Sala fumatori…posto ideale per chi sta smettendo di fumare.
Ma almeno qui le pareti sono bianche, il pavimento è freddo e non c’è nessuno.
Cercavo una stanza asettica e dalla mia avevo tolto tutti i quadri perché non volevo più avere stimoli esterni che mi impedissero di sentire me stessa.
Dagli occhi in giù il mio corpo è costituito da uno strato sottile, forse una scatola.
La mia fronte, la mia testa è un cerchio di massa che schiaccia, una morsa che stringe.
Ci sono trecentomila pensieri in questa testa, uno sopra l’altro, trecentomila persone tutte ammassate che si spingono, si urtano, si schiacciano; sono troppe e la mia testa non le può contenere.
All’incontrario la scatola è vuota.
Ogni tanto filtra giù qualcosa.
E’ come se dalla testa scivolasse qualcosa in quella scatola che inevitabilmente si riempie di indefinito, un personaggio, un’emozione, un movimento, un cane, un gatto, una merda, un quadro, un universo intero, una ricerca di fusione.
Devi sentirti albero per disegnare un albero, devi sentirti arido e deserto per disegnare un deserto, devi sentirti una merda per disegnare un corpo, devi sentirti una scatola per disegnare una testa.
Il mio corpo è un deserto, la mia fronte è una caverna, la mia testa è uno stagno.
Si sentono voci, rumori e tutto disturba: sono interferenze, sono lampi nel cielo, sono i pescecani del mare,…
Compriamoci i tappi per le orecchie, perché abbiamo bisogno di disintossicarci, abbiamo bisogno di una stanza con le pareti bianche, il pavimento freddo e soprattutto che non ci sia nessuno, abbiamo bisogno di vedere quel vuoto, quel vuoto che è dentro di me, che è dentro di te e che non riusciamo più nemmeno a sentire.
Non voleva più bere la lattina di yothea, non voleva più bersi; era ora di smettere, di cambiare, ma come ?
Come ?
Essere tutto in tutti, essere io e te, yo – the – a, l’inizio dell’alfabeto, l’inizio dell’universo.
Una lattina conteneva l’alfabeto e l’universo.
Questa notte mi sono svegliato, mi sono seduto, ho appoggiato i gomiti sul tavolo, era buio, era notte e mi sono ritrovato…, ma forse non ero io.
Era quel poeta di Lisbona, sì, dai, quello lì…Fernando Pessoa… e poi non era neanche lui, era un suo personaggio, un impiegato di concetto in una ditta import- export che abita in una anonima, sporca e squallida stanza d’albergo, un uomo che guarda fuori dalla finestra.
Le imposte di quella finestra si aprono per di fuori e si aprono per di dentro ed è tutta un’altra cosa, perché non era nemmeno quell’altro personaggio, ma era una finestra, la finestra che guarda fuori, la finestra che guarda dentro, la finestra che guarda nella scatola.
La mia bocca è priva di voce, emette soltanto suoni, suoni che sono sempre gli stessi, sono poveri, sono vuoti… sono niente.
Il mio cervello lascia passare sempre i soliti messaggi; io non ho più niente da dire.
Qualcuno è entrato in questa stanza fumatori.
Silenzio.
Cuore che batte.
Il respiro si fa più pesante.
Silenzio.
Cos’è ?
Un essere umano, una statua, una sedia in più…, silenzio.
Sta fumando, respira – aspira, respira – aspira, respira.
Esce e sbatte la porta.
Di nuovo il silenzio.
Un lungo sospiro.
Mi sento svuotare, sto cercando di stampare in questo foglio bianco tutta la confusione che ho in testa, ma è impossibile, è come cercare di descrivere il giorno, è come cercare di descrivere la notte: si tralascerebbe sicuramente qualcosa.
E’ impossibile.
Sono mio padre, sono mia madre, sono Fernando Pessoa, sono mia zia, sono i colori di tutti gli altri, sono la Marzia, sono mio fratello, sono mia sorella, sono la Nicoletta, sono tutto, sono niente, sono una merda puzzolente e si sono dimenticati di tirare l’acqua.
Arriva uno psichiatra e tira l’acqua: io sono scivolata giù nella follia.
Pirandello: uno, nessuno, centomila.
Non so più come vestirmi, non so più cosa mangiare, non so più che parte recitare.
I miei libri li ho letti tutti.
Dovrei leggerne altri, ma non ho più voglia.
Non ho più voglia di niente.
Sento il mio respiro,…è pesante, non è mai a fondo e devo fare lunghi sospiri per arrivare fino in fondo.
La mia mano trema dallo sforzo, è viva.
La mia mano è viva.
Silenzio.
O penna nera che come lama d’acciaio scalfisci la carta, tu sola mi puoi liberare da quest’ansia, l’ansia di esistere, l’ansia di dover chiudere gli occhi per poi riaprirli.
O grande uccello vola alto nel cielo e non guardare giù, potresti cadere; le tue ali potrebbero piegarsi nell’aria e cadere al suolo.
Nuda terra, fredda e gelida terra, mi stai portando via, mi stai strappando il cuore; le mie ossa si spezzano come ghiaccio sotto i tuoi piedi.
Vorrei parlarti, vorrei capirti…,vorrei avere in mano qualcosa da darti, solo per te, perché sei tu, perché sei vivo, ma non ho niente da offrire se non queste inutili ansie e queste assurde tristezze.
Lascia andare la mente lontano ai confini della pazzia, ai limiti della notte e del giorno dove la luce e le tenebre si uniscono e dove il silenzio ti avvolge.
Chiudi gli occhi e lasciati andare dove nessuno potrà raggiungerti e dove nemmeno le più grandi ricchezze avranno valore.
Chino su te stesso cammini e il cielo è pesante.
O nuda terra, fredda e gelida terra, mi stai portando via.
I pensieri rotolano tra i sassi, mentre le foglie non cadono più.
C’è il sole là fuori ed è un giorno di festa, ma qui dentro fa freddo, fa tanto freddo.
Morirò anch’io come sei morta tu e non ci saranno ansie, perché né ora né mai ci saranno ansie, né paure e non ci sarai più neanche tu, penna nera, ma resterà solo l’idea che tutto sia stato e sia un sogno.
Sento passi su per le scale, porte che sbattono, voci, tante voci…la paura di esserci, il desiderio di non esserci.
Ascensore.
Silenzio.
L’unica cosa che mi fa sentire di esistere è questa puzza che mi porto addosso…e allora mi sento.
La mia testa si sta lentamente svuotando.
Ci vuole la stanza bianca, il pavimento freddo e non ci deve essere nessuno.
Sala fumatori…posto ideale per chi sta smettendo di fumare.
Ero entrata in un supermercato, questo accadeva nel mio sogno, avevo il carrello della spesa vuoto e lo riempivo pescando nei carrelli degli altri.
Poi sono arrivata alla cassa e ho visto un paio di pantaloni di plastica trasparente. Quelli volevo !
La commessa mi dice che non erano pantaloni, ma bottiglie di coca-cola vuote…
”VOI, GENTE DI PLASTICA, AVETE PERDUTO LA VOSTRA ANIMA E I VOSTRI FIGLI…”
Quella donna la odio, quella brutta vacca schifosa mi fa saltare i nervi.
Si comporta come se io non esistessi, poi si sveglia e ti dice: “fai questo, fai quello”. Ma io non faccio niente, devo sparire, devo solo sparire, dissolvermi nell’aria, sciogliermi nel mare.
Ehi, fratello, avvicinati !
E’ tutto così lontano, così freddo.
Ho bisogno di un bagnoschiuma per farmi una doccia.
C’è silenzio in camera mia.
C’è silenzio nella mia stanza.
Mi sento vuota e troppo piena; ho una cosa solida nel cervello, qui, nella testa.
Ci sono le mosche.
Quando le mosche si avvicinano troppo vuol dire che stai per morire…, morire dentro, morire per davvero.
Che differenza c’è ?
Essere quello che gli altri vogliono che tu sia: è forse così che bisogna vivere ?
Una volta una persona, uno importante, uno che la sapeva lunga, mi disse che si può fingere tutta la vita e arrivare alla pensione.
Sì, penso che in un certo qual modo tutti fingono; mi fanno schifo e anche pena.
Penso che solo chi è “malato di mente” probabilmente non finge; io non sono “malata di mente”, ma non so neanche chi sono.
Il mio posto dov’è ?
Il mio posto non esiste !
Non sono una suora, non sono una moglie, non sono una madre, non sono una drogata, non sono una puttana, non sono una ladra, non sono una carcerata, non sono un’omosessuale.
Il mio posto non esiste e la mia casa non c’è.
Camera mia, letto grande, letto rosa, impregnato di pensieri, camera mia…, silenzio.
Non c’è nessuno.
Rumore di piatti e bicchieri.
Questa sera penso che non mangerò; c’è troppa confusione laggiù e io non ho niente da dire.
Non ho niente da fare.
Non conosco nessuno.
