente passato aveva investito in pieno della sua originaria “libido”. Da buona e brava materialista, Lucia ha detto basta al corpo e ai suoi bisogni per risorgere nella spiritualità. Celebra il primo compleanno di rinascita in vita dopo la conversione alla pratica spirituale buddista Zen e vuole sperimentare i suoi sensi e i suoi affetti nella circoscrizione della “sublimazione”, nella nobiltà aristocratica dell’Arte e dello Zen. Quante nascite ha celebrato e celebra oggi Lucia? Sicuramente due, quella “materiale” e quella “spirituale” restando dentro lo stesso corpo. Ricordo che il Buddismo predica la reincarnazione o la rinascita. Quante volte è rinata Lucia, il sogno non lo dice anche perché non tocca questo punto metafisico della Filosofia buddista o del Buddismo, se vi aggrada.

Lei era molto sorridente e amorevole, come tutti là, ed era felice che fossi là. I sorrisi non erano mai espressione di un’allegria frizzante o esplosiva, ma come di una calma interiore, un’amorevolezza profonda e gratitudine.”

Anche questa donna, l’innamorata della “vita lucida”, è affascinata dalla presenza di Lucia in questa vita Zen e in questa comunità spirituale dove l’allegria non è fare bordello e disinibirsi sbevazzando, ma vivere la calma interiore. Lucia ha raggiunto un traguardo psicofisico veramente invidiabile perché è riuscita a ripulire dalla materia volgare le attività sentimentali e affettive. La bontà della “sublimazione” e la bontà della spiritualità si sommano in un ampio crogiolo orientale che rievoca società comunitarie avulse dai torbidi intrighi dell’Occidente. Lucia si è elevata dalla materia che in passato ha contrassegnato la sua vita e le sue scelte e dopo un processo di crescita si è riconciliata con se stessa e con gli altri. Ha visto la sua femminilità e l’amore attraverso la nonna, la madre, la sua donna e può esulare verso le pulsioni umane più nobili e può contemplare la verità profonda che governa l’uomo e l’universo.

Io e mia madre guardavamo la foto dei miei due fratelli maschi: erano seduti su un tronco e guardavano davanti a loro verso l’orizzonte con lo sguardo assorto, erano seri nel volto ma sereni, assolutamente presenti nei loro corpi.”

Finalmente Lucia tira in ballo l’universo maschile nelle figure “dei due fratelli” anche se in versione fotografica. La solidarietà madre-figlia si rafforza in questa prospettiva nostalgica che vuole i fratelli maschi in gran forma materiale e spirituale: “seduti, sguardo assorto, seri, sereni, presenti nei corpi”. Anche loro, pur tuttavia, sono stati sublimati dalla sorella e deprivati di quella umanità massiccia di natura libidica che connota due giovani uomini che hanno davanti tutta una vita da vivere e che puzzano di testosterone. Eppure Lucia ne fa due aspiranti al Buddismo e due asceti pronti alla meditazione, li colora nel volto di una tinta orientale che coniuga la serietà alla serenità, lo sguardo assorto all’orizzonte e vigilanti dentro i loro corpi. Non è, di certo, un’immagine goliardica quella che Lucia compone per i suoi fratelli, è un quadretto affettuoso e ben augurante in linea con l’atmosfera rarefatta e quasi perfetta degli asceti orientali che possono stare seduti su un tronco a guardare l’orizzonte.

Questa è l’interpretazione del sogno di Lucia nel giorno del suo primo compleanno Zen.

Alcune riflessioni sono importanti per meglio inquadrare il sogno di Lucia. Il prodotto psichico risente chiaramente della sua conversione al Buddismo Zen e al superamento della modalità di vita occidentale. L’ottica del sogno è prettamente femminile e la protagonista rileva con pacatezza le figure femminili che l’hanno formata a livello psichico e in cui si è in parte identificata in attesa di un suo personale superamento spirituale verso le alte sfere delle pratiche ascetiche dei monaci buddisti. La causa di questa evoluzione spirituale il sogno non la contempla, ma si può rilevare una vita pienamente vissuta all’occidentale da Lucia anche con innovazioni sul tema della coppia: amore saffico. Tutto il sogno è impostato sul processo psichico di difesa dall’angoscia della “sublimazione della libido”.

Un ultimo particolare non indifferente si attesta nell’interpretazione del sogno fatta da un occidentale prettamente materialista come il sottoscritto. Questo sogno doveva essere interpretato da un collega buddista che prontamente ho reperito. Questo è stato il suo lapidario giudizio: “il sogno è la chiara riflessione di Lucia sulla liberazione della sofferenza attraverso la meditazione e dopo la razionalizzazione della sofferenza stessa. Spirito e Materia si fondono in un tutto unico, olismo. Il Buddismo non conosce queste classiche differenze e opposizioni della cultura occidentale”

Io ho ragionato da uomo occidentale proprio usando la classica opposizione mente e corpo, psiche e soma, spirito e materia. Me ne scuso con Lucia e con i marinai.