Sono forse uno dei tanti cuscini sopra il divano.
Non ho niente da dire.
Sono uno dei tanti cuscini gettati alla rinfusa sul divano.
Non ho niente da dire.
Non ho niente da fare.
Camera mia, letto grande, letto rosa; c’è silenzio e soprattutto non c’è nessuno.
Sto scoppiando, sto letteralmente scoppiando.
Stavo scrivendo e mio figlio voleva leggere, ma non doveva leggere; così ho risposto che erano cazzi miei.
E’ andato da mia sorella a riferire e lei è arrivata incazzata dicendomi: “esci da questa stanza; tu il computer non lo usi più ”.
Mi ha detto: ”esci da questa stanza – stanza – stanza – stanza…”.
Io cercavo da tempo una stanza, ma la stanza non c’era.
Vorrei andarmene e passare la notte all’aperto, vorrei sparire e farmi inghiottire dal buio, vorrei andare in Portogallo a trovare Fernando Pessoa, vorrei dormire sulla sua tomba…, sento solo odio, rabbia, disprezzo, fuggire via, fuggire lontano.
Fuggire dove ?
Vorrei sparire e farmi inghiottire dal buio.
E quell’ombra ritorna.
Si era nascosta dietro a una nuvola,
ma ora ritorna.
E tu continui a dare la colpa alla gente,
ma forse non ti accorgi
che sei tu a non valere niente.
Vattene gatto nero,
vattene all’inferno,
vattene ombra scura lontano dai pensieri,
ma quando tutto tace e tutto dorme,
ecco che allora si risvegliano i sospiri,
che come forte vento ti portano via la pace e la luce del sole,
La notte ti è amica,
la notte ti è vicina,
non ti lascia mai sola,
ma ti accompagna alla scoperta di una nuova vita.
Ma quell’ombra scura ti mette paura,
ti porta lontano,
ti toglie il respiro,
ti soffoca
e tu guardi fuori e c’è la notte.
Ma la notte è buona.
Quella testa di cazzo del dottor Migliore mi dice con voce patetica: “ma da chi vuoi fuggire ?
Da te stessa ?
Da tuo figlio ? “
Ma che vada a farsi fottere lui e la sua psichiatria !
E lui parla; più parla e io mi sento morire dentro.
Mi alzerei in piedi e gli spaccherei una spranga di ferro in testa, gli aprirei il cranio e vedrei le sue cervella uscire e spiaccicarsi sulle pareti della stanza – stanza – stanza – stanza.
Io cercavo da tempo una stanza, ma la stanza non c’era.
Allora guardo una scatola azzurra che si trova sopra la sua scrivania e penso al bollino azzurro che c’è sul rubinetto dell’acqua fredda e subito mi raffreddo.
Su quella scatola c’è scritto “xanax” e fisso la scritta e prendo venti gocce di “xanax”.
E lui parla, parla, parla al bollino, parla alle gocce e io non lo ascolto più.
La sua stanza è rossa e io voglio una stanza con le pareti bianche, il pavimento freddo, ma soprattutto che non ci sia nessuno.
Per entrare in casa bisognava fare sedici scalini.
Ricordo nitidamente che ero su, vicino alla scala e c’era mia madre con me.
Io la odiavo, volevo eliminarla e così la spinsi giù per le scale.
Lei rotolava, rotolava e intanto gridava.
Io la fissavo fino a quando non è arrivata a terra e ha chiamato mio padre dicendo:
“aiuto, mi uccide…mi uccide…”
Mio padre arrivò, mi picchiò e così scappai di casa.
C’è solo un particolare: secondo mia madre questo fatto non è mai avvenuto.
“Potresti pentirtene !
Il tuo posto potrebbe essere irrimediabilmente occupato da un’altra persona e non intendo solo in senso logistico.”
Mi lavo, ogni giorno mi lavo, eppure sento una puzza tremenda che trasuda dal mio corpo.
Mi dà fastidio, ma anche no, perché so che ci sono.
Mi sento, mi annuso, mi ascolto, ma non voglio che mi sentano gli altri.
C’è silenzio qui, non si sente nessuno, non si sente un rumore, si sta bene qui… sssshhhh… silenzio – silenzio – silenzio.
Camminavo per la stradina e mi ascoltavo.
Dovevo andare al C.S.M. e non riuscivo a capire quale fosse la sensazione che avevo dentro e il personaggio che dovevo essere in quel momento: forse ero incazzata, forse ero Enrico, forse ero triste, forse ero Sante, forse ero depressa, forse ero mia madre, forse ero confusa, forse ero Fernando Pessoa, forse ero “normale”, forse ero il dottor Migliore, forse…non lo so, non so chi ero, non so cosa sentivo dentro, non so chi o cosa dovevo essere.
Uno, nessuno, centomila…: ”un baule pieno di gente”.
Sono arrivata giù e avevo l’ansia; il cuore mi batteva forte e tutti mi urtavano i nervi.
Vecchie poltrone che stanno lì da sempre…
Che puzza !
Forse di marcio, a volte di cane, a volte di muffa.
Camera mia, silenzio…
Ho mal di testa, ma non sono in confusione.
Penso che la vita deve sempre andare avanti anche se le persone se ne vanno tutte prima o poi.
Ciao amico – silenzio.
Ognuno deve seguire la propria strada anche se ci sono degli ostacoli o delle difficoltà, anche se si deve rinunciare a qualcosa o a qualcuno.
Che strano.
Sono sempre le cose e le persone a cui tengo che se ne vanno e quando vanno è come la caduta di un pino gigante: lascia vuoto un pezzo di cielo.
Ciao Beppe.
Il tuo desiderio è stato esaudito: la musica che volevi per il tuo funerale è stata suonata.
Ci siamo rivisti, ci siamo incontrati e non certo nel luogo che io desideravo, ma nei momenti difficili una “camel” in due ancora la possiamo fumare.
Sento che ci sono delle forze che mi trattengono e non riesco a capire se sono positive o negative, se sono interne o esterne.
Forse vivere significa fingere sempre e dovunque.
Ci sono tante stanze nella mia vita, ma io cercavo una stanza, la mia stanza.
Ci sono tante stanze nella mia vita e ognuna ha un colore diverso.
Ogni stanza è uno stato d’animo, un modo di essere, un personaggio, ma io in questo momento sono uno stato d’animo, un modo di essere, un personaggio, io sono Fernando, io sono Lucia, io sono nessuno, assolutamente nessuno.
C’è la camera mia ed è rosa.
C’è silenzio, non c’è nessuno eppure è affollata.
Parlo, rido, m’incazzo, faccio a pugni e non piango mai.
C’è la stanza del dottore ed è rossa: parlo e non parlo, m’incazzo e non m’incazzo, ascolto e non ascolto.
Poi c’è la stanza del Centro ed è azzurra.
A volte sono un operatore e partecipo per fare vedere agli altri che bisogna partecipare.
In queste occasioni mi sento uno specchio; poi lo specchio si rompe e sono solo un mucchio di pezzi che non si collegano più e me ne sto in silenzio con un senso di tormento, d’irrequietezza oppure parlo, ma la mia testa è bloccata, non filtra i messaggi alla bocca.
Passano sempre le stesse cose e un pezzo di me le deve dire e un pezzo di me non le vuole più sentire.
A volte mi dico di fare la depressa e allora divento depressa; a volte mi dico di essere felice e così divento felice…: ”il poeta è un fingitore, finge così completamente da fingere che è dolore il dolore che davvero sente”.
A volte non so come devo essere e allora osservo gli altri e cammino per la stanza, vado fuori a sospirare, mangio, bevo, mi lamento, rido, faccio un orto.
Poi sto vicino agli operatori senza parlare, senza ascoltare, solo osservare.
Poi c’è la stanza del gruppo ed è viola.
Lì mi sento soffocare, ho la tachicardia, sono paralizzata; le mie mani e le mie braccia s’informicolano, s’intorpidiscono, non posso muovermi, sono braccata.
Non sono più io, il mio corpo non mi appartiene.
Ogni tanto parlo, ma il mio sguardo esce dalla finestra, la finestra di quella stanza ed è un monologo: io non voglio e non cerco risposte.
Non vedo nessuno; eppure li vedo.
A volte li sento, ma solo qualcuno.
Quando parlo non c’è nessuno, sono solo tante sedie, ma a volte c’è qualcuno.
Poi c’è la cucina di casa mia ed è grigia.
Non parlo, non vedo, non sento.
E la cucina di mia zia che è marrone e lì parlo, mangio, lavo i piatti, cucino, insomma faccio le cose.
E’ una grande casa la mia casa, ha tante stanze e ognuna ha un colore diverso.
Nella mia casa c’è silenzio, non ci abita nessuno, eppure è affollata.
Continuo ad avere mal di testa.
A volte mi sveglio in piena notte con il mal di testa; è insopportabile, ma mi toglie la confusione e quasi quasi mi sento.
Ma qual’è la notte da vivere e dov’è che dobbiamo sentirla ?
Quand’ero bambina mi piaceva costruire castelli di sabbia in riva al mare, mi piaceva giocarci.
Erano alti, erano molto alti e nessuno poteva raggiungermi fin lassù e c’erano le torri, le grandi torri e da lì si poteva avvistare il nemico ed evitare di essere sconfitti.
Quand’ero bambina mi coprivo di sabbia e diventavo come i grandi castelli e nessuno mi poteva raggiungere perché erano alti, erano molto alti.
Ma un giorno arrivò una grande onda e distrusse i castelli di sabbia e il mio sogno se ne andò via con loro sciogliendosi nel mare.
Che puzza che sento in certi momenti; mi dà fastidio e anche no.
E’ un odore forte che proviene dal mio corpo e arriva alle narici.
Camera mia, letto grande, letto rosa, silenzio…
Forse ho bisogno della fede.
Tanti credono in un Dio e riescono a superare molte difficoltà.
Anch’io, una volta, credevo in Dio e credevo anche in Satana.
Parlavo con Dio e parlavo con Satana.
Satana ascolta di più rispetto a Dio.
Satana dà segni più concreti della sua presenza, ma io ero ormai diventata portatrice di male.
Sento la mia presenza come una forza negativa che si insinua nelle vite degli altri e le trasforma fino a ucciderle.
Se io prendo le distanze, gli altri stanno bene.
Se io prendo le distanze soprattutto mia madre è più vitale.
La mia distanza la rende più vitale e la mia assenza la solleva nell’alto dei cieli.
Se io sono nella sua stanza, lei è schiacciata da un senso di stanchezza infinita.
Se io sono nella sua stanza, lei è oppressa da un senso di tristezza infinita
So che quando esco dalla stanza ed entra mia sorella c’è una vitalità diversa; cominciano a parlare e la stanza prende forma e colori.
Quando sono nella stessa stanza con mia madre le dico: “beh, non dà proprio così fastidio questa felpa”.
Ma lei non risponde, no comment, lei è chiusa nelle sue prigioni e io dico nella mia testa che si potrebbe parlare del tempo, del freddo che comincia ad arrivare e poi dico: “beh, non dà proprio così fastidio questa felpa.”
E poi ripeto: “beh, non dà proprio così fastidio questa felpa” nella speranza di sentire un eco.
Un eco da chi ?
Un eco da questa stanza vuota, un eco da questa casa.
Vietato pensare !
E quindi sono nessuno, perché non penso un sentire insensato, una paranoia che però è quello che sento.
E allora come si fa ad annullare quello che sento ?
Deve essere soltanto una proiezione di me stessa negli altri e devo scontrarmi continuamente con me stessa negli altri ?
Quando credevo in Satana tutte le persone che si avvicinavano a me stavano male e si facevano male come le gerbere.
Quando lavoravo con le gerbere avevo la sensazione di farle appassire, un potere negativo giustamente legato a Satana come il potere positivo di essere onnicosciente giustamente legato a me stessa e come il potere magico di sentire a volte quello che sentono gli altri.
Un giorno un prete, uno che leggeva nel pensiero, mi disse che se non mi facevo suora avrei pianto per tutta la vita.
Sognavo il mio matrimonio, ma quando lui si avvicinava all’altare cadeva a terra e moriva.
Ricordo che quando ero in convento non riuscivo a guardare il prete mentre celebrava la messa e le suore dicevano che ero brava, che ero umile e che mortificavo gli occhi.
Anche adesso non riesco a guardare la psicologa o lo psicologo negli occhi o il dottore, perché ho paura di cascarci dentro e di non uscirne più.
Lo guardai negli occhi e ci fu una corrente di energia.
La mia anima uscì dal mio corpo ed entrò dentro di lui e mi sentii invasa: c’era stato uno scambio.
Ora lui camminava per le strade e si sedeva sulle panchine a riflettere, poi, la sera, si sedeva sul molo con un gattino bianco a fianco e guardava le luci riflesse sullo specchio dell’acqua…, lucciole in movimento: era uno scambio conveniente, ma io vivevo la sua follia.
Hai mai nuotato in un fondale marino dove tutto si muove lentamente e dove il silenzio che ti avvolge diventa denso come l’olio ?
Hai mai sentito il profumo della notte e le voci di quella parte oscura ?
Hai mai sentito la lama tagliente della musica e il calore del sangue che scorre sul pavimento di gomma ?
Hai mai sentito il tuo corpo inerme, svuotato di tutta la linfa vitale e avvolto dal gusto aspro della luce ?
Hai mai avuto paura di non tornare ?
Solitudine.
Cos’è la solitudine ?
Io non sono mai sola; c’è sempre una folla con me.
Quando ero in carcere ed ero in cella d’isolamento chiudevo gli occhi e vedevo mia nonna e la vedevo piena di luce che mi sorrideva e mi diceva che sarebbe andato tutto bene, che sarei uscita dal carcere; infatti, così è stato.
Solitudine.
Cos’è la solitudine ?
Camminavo lungo una strada, era coperta di neve, c’era silenzio, non un rumore, solo alberi ai lati e bianco centrale.
Camminavo lentamente, molto lentamente e poi mi giravo all’indietro e c’erano le mie orme ed erano le orme di un’altra persona.
Solitudine.
Cos’è la solitudine ?
Ho sognato di essere un uomo che faceva l’amore con me stessa donna e questa donna mi guardava negli occhi.
Passando per caso in quella via ti ho visto rannicchiata tra quelle rose e quelle spine, spaventata, diffidente, nascosta.
Sono sorpreso, non me lo sarei aspettato da te, non ti ho riconosciuta subito,
ma quando ti ho preso la mano ho sentito che era la tua.
Vieni con me, non ti lasciare andare così, non farti ferire da quelle spine.
Un velo si è calato sui tuoi occhi, sei sorpresa, non te lo saresti aspettato…, non ti sei riconosciuta subito.
Vorrei poterti amare senza che tu ti debba ferire per allungare una mano.
Vorrei guardare dentro i tuoi occhi e accarezzare il tuo corpo, ma è cosparso di spine e ne rimarrei ferito.
Siamo lontani e nello stesso tempo vicini; guarda dentro i miei occhi.
Non temere; senza che tu te ne accorga sentirai in un istante il profumo delle rose.
Chi siamo noi, anime perse ?
Ho guardato dentro i tuoi occhi e una parte di me era lì in fondo a quel mare,
in quel limpido e caldo mare, in quell’unico specchio che io conosco: i tuoi occhi, i miei occhi, i suoi occhi…
Solitudine..
Cos’è la solitudine ?
Una stanza con le pareti bianche, il pavimento freddo, silenzio…
Camera mia, letto grande, letto rosa, silenzio…
Sala fumatori, silenzio…CIAO AMICO…silenzio…a domani.
C’è il sole là fuori ed è un giorno di festa, ma qui dentro fa freddo, fa tanto freddo.
La mia casa è morta, le persone che ci abitano sono morte.
Non c’è luce, non c’è calore, è tutto fermo come in un sogno.
Ho mal di testa e non ne posso più.
Chiudere gli occhi e staccare la mente dall’essere per non essere più qui.
E’ un altro giorno vuoto, un altro giorno fatto di vuoto, un altro giorno fatto di niente.
Vorresti che calasse la notte intorno a te per poter chiudere gli occhi e raggiungere la pazzia ?
C’è qualcuno lì fuori ?
No, ti prego, non entrare, non bussare alla mia porta, non portarmi via; voglio restare qui a marcire e veder le mie ossa cadere a pezzi.
E’ solo musica intorno, tristi note che si levano alte e tu sei la musica quando la musica finisce.
E vedi i colori, i tuoi colori.
Lasciami qui !
Non portarmi via, non bussare alla mia porta; lasciami qui.
La strada è troppo affollata da visi che non ricordo.
Non importa se piango; tu lasciami qui, mi devo asciugare perché cadeva la pioggia.
Questo ticchettio mi martella il cervello.
Questo monotono ticchettio scalfisce il mio viso e le mani cominciano a tremare.
Portalo via con te, portati via il tempo dei ricordi e il tempo dei sogni, lascia solo ciò che mi spetta, lascia solo del mio, lasciami il tempo di morire.
Devo cambiare vestiti, aprire l’armadio e cambiare vestiti.
Questi colori sono troppo pericolosi.
Me lo avevano detto che il “synflex” era forte, ma io non li ho ascoltati.
Aramis era andato in ospedale e io avevo mal di testa; in quella scatola di “synflex” c’era scritto Aramis e io volevo quella.
Io volevo quella.
Forse volevo prendere il suo posto per sentirmi Aramis, per sentirmi qualcuno.
Me lo avevano detto che il “synflex” era forte, ma io non li ho ascoltati.
I pantaloni neri con la maglietta rossa sono come il “synflex”, solo che lui è arancione.
I pantaloni neri con la maglietta rossa sono di Enrico; li indossava spesso prima di andare in ospedale.
Anche Enrico è finito in ospedale.