Alla prossima e con la speranza che non mi capiti il sogno di un certo Siddharta Gautama da interpretare.

MERCI

Merci!

Merci!

Quel plaisir, madame de Bovary!

Le belle parole fanno sempre bene al corpo,

plus que a l’evanescente ame,

a questo corpo che cerca ancora guai

in questa giornata austera e senza ozio,

in questo dì tutto dedicato al negozio che non c’è,

in questa notte da certificare al bobby di quartiere

dentro un innaturale coprifuoco di pace e benevolenza.

Viva il Duce,

viva il Duce,

che ci dà l’acqua e la luce!

Cara Catherine,

ti scrivo la presente

con il grado sociale e civile di nullafacente e di nullatenente.

Non sono, di certo, un politico da telecinco

e tanto meno un giornalista da tivvusettete,

per cui non essere gelosa del tuo Pasquale,

Totonno per gli amici,

perché tuti i me vol e nisuni me cioe.

Sol che ti,

vecchia madame,

solo tu mi vuoi e mi vuoi bene,

tu che ogni mattina lasci sul lattice del materasso

le impronte di quel corpo che solo a me par di donna.

Solo tu ti mostri così gentile a me che ti miro

e mi dai per gli occhi una dolcezza al core

che intender non la può chi non la prova.

Quanti ne hai provati e regalati bonbons,

e non soltanto al core,

tu,

mia adorable Catherine,

sensibile come la gatta Nerina da Caltabellotta,

tu che leggi di notte i Fasci immarcescibili di Bruno la Vespola

per pulire la tua povera pelliccia di cincillà al covid

a che nessun ti veda,

a che nessun ti spii,

a che nessun ti giudichi

come la solita donna di provincia in cerca di fregole

anche quando il giorno è di caucciù

e fatica ad affidarsi alle tenebre

per grazia ricevuta e mai restituita.

Tu,

mia charmant Catherine,

sensibile come la donna dell’inquieto Gustave,

guardi ogni sera la Lily nello specchio lucido e colorato

per amarti di più e sognare i ritrovati amori

anche quando le stelle non riescono a venir fuori

per formare un firmamento di necessità d’argento,

come prescritto dai codici fascisti di Alfredo,

non quello che su tuo invito ti bacia,

ma quello che ancora oggi ti uccide.

E allora,

rinasci bel fiore a la baia del sol,

quando caliente stringi in mano il biglietto di solo andata

andando con dignità in culo alla vita e al mondo crudele

che ti ha voluta femmina,

una femena granda come la micidiale guerra targata 1914.

E il tuo Pasquale?

Il tuo Pasquale canta sempre a Capri con Peppino

o mondo crudele,

è l’ora dell’addio,

ma non vuole morire

per fare dispetto ai seguaci di Charles,

ai crumiri di brutte speranze

che predicano ogni sera la selezione naturale,

la morte fredda per asfissia

di coloro che hanno già abbastanza vissuto.

Il tuo Pasquale non vuole morire

perché deve ancora annerire di merda quei loschi figuri

che lasciano il talamo coniugale al cuculo di turno.

Ah,

quanti cornuti affollano questa lurida piazza

seduti sulle panchine inquiete

di questa sporca città semigreca e semiaraba!

Ah,

quanti vecchi fanno del cul trombetta

a questa torma di tossici

che non vedrà mai lo cielo della vecchiezza!

All’uopo e alla bisogna

sappi che pulisco sempre il mio corpo con il gel,

in specie i testicoli ormai grigi e smunti dall’uso,

che riduco al minimo i bisogni innaturali con la tv,

che mi sparo una riga di whisky di Portopalo

per ammazzare il colesterolo e i satanassi in circolo.

Epicuro e Buddha mi stanno sempre a fianco

in questo bel ballo di san Vito che ancora mi agita,

così come il tuo ricordo ambito di doni mai ricevuti

e le tue perfide malefatte di bella donna di provincia

che vuole di giorno andare da Saint-Denis a Paris

nella disperata ricerca del braccetto di Tizio,

del soldo di Caio,

del parafulmine di Sempronio,

del sale e pepe di Bortolo,

del savoir faire di Giobatta,

detto Giobattino e da sempre definito culu vasciu

per le sue gambe oltremodo corte.

Se la memoria non m’inganna,

mia cara Catherine,

cordialmente mi firmo e mi attesto come il sempre e solo

tuo Salvatore Vallone

Post scriptum: sarà poi vero che dalla Morte nasce la Vita più forte?

Carancino di Belvedere, 06, 01, 2021