Devo cambiare vestiti, devo aprire l’armadio e cambiare vestiti; questi colori sono troppo pericolosi.
C’è il sole là fuori, ma qui dentro fa freddo, fa tanto freddo.
Morirò anch’io come sei morta tu e non ci saranno più ansie, né paure, ma resterà solo l’idea che tutto sia un sogno, che tutto sia stato un sogno.
Era nato un bambino, un cucciolo d’uomo, ed era sporco di sangue.
C’era un cane, un gran bel cane che lo stava lavando, lo stava pulendo, lo stava leccando.
Poi il bambino si alzò in piedi, cominciò a camminare e si diresse verso una montagna; scalò la montagna e si mise nel nido dell’aquila.
L’aquila gli diede da mangiare e il bambino si alzò in piedi un’altra volta e si buttò giù e cominciò a volare.
“Vieni con me.
Un giro soltanto sulla giostra che sta là in fondo.
Vieni con me.
Un giro soltanto, un giro di walzer e l’orchestra ci accompagnerà.
Vieni con me.
Un giro soltanto sulla ruota che sta là in fondo.
Non aver paura, perché la madre ci accompagnerà.”
Il bambino si buttò in picchiata verso il mare e si tuffò nella grande acqua; andò giù, nuotò fino in fondo.
Guardò in alto e la luce del sole lo richiamò.
Così cercò di risalire, ma il mare era profondo…nuotava – nuotava – nuotava.., ma il mare era profondo.
Cominciarono a mancargli le forze, ma nuotava – nuotava – nuotava e il mare era profondo.
Guardò fisso la luce del sole.
Incominciò a bere acqua; le braccia e le gambe si dimenavano, poi niente …, più niente…: il mare era troppo profondo.
Tra non molto ritornerà la psicologa.
Non ricordo più il suo viso, la sua espressione; è una figura lontana, offuscata.
Quando mi trovo nella sua stanza non riesco a pensare nessun colore e non so come comportarmi.
Tutto si allontana e sto prendendo le distanze; ogni cosa che succede attorno a me, ogni persona che in qualche modo si muove attorno a me lentamente sparisce.
“Vorrei riuscire a spegnere tutto questo inspiegabile vivere,
sentire dei passi fermarsi in questa pausa interminabile,
il terrore di essere,
il desiderio di non essere.
Tutto ciò che ci circonda lentamente cambia, o forse no,
si trasforma, o forse no.
Vortice di pensieri che cambia rotta.
Ma chissà se anche gli altri sentono ciò che sento.
Il gatto fugge;
unica forma di vita che mi dà la conferma che la paura che ho dentro è reale,
che lui stesso prova la stessa paura e fugge.
Forze sconosciute che manipolano la mia esistenza,
o mostri inesistenti che emergono dall’abisso interiore…
fiume di lava incandescente che arriva a bruciare dove tutto è ghiaccio…
si scioglie,
si disfa,
è come un incubo nella veglia,
ma qualcosa del sogno sopravvive in noi.”
La vista si offusca ed è sempre più difficile afferrare gli sguardi,
ascoltare le voci,
sentire i rumori,
sentire i profumi.
Una grande forza ti spinge in fondo dove nulla ti accoglie,
dove tutto è ovattato,
dove tutto è assente.
Non sono più io.
Il mio corpo non mi appartiene.
Ogni movimento volontario diventa uno sforzo.
Non sono più io.
Il mio corpo non mi appartiene.
I pensieri arrivano come faville di fuoco in questo gelo interiore,
ma sono troppi,
sono pesanti e la mia testa non li può contenere.
E’ necessario dar loro una forma.
E’ necessario esternarli.
E’ necessario farli vivere fuori di me perché la mia testa non li può contenere.
Non sono più io.
Il mio corpo non mi appartiene.
Pensieri concreti che prendono vita:
si possono afferrare,
si possono ascoltare,
si possono annusare.
Il mio corpo li segue,
il mio corpo li vive.
Non sono più io.
Il mio corpo non mi appartiene.
Non so chi o cosa devo essere e ho un vuoto in testa.
Allora guardo fuori dalla finestra e vedo un albero.
Ha tanti rami e i miei pensieri volano su quei rami…lei, la psicologa, è lì, è sempre lì e non si muove.
Le ho detto che mi sembrava un armadio, ma non è vero, non parlavo con lei, ma con la Nicoletta.
Alla Nicoletta ho detto che mi sembrava un armadio, uno marrone di legno con le ante aperte.
Il marrone non mi piace, ma non è vero; non piace alla Karin.
Io preferisco il bianco, ma non è vero; piaceva alla Marzia.
Lei si vestiva di bianco e portava un braccialetto giallo al polso destro, così io mi vesto di bianco e porto un braccialetto al polso destro perché faccio la Marzia.
Camera mia…silenzio…io qui…io dentro questa stanza e tutto il resto fuori…io qui ad ascoltare l’eco di questa carta e tutto fuori, tutto il resto fuori.
I colori sono come cibo.
Mangio i colori, bevo i colori; vorrei che i colori diventassero me e che io diventassi loro e che non ci sia più differenza tra noi due.
Vorrei spaccarmi in tanti pezzi e mangiarli uno a uno, lentamente, così per sentirli.
Voglio mangiare la stanza del dottor Migliore e la stanza del gruppo, la camera mia e tutto il Centro.
Quanta gente formicola per i corridoi !
Tutta questa gente formicola per i corridoi; il ronzio dello sciame d’api ti avvolge, ti prende, ti soffoca.
Fateli smettere !
Stammi lontano, ma anche vicino; senza di te mi sentirei sparire.
Stabiliamo un confine, ma questo confine diventa muro, diventa finzione e non si può più entrare e non si può più uscire.
Si sente solo l’eco dei miei pensieri rinchiusi dentro la testa come uno zapping della tivù.
Spegnili, spegnili e falli tacere.
Tu che sai, tu che puoi, spegnili e falli tacere.
Io conosco il copione di certe commedie e lo conosco a memoria; la prima, la seconda e la terza sono andate in scena tutte, non ho più niente da dire, non ho più niente da fare, devo solo osservare.
Due metri per uno, un piccolo spazio come quello che si dà ai cadaveri.
C’è una luce giallognola e una goccia che esce dal rubinetto dell’acqua, c’è puzza di cane, c’è puzza di merda e i miei pensieri sono solidi e fanno rumore, troppo rumore.
No, ti prego, non entrare, non bussare alla mia porta; la strada è troppo affollata da visi che non riconosco…non ricordo i tuoi occhi, figlio mio…
Le cose che ho scritto sono tutte balle.
Ogni cosa che scrivo cessa di avere il suo significato ancor prima di esistere.
Appena i pensieri sono stampati non hanno più valore e così è anche quando parlo.
“Ma chi sono io ?
Sono niente in tutto ciò che sta là fuori.
Ma chi sono io ?
Sono tutto in questo vuoto.”
Ma che razza di parte sto interpretando ?
Parlo con i miei fantasmi, con il letto e con la sedia.
Sorridono anche loro.
Non so chi ha vinto, forse il letto, letto grande, letto rosa.
Sono fuori in giardino e il sole mi scalda la pelle, non c’è nessuno e c’è silenzio.
E’ tutto verde e sono tranquilla…ssshhh…ssshhh…ssshhh…fate piano, il gatto sta dormendo; non svegliatelo, si potrebbe spaventare.
Senza Nome aveva faticato tanto per arrivare in nessun posto.
Senza Nome camminava per strada e chiese alla Luna se quella era la direzione giusta per arrivare in nessun posto.
La Luna rispose che tanto era il cammino da fare e che mai sarebbe giunto in nessun posto.
Ma Senza Nome continuava a camminare; passò la Notte e chiese alla Notte se era giusto il suo percorso per arrivare in nessun posto.
E la Notte rispose che molto sudore ancora doveva cadere dalla sua fronte e che mai sarebbe giunto in nessun posto.
Senza Nome stanco si sedette sotto il Sole cocente e quel caldo gli toglieva le forze.
Senza Nome pianse a lungo.
Una Nuvola passò, vide quel poveretto, si fermò sopra di lui e chiese il suo nome.
Egli, alzando lo sguardo sorpreso, rispose che era Senza Nome e che aveva faticato tanto per arrivare in nessun posto, ma che nessuno ancora gli aveva detto se quella era la direzione giusta.
La Nuvola sorrise e cominciò a danzare nel Cielo.
“Tu non sei Senza Nome, perché sei figlio del Cielo e della Terra, tu non sei Senza Nome perché sei Creatura che cerca e mai dunque arriverai in nessun posto, perché sei già giunto alla tua meta.
Hai parlato alla Luna, hai parlato alla Notte, hai pianto molto, o Creatura.
Senza di te io non avrei chi riparare dal Sole, quel Sole che non avrebbe più nessuno da riscaldare.
Sei già arrivato dunque, perché questo è il tuo posto, fra il Cielo e la Terra, nel Giorno e nella Notte.”
Allora Creatura si alzò in piedi e si mise a danzare con la Nuvola.
Senza Nome ascoltava la Nuvola come aveva ascoltato la Luna e come aveva ascoltato la Notte.
Tante vite sono appese a un filo e rincorrono la luce.
Fermati un attimo o anima ribelle.
Ascolta ciò che dice il tuo cuore, raccogli quel che ti porta l’eco del tuo cuore, perché tuo è il canto e tutto ciò che in esso esiste e quando in lontananza vedrai i primi chiarori dell’alba alzati in piedi e comincia nuovamente a danzare.
C’è un colombo e cammina veloce.
Con il becco si procura ramoscelli per costruirsi il nido.
Sta arrivando l’inverno.
E’ tempo di pensare a come fare per sopravvivere.
Devo costruirmi il nido perché sta arrivando l’inverno.
E’ tempo di pensare a come sopravvivere.
E’ tutto verde e sono tranquilla.
A cosa pensi ?
A niente.
Non ho più voglia di parlare; le cose che dico sono tutte cazzate.
Buongiorno dottoressa, ben tornata.
Prende un caffè ?
Si, grazie, senza zucchero e con un po’ di latte.
Guarda caso, proprio come lo prendo io.
Beh, fumiamoci una sigaretta e poi chissà che non ci venga in mente qualcosa da dire.
“In un posto lontano, in un posto qualunque sembra proprio che sia nato un bambino.
Non ha niente di male, non ha niente di anormale, tranne il fatto che ha uno strano dentino.”
E come foglia staccata dal ramo
così il tuo pensiero passava:
tiepida pioggia, lama tagliente,
veleno che scorre nella tua mente
e nel tempo fermato da palpebre chiuse
così il tuo corpo composto giaceva.
E come te nessun altro vidi goder del profondo sonno
e tutto si sciolse d’incanto.
Solo il calore di un candido letto,
circondato da mura accoglienti,
nel tempo fermato da palpebre chiuse,
così il tuo corpo composto giaceva.
Il silenzio regnava,
la notte restava
e come foglia staccata dal ramo
così il tuo pensiero passava.
Tiepida pioggia,
lama tagliente,
veleno che scorre nella tua mente
e mai come te nessun altro vidi godere del profondo sonno.
Si potrebbe giocare un pochino con quella bimba che si vuol divertire.
Si potrebbe giocare un pochino con i colori dell’arcobaleno
che risplendono come fiamme d’inferno nei lunghi mesi del freddo inverno.
Si potrebbe giocare un pochino
quando il sole spunta al mattino
o sotto la pioggia
o sotto il sole dell’estate
o quando cade la neve per intere giornate.
Però ora basta perché adesso è tardi.
E le dico di tacere, ma la bimba vuol sapere.
E le dico di dormire, ma la bimba non ha sonno.
Le ridico di tacere, ma la bimba vuol sapere.
Ora dorme, ora tace, perché la bimba adesso giace.
Basta, non ne posso più; sta arrivando l’inverno ed è tempo di pensare a come sopravvivere.
La ringrazio dottoressa; è stato un piacere.
La mia testa è piena di frammenti di pensieri, di persone, di immagini.
Si muovono, si urtano e fanno rumore; fanno tanto rumore.
C’è una “me” incazzata ed è molto incazzata.
Ma con chi ?
Con il dottore o con la mamma ?
Con il papà o con lo psicologo ?
Con tutti gli altri o con un altra “me” ?
Siamo in tanti, siamo in troppi e siamo tutti lì, tutti lì fuori.
Mi guardo, mi vedo, mi osservo.
Siamo gli Stati uniti d’America, ma non c’è il presidente.
Ogni stato ha un colore, ma non c’è il presidente.
Questo è il mio regno; farei sparire un po’ di gente con uno starnuto.
Sono ritornate le mosche e quando si avvicinano tu sai che stai per morire.
Le mie mani puzzano di cane, ma non ci sono cani qui.
Ho detto in gruppo che mio padre non esiste, ma è anche l’unica persona che esiste.
Lui è buono con me…; mia madre dice che pensa solo a se stesso.
Lui mi dà i soldi per comprare le sigarette…; mia madre dice che non contribuisce economicamente alla famiglia.
Lui coglie le mie sfumature…; mia madre non mi conosce affatto.
Lui ha giocato con me…; mia madre dice che guarda solo la televisione.
Lui dice che quando è fuori casa è sempre gioioso e socievole, ma quando è in casa è sempre serio.
Io ho tanti padri e forse neanche uno.
Una volta ho detto: “ IO SONO LA TELEVISIONE DI PAPA’ E LA CACCA DELLA MAMMA.”
Sono una televisione, si può cambiare programma tutte le volte che si vuole, sono tanti programmi, ma non so chi ha il telecomando in mano.
A volte sono una merda, sento la puzza e penso di dare fastidio agli altri.
Ho conosciuto una mamma sola, ma non è quella vera.
Lei, quella vera, è rimasta nascosta.
Diciamo che io ho metà mamma.
Ci sono le mosche e quando le mosche si avvicinano vuol dire che stai per morire.
Centro di riabilitazione: colore azzurro.
C’è tanta gente qui e vorrei essere invisibile.
Vorrei che non mi chiamassero, che si comportassero come se io non esistessi.
Parole – parole – parole.
Non ho voglia di ascoltare.
Ascoltare mi urta i nervi.
Lascia stare, non importa.
Scusa hai da accendere ?
Giallo e rosso fa arancio, uguale “synflex”, ma è un’altra persona: Enrico prima di essere ricoverato in ospedale.
Sono cascata dentro una scatola, la sua scatola e per un momento penso.
E’ una questione di principio, forse.
E’ un’esperienza, credo.
Lascia stare, non importa.
Che marea di cazzate fuori di me, dentro di me !
Cambiamo programma per favore.
Lei, mia zia, parla, parla, parla, ma io non riesco a seguirla.
La mia testa va via, il mio pensiero va via e non so dove; la mia bocca ogni tanto sorride, ma è una cosa meccanica.
Devo salire le scale e andare in camera.
Camera mia, letto grande, letto r…
No cazzo !
Letto nero, arancione, blu, bordeau.
Sono qui, sono chiusa, sono in camera, sono mia e nessuno mi può toccare, nessuno mi può parlare.
E’ come se fossi qui da sempre.
Tanti uomini, tanti soldi.
Stessi mobili, stessi affreschi.
In questa camera c’è il mare, in questa camera ci sono le montagne…; c’è una casa tutta nera con il tetto rosso…: è un affresco sulla testata del letto.
Lasciami qui, lasciami stare.
Vorrei chiudere gli occhi per non pensare più a niente, per non pensare alla gente.
Vorrei andare in un posto lontano dove il buio è sovrano e dove non c’è poesia.
Vorrei spezzare i fili che tengono la mente e lasciarla vagare nello spazio.
Ho un grande senso di vuoto: il mio cervello è giallo, il mio fegato è viola, lo stomaco non c’è più e ho la nausea.
Se hai freddo, prenditi la coperta bianca.
No, grazie, non ho freddo, sto bene così.
MS, nuoce gravemente alla salute.
M come Migliore, S come Samperi.
Sono due grandi teste di cazzo.
Medici in carriera, bravi medici: niente da dire.
Migliore è solo metà, Samperi è due contemporaneamente, ma due diversi: parli con uno, risponde l’altro.
E’ schifoso e bastardo, ma lo amo.
E’ l’unica persona che riesco ad amare, ma è anche l’unica persona che potrei ammazzare.
Un giorno l’ho visto, abbiamo parlato, l’avrei pugnalato ventisette volte, l’avrei sventrato, l’avrei squartato, l’avrei fatto in mille pezzi; lui, invece, non ha il potere di rompermi.
Venezia è una città morta, Venezia è una città psicotica, Venezia è un corpo umano con le vene e i globuli rossi, ma a Venezia ho rischiato di perdere l’anima perché vivevo la sua follia.
Quanta gente in questa casa !
La senti parlare, rumori di macchine, campane che suonano…, fateli smettere !
Penso che fra un po’ pioverà.
Non ho voglia di scendere.
Buongiorno dottoressa.
Sì, lo so; lei ha cucinato per me e devo proprio mangiare.
Sono una stronza, sono cattiva, sono egoista.
No, non è vero !
Sì invece, è vero !
Devi solo trovare la tua strada, ma io una strada ce l’ho già, ho casa, figli, famiglia.
Ma non stai bene lì ?
Dovrei farlo, invece, dovrei adattarmi, collaborare, trovarmi un lavoro.
Se tu avessi un tuo spazio, saresti più presente in casa; così com’è adesso, non va, lo vedi da sola che non va.
E cosa faccio, allora, me ne vado ?
Sarei egoista.
Perché non sei egoista adesso per come ti comporti ?
Sì, lo sono !
Andate affanculo tutt’e due, mi avete rotto.
Onda, un quadro, un pittore omosessuale, un critico d’arte, una pranoterapeuta anche lei pittrice, un personaggio che osserva la scena.
Devo spegnere la sigaretta.
Il pittore omosessuale dipinge, mentre il critico d’arte gli fa delle “avances”.
La pranoterapeuta è serena e non pensa più al suo fidanzato di trent’anni più giovane di lei che ha speso tutti i soldi del mese al casinò.
E poi è felice perché ha localizzato la persona che ha rubato tre milioni al critico d’arte.
Portacenere rosso.
La radio continua a suonare, l’onda è bella, è massiccia.
Buono il polpettone, ma senti che tosse che hai.
L’osservatore ride, ma è una risata meccanica, si guarda intorno e non capisce; la radio continua a suonare, il critico d’arte vuole lasciare il quadro a metà perché gli piace così, il ladro è fuggito in Grecia…
Solitudine anche in mezzo a tanta gente e ho un senso di vuoto.
Tutto è così lontano, così strano, così irreale, sembra quasi un sogno a occhi aperti.
Mi passi un accendino per favore ?
La scatola è lì, nel cassetto.
Sì, certo, tieni.
L’accendino è arancione, ovviamente.
Adesso che sono qui, in questo letto che non è mio, vedo i miei figli e non posso chiudere la luce perché vedo i loro volti.
Non ho il coraggio di affrontarli; li sto uccidendo.
Non ho più voglia di andare a casa, non ho più voglia di andare al Centro; voglio restare qui, in questa camera con la luce accesa tutta la notte e scrivere su questo quaderno.
Spegni la radio per favore.
Scrivere è come cagare e io ho la dissenteria.
Chiudo gli occhi con la luce accesa per non vedere nessuno, ma mi si sbarrano.
Ho un bisogno impellente di scrivere; forse qualcuno mi obbliga a scrivere.
Il cuore batte forte, ho un nodo alla gola e non riesco a deglutire.
Lui dormiva e io mi masturbavo, lo accarezzavo, lo abbracciavo e lui dormiva.
Mi piace far sesso con i gatti; loro non ti penetrano, al massimo ti leccano.
Gli uomini mi fanno schifo; le donne mi fanno schifo.
Ho fatto sesso con molte cose e con molte persone.
Mio figlio dormiva e io mi masturbavo, lo accarezzavo, lo abbracciavo e lui dormiva.
Credo che questa notte mi sia venuto in mente il sesso perché sono qui, in questo letto.
Qui, in questo letto, portavo i clienti, non tutti, solo gli ultimi della serata e così mi riportavano a casa.
Era più comodo farlo a letto, ma era anche una rottura perché durava di più.
Quando ci appartavamo in macchina e “lui” cominciava a spogliarsi, io diventavo un automa, il corpo non era più mio e uscivo dalla macchina con la mente mentre il mio corpo dava le sue prestazioni.
Lo sentivo entrare dentro di me e mi prendeva lo stomaco, ma non m’importava niente.
A volte mi faceva male, le mie mandibole si irrigidivano, ma non m’importava niente.
Io stavo fuori e non si vedeva niente dentro la macchina perché i finestrini erano appannati, ma non m’importava niente.
Avevo un’amica che lavorava come me; l’hanno uccisa, ma non m’importava niente e così il giorno dopo mi sono messa nel suo posto.
Fumiamoci un’altra sigaretta e poi basta, cerchiamo di dormire.
Hai bisogno di lavorare e di guardare avanti, non hai bisogno di ritornare indietro.
Cosa te ne fai di questi ricordi, il passato è passato fortunatamente.
Sì, hai ragione, ma c’è una forza che mi spinge giù, in fondo; è un vortice che mi aspira e io non ho la forza di reagire.
Voglio un “tavor”.
Questa mattina eravamo in riunione.
Mi sentivo strana e mi chiedevo perché; poi è entrato Enrico e mi sono resa conto che stavo facendo Enrico e allora ho smesso e ho cominciato a odiare tutti.
Mi davano fastidio perché erano tante macchinette che recitavano una parte, ognuno la sua e io le conoscevo tutte a memoria.
Che cosa bevono i bambini ?
Sangue.
Ho rubato una penna al Centro e ho rubato dei soldi a mia sorella, ho rubato per un attimo il posto di Enrico.
Quando ero in carcere pisciavo nel letto e avevo paura di tutti.
Sentivo l’odio e la rabbia che mi sfioravano la pelle e avevo paura di tutti.
Mi hanno tenuto quattro mesi in infermeria perché non riuscivo ad andare in sezione; avevo paura di tutti.
Mia sorella mi ha preso i colori, i colori e i pennelli.
Dove sono ?
Li rivoglio indietro subito, adesso.
Quanto mi faccio schifo.
Continuo a scrivere e non so nemmeno io perché lo faccio.
Forse è una necessità.
Scrivere mi serve per svuotare la testa.
Quello che scrivo è così privo di sostanza; sono una marea di cazzate ed è meglio essere chiunque nella fantasia che nessuno nella realtà, una realtà che mi sono lasciata alle spalle forse quando disegnavo il contorno dei quadretti di un quaderno dietro un banco di scuola, pagina dopo pagina, colore dopo colore.
E poi, un giorno, il maestro mi chiese il quaderno e cominciò a sfogliarlo pagina dopo pagina, colore dopo colore.
Un infinito oceano di mattoni.
Penso che andare a Venezia mi ha rovinato la vita.
Non so più come vivere; per il momento so solo sopravvivere.
Tutti hanno dei doppi, dei tripli o dei quadrupli; siamo poliedrici a volte mimetici.
Al mattino mi sveglio, indosso il vestito di un uomo e mi addormento con quello.
Ma forse è normale essere così.
E’ la vita.
L’importante è stare bene sempre e comunque, capire i bisogni degli altri e soddisfarli senza pensare più a se stessi.
In un certo senso morire dentro per vivere.
Ma la mia testa cambia idea così spesso che non capisco più niente.
Essere come gli altri é diventare gli altri.
Quando, anni addietro, andavo a prendere i miei figli a scuola e li aspettavo fuori, diventavo ansiosa, mi si annebbiava la vista e avevo paura di non vederli, di non riconoscerli; allora dovevo pensare di essere mia sorella e in quella parte mi tranquillizzavo.
Quando sono in gruppo e divento ansiosa, punto qualcuno senza volerlo e lo riconosco nel mio agire e nel mio sentire; così mi tranquillizzo.
Forse è così che bisogna vivere: accettare di essere morti da tanto tempo e forse accettare di non essere mai nati come i miei quattro figli per vivere liberamente la vita degli altri.
E quella parte di noi che soffre per questo motivo, perché comunque c’è sempre una parte di noi che si sente esclusa da tutto, ebbene, quella parte si può vivere di notte o in un tazza di caffè.
Loro: “Il caffè, il caffè, sì, il caffè !”
Lei: “No, basta, sono stanca.”
L’altro: “Ha una chiave dietro la schiena.”
Loro: “Il caffè, il caffè, vogliamo il caffè !”
Lei: “No, basta, sono stanca. Penso che aprirò le finestre di questa stanza e farò entrare gli ultimi raggi di sole prima che arrivi l’inverno.”
L’altro: “Ah, l’inverno !”
Loro: “Quale inverno ? Il nostro inverno o il tuo inverno ?”
Lei: “No, basta, sono stanca.”
Loro: “Dicci, dicci: il nostro o il tuo inverno.”
L’altro: “Ha una chiave dietro la schiena.”
Loro: “Vogliamo il poeta Pupazzetto. Poeta Pupazzetto parlaci della sofferenza, sì, della sofferenza. Bravo, bravo ! Viva, viva il poeta Pupazzetto.”
L’altro: “Ha una chiave dietro la schiena.”
Loro: “Gira, gira ! Viva il poeta Pupazzetto.”
L’altro: “Così dice Fernando Pessoa. Poverina le manca la mamma, poverina, poverina. Su, andiamo a compatirla.”
Loro: “La mamma, la mamma, su poverina, poverina.”
L’altro: “Lei piange, ma non piange. Lasciatela piangere, però non sta piangendo.”
Lui: “Smettila, stronza, imbecille, smettila, smettila ! Non riesco proprio a capirla.
O fa le cose come si deve e per scelta, altrimenti non riesco proprio a capirla.”
L’altro: “Ma lasciatela stare, non ha niente che non va; sta solo pensando come fa il pescatore. Prima o poi raccoglierà le reti; sta solo pensando, non c’è niente che non va. Il suo corpo è malato, il suo corpo è ripiegato e non c’è niente che non va.
Smettetela, smettetela ! “Preferisco essere ignorato con decenza e naturalezza”: cosi dice Fernando Pessoa. Un libro con tanti o pochi capitoli: questo è un capitolo così, ce n’è finché vuoi, fregatevene e lasciatela stare. E’ tutto perfetto, hanno detto. Sì, ci siamo dimenticati di andarlo a prendere a scuola e lui è scappato di casa e hanno revocato l’affido. Poveri genitori, calunniati, calpestati, esasperati. Lui è scappato di casa, ma lascialo andare.”
Lui: “Smettila, smettila !”
L’altro: “Lascialo andare; è in confusione.”
Loro: “Poeta Pupazzetto parlaci della confusione, sì, la confusione, vogliamo la confusione. Viva, viva il poeta Pupazzetto. Parlaci della confusione.”
Lei: “E’ tutto verde e sono tranquilla.”
Loro: “Viva, viva il poeta Pupazzetto.”
L’altro: “Così dice Fernando Pessoa.”
Lei: “Questa notte ho dormito sul divano e si stava bene lì.”
L’altro: “Coraggio, coraggio. Bisogna sempre andare avanti e affrontare le difficoltà.”
Loro: “Le difficoltà, parlaci delle difficoltà, su poeta Pupazzetto, parlaci delle difficoltà. Viva, viva il poeta Pupazzetto.”
L’altro: “Non può nemmeno andare a letto a dormire, resta seduta e guarda l’orizzonte, ma dopo scenderà.”
Loro: “Non parla, non parla. Perché non parla con nessuno ?”
L’altro: “Non vuole, non riesce, non se la sente.”
Loro: “Non vuole, non vuole. Su poeta Pupazzetto dicci che non vuole.”
L’altro: “Non c’è niente che non va. Lei farà tutte le cose che ci sono da fare.
Non c’è niente che non va.”
Lei: “Troppe sigarette sto fumando, troppe. Tutto in un istante morirà.”
L’altro: “S’è fatto tardi, s’è fatto sempre più tardi. Non c’è niente che non va. Si è fatto tardi.”
Loro: “Su poeta Pupazzetto parlaci del tempo che corre. Su, vogliamo il tempo che corre. Viva, viva il tempo che corre.”
L’altro: Ma lei farà tutte le cose che ci sono da fare.”
Lei: “Ho voglia di un caffè.”
Lui: “Perché non scendi, non vai giù e ti dai da fare ?”
Lei: “Non ho voglia.”
Lui: “ Ma sai di quante cose non ho voglia io ? Eppure le faccio. Mettiti in gioco.”
Lei: “Sto già giocando un gioco tutto mio: il gioco di non rispettare le regole. Chi rispetta le regole non gioca più.”
Lui: “Ti prenderei a sberle, imbecille che non sei altro. Fai come ti pare, ma ricordati che la partita la devi giocare.”
L’altro: “Ma perché non la piantate ? Lascia che si crogioli nel suo brodo e prima o poi la smetterà. Ignorala con decenza e naturalezza.”
Loro: “Viva, viva il poeta Pupazzetto. Parlaci del tuo brodo, sì, il brodo. Vogliamo il brodo; viva, viva il brodo. Viva, viva il poeta Pupazzetto.”
Lei: “Ho sonno e vorrei un caffè.”
L’altro: “Non sa più cosa dire. Lasciala stare perché non sa più cosa dire.”
Lui: “ Stai attento a non cadere ragazzino. Potrebbero riderti in faccia. Muoviti piano piano nell’oscurità che avvolge quel parco.”
L’altro: “E’ nella sua torre, una torre di sabbia. Scappa, scappa. Lasciala stare.”
Lei: “Una vena sottile di veleno scorre tra me e loro.”
Lui: “Facciamola finita. Prendiamo i martelli e buttiamo giù il muro.”
L’altro: “Scappa, scappa. Lasciala stare.”
Loro: “Su poeta Pupazzetto, dicci che vuoi scappare. Viva, viva, vuol scappare. Bravo, bravo poeta Pupazzetto; è tutto finito.”
Lei: “E’ tutto finito.”
Lui: “Lo so che è tutto finito.”
L’altro: “Ma il personaggio recita ancora. Non c’è niente che non va, ma lei recita ancora.”
Lui: “Dille di smettere ! Perché recita ancora ?”
L’altro: “Non vuole parlare e quando piange non riesce a piangere perché si sente osservata.”
Loro: “Viva, viva la telecamera. Su poeta Pupazzetto parlaci della telecamera, la telecamera. Viva, viva la telecamera.”
Lui: “Lo sai che quando ci sono le telecamere è perché vuoi essere guardata.”
Loro: “Sì, quando piange c’è la telecamera. Quando piange vuol essere guardata.
Viva la televisione, viva lei che sta piangendo.”
L’altro: “ Su, compatitela. Poverina sta piangendo. Smettetela ! Lasciatela stare, lasciatela sola, smettetela, smettetela.”
Lei: “Sta passando, sta passando tutto.”
L’altro: “Non c’è niente che non va. Lei farà tutte le cose che ci sono da fare.”
Loro: Viva le cose che ci sono da fare ! Poeta Pupazzetto parlaci delle cose che ci sono da fare.”
Lui: “Lei racconta un sacco di frottole.”
Loro: “Perché lei racconta un sacco di frottole ?”
Lui: “Lei è Pinocchio che racconta un sacco di frottole. Lei è l’Italia burocratica che racconta un sacco di frottole, ma non può continuare all’infinito questa storia.”
Loro: “La storia, la storia. Vogliamo la storia, sì ! Poeta Pupazzetto raccontaci la storia.”
L’altro: “Lei sta male, è in confusione, ha paura di diventare una persona vera.
Forse questa è la vera storia. Non c’è niente che non va. E’ tranquilla dentro; il suo corpo è malato, ma la pancia, la pancia è tranquilla. Il suo cervello è in confusione.
La faccia …”
Loro: “E la faccia ? Su poeta Pupazzetto parlaci della faccia. Vogliamo la faccia.
Viva, viva il poeta Pupazzetto.”
L’altro: “La faccia è seria, non parla, non parla. Questa è la vera storia.”
Lei: “Ma quand’è che il grillo smetterà di cantare ? Quando il grillo smetterà di cantare per capire quando il grillo smetterà di cantare.”
Lui: “Lei recita tutti, però se ne sono andati via tutti. Lei è attrice di un teatro dimesso.”
Loro: “Che bello, che bello ! Un teatro dimesso. Viva, viva il teatro dimesso.
Poeta Pupazzetto parlaci del teatro dimesso.”
L’altro: “Lei, quando è in camera, parla da sola: si chiede e si risponde.”
Loro: “Che bello ! La camera. Che bello ! Si chiede e si risponde.”
L’altro: “Non c’è niente che non va.”
Lui: “Su basta, facciamola finita. Ci sta prendendo in giro. Basta, basta, facciamola finita.”
Loro: “Ci sta prendendo in giro, ci sta prendendo in giro, facciamola finita, facciamola finita poeta Pupazzetto. Raccontaci della fine. La fine, la fine, vogliamo la fine. Viva, viva la fine. Bravo, bravo poeta Pupazzetto.”
Lei: “Per quanto tempo durerà questa battaglia, per quanto tempo durerà questa lotta così inutile dove non ci saranno né vinti, né vincitori.”
L’altro: “Per quanto tempo ancora dovrai nasconderti per paura che qualcuno ti riconosca, per quanto tempo ancora dovrai continuare a cercare qualcosa per accorgerti che davanti a te c’è il muro. Ma forse un giorno troverai i colori e potrai dipingere su quella parete. Solo allora potrai dire che il muro sta dietro, ma sarà solo l’ennesima illusione, l’ennesima triste illusione. Potrai vedere i narcisi dipinti e vestiti a festa, le dodici viole, le margherite del campo e i rossi papaveri, ma tutto ciò che è resterà comunque. Potrai vedere il volo delle anatre e i bianchi cigni dello stagno, ma tutto ciò che è resterà comunque. Potrai vedere orizzonti lontani dove il cielo e la terra si uniscono, dove il sole si cala nel mare, ma tutto ciò che è resterà comunque.”
Loro: “Il muro. il muro, vogliamo il muro. Viva, viva il muro ! Prendiamo i martelli poeta Pupazzetto e buttiamo giù il muro. Prendete i martelli e buttate giù il muro, il muro. Vogliamo il muro. Parlaci del muro poeta Pupazzetto.”
Lei: “Prendete i martelli e buttate giù il muro.”
Loro: “Viva, viva il poeta Pupazzetto.”
Lei: “Penso che mi prenderò una pausa e per un pò non scriverò più. Voglio aprire le finestre di questa stanza perché c’è tanta aria viziata e bisogna farla circolare. Farò entrare gli ultimi raggi di sole prima che arrivi l’altro inverno.”
Loro: “La stanza ! Quale stanza ?”
L’altro: “Vuole aprire le finestre della sua stanza. Cercava da tempo una stanza, ma la stanza non c’era.”
Loro: “Ma è la sua stanza. Vuole aprire le finestre della sua stanza ! Su, dai, apriamo le finestre della sua stanza !”
Lui: “Smettila ! Quale stanza ! Lasciatela stare.”
Lei; “Fa già freddo fuori e non c’è nessuno.”
Loro: “Fa già freddo fuori e non c’è nessuno.”
Lui: “Fregatevene. Che v’importa ! Se l’è voluta lei.”
Loro: “Fa già freddo fuori e non c’è nessuno.”
L’altro: “S’è fatto tardo, ma lei farà tutte le cose che ci sono da fare. E’ solo paura, non c’è niente che non va.”
Loro: “La paura ! Viva la paura ! Bravo poeta Pupazzetto, parlaci della paura.”
L’altro: “Lei ha paura di uscire.”
Loro: “Di uscire da dove ?”
L’altro: “Lei ha paura di uscire dalla sua stanza.”
Lei: “Fa già freddo fuori e non c’è nessuno.”
Lui: “Stupida, imbecille, che cosa credevi di fare ? Adesso ti arrangi. E’ inutile che ti lamenti perché te la sei voluta.”
L’altro: “Lasciala stare, non c’è niente che non va. Lei farà tutte le cose che ci sono da fare. Non c’è niente che non va, lasciala stare !”
Loro: “Ma non c’è nessuno fuori !”
L’altro: “Non è vero che non c’è nessuno fuori. E’ solo lei che non se ne accorge.”
Loro: “Non se ne accorge ! Bravo poeta Pupazzetto, parlaci di chi non se ne accorge.”
Lui: “Ma che v’importa, sono affaracci suoi, si poteva svegliare prima. Fuori solo i duri reggono il gioco.”
L’altro: “Ma lasciatela stare, lasciatela sola, ha bisogno di ritrovarsi, di guardarsi intorno, non c’è niente che non va, lei farà tutte le cose che ci sono da fare.”
Lei: “E’ difficile fuori.”
L’altro: “C’è il muro.”
Loro: “Il muro ! Il muro!”
Lei: “C’è il muro…”
Loro: “Chi ha fatto il muro ? Prendete i martelli e buttate giù il muro ! Chi ha costruito questo muro ? Prendete i martelli e buttate giù il muro !”
Lui: “Ma io non capisco. Se n’è stata fino adesso nel suo brodo e adesso pretende che facciamo qualcosa. Lasciate che si arrangi !”
Loro: “Perché lasciate che si arrangi ? Chi ha costruito questo muro ? Buttiamo giù il muro !”
L’altro: “Ma non c’è niente che non va. Datele tempo perché lei farà tutte le cose che ci sono da fare. Lasciatela stare e smettetela ! Lasciatela in pace, perché lei ha solo bisogno di tempo.”
Loro: “Ha bisogno di tempo ! Bravo, bravo poeta Pupazzetto, parlaci di chi ha bisogno di tempo.”
Lui: “Io non ho tempo da perdere !”
Loro: “Parlaci di chi ha bisogno di tempo.”
L’altro: “E’ solo questione di tempo e anche l’inverno passerà.”
Loro: “E anche l’inverno passerà.”
L’altro: “E’ solo questione di tempo e anche il muro crollerà.”
Loro: “E anche il muro crollerà.”
L’altro: “E’ solo questione di tempo e lei uscirà e qualcuno entrerà.”
Loro: “E lei uscirà e qualcuno entrerà.”
L’altro: “E’ solo questione di tempo e troverà la sua stanza.”
Loro: “ E troverà la sua stanza.”
Lei: “Ho freddo, ho bisogno di una coperta in più.”
Loro: “Dov’è la sua stanza ?”
L’altro: “La sua stanza non c’era e non c’è.”
Lui: “Piantatela, mi fate ridere. Non vedete che a lei non gliene frega niente ? State perdendo il vostro tempo ! Lei sta bene così e di voi non gliene importa niente. Ci sta solo prendendo in giro e voi dite “poverina, poverina,…”
Loro: “Poverina ! Poverina !”
L’altro: “Il sole arriverà a scaldare anche la sua stanza.”
Loro:
“La stanza ! La stanza ! Quale stanza ?”
L’altro:
“La sua stanza non c’era e non c’è.”
Lui: “Esci, esci da quella maledetta stanza !!!”
Loro:
“La stanza ! La stanza ! Quale stanza ?”
L’altro:
“La sua stanza ancora non c’è.”
Lei: “Ho sonno e vorrei un caffè.”
Loro: “Il caffè ! Il caffè ! Bravo poeta Pupazzetto, parlaci del caffè.”
Lui: “Ma quale caffè ? Lei deve darsi una mossa e non statele così appiccicati. Che si arrangi, che si alzi, che esca da quella stanza !”
Loro: “La stanza ! La stanza ! Quale stanza ?”
L’altro: “La sua stanza ancora non c’è.”
Loro: “Ma che esca da dove ?”
Lui: “Dalla sua stanza !”
L’altro: “La sua stanza ancora non c’è.”
Loro: “Una prigione ! La sua stanza è una prigione.”
L’altro: “La sua stanza ancora non c’è.”
Lei: “Ho voglia di una sigaretta.”
Lui: “Sì, ho voglia di un caffè, ho voglia di una sigaretta… Ma quando ti dai da fare ?”
Loro: “La sua stanza è una prigione !”
L’altro: “La sua stanza ancora non c’è.”
Loro: “Ma dov’è la sua stanza ? Dov’è la sua prigione ?”
Lui: “Ce l’ha in testa la sua prigione, cosa credete !”
Loro: “Ce l’ha in testa la sua prigione.”
Lei: “Prendete i martelli e buttate giù il muro.”
Loro: “Ce l’ha in testa la sua prigione, ce l’ha in testa la sua stanza.”
L’altro: “Lasciatela stare, non ha niente che non va. Lei farà tutte le cose che ci sono da fare.”
Loro: “Ma la sua stanza è una prigione !”
L’altro: “Lasciatela stare, non ha niente che non va.”
Loro: “Ma la prigione è in testa !”
L’altro: “Lasciatela stare, non ha niente che non va.”
Loro: “Ma la sua stanza è in testa !”
L’altro: “La sua stanza ancora non c’è.”
Lui: “Su, dai, andiamocene via e lasciamola nelle sue prigioni. Fregatevene e lasciatela stare.”
Loro: “Ma la prigione è in testa !”
Lei: “Sono stanca e vorrei dormire.”
L’altro: “Non c’è niente che non va. Lei farà tutte le cose che ci sono da fare.”
Loro: “Prendiamo i martelli e buttiamo giù il muro.”
Lei: “Basta, sono stanca.”
Loro: “Prendete i martelli e buttate giù il muro.”
Lei: “Basta, lasciatemi sola.”
L’altro: “Lasciatela stare, non c’è niente che non va.”
Lui: “Fregatevene e lasciatela stare, lasciatela nelle sue prigioni. Prima o poi la smetterà.”
Lei: “Basta, lasciatemi sola.”
Loro: “Lasciamola sola ! Bravo poeta Pupazzetto, dicci cosa vuol dire stare da sola.
Su, dicci cosa vuol dire stare da sola.”
L’altro: “Sì, lasciatela sola, non c’è niente che non va, uscirà dalle sue prigioni.”
Loro: “Le prigioni ! La stanza ! Il muro !”
L’altro: “La sua stanza ancora non c’è.”
Loro: “Buttiamo giù il muro !!!”
Lui: “Ma quale muro, se l’è costruito lei e adesso si arrangi. Se vuole, che ne esca da sola.”
Loro: “Ma lei non ce la fa da sola.”
Lui: “Ma che v’importa !”
Loro: “Ah ! L’indifferenza ! Viva l’indifferenza ! Bravo poeta Pupazzetto, parlaci dell’indifferenza.”
L’altro: “E’ rimasta per troppo tempo nella sua stanza e adesso…Fa freddo fuori, ha solo paura, ha bisogno di tempo…”
Loro: “Il freddo ! La paura ! Il tempo ! Ma quanto tempo ?”
Lui: “Ma che v’importa del tempo ! Io non ho tempo da perdere. Che se la sbrighi da sola.”
Lei: “Devo aprire le finestre di questa stanza, c’è aria viziata e bisogna farla circolare.
Farò entrare gli ultimi raggi di sole prima che arrivi l’inverno…ma fa freddo fuori.
Forse l’inverno è arrivato.”
Loro: “Le prigioni ! L’inverno ! Quale inverno ? Il nostro o il tuo inverno ? Dicci poeta Pupazzetto: il nostro o il tuo inverno ?”
Lei: “Il mio inverno, l’inverno dell’anima, di quando si raggela dentro e non ti accorgi di niente…fa freddo fuori e non c’è nessuno.”
Loro: “Fa freddo fuori e non c’è nessuno.”
L’altro: “Non è vero che non c’è nessuno, è solo che non se ne accorge, non è vero che non c’è nessuno, ha solo bisogno di tempo.”
Lui: “Ma quale tempo, io non ho tempo da perdere.”
Loro: “E’ solo che non se ne accorge.”
Lei: “Ma, ma cos’è stato ?”
Loro:
“Oohh, cos’è stato ?”
Lei:
“Sento dei rumori, delle voci forse.”
Loro: “Sente delle voci.”
Lui: “Sente, è la solita storia. Ma lasciatela perdere.”
Loro: “No, sente, sente !”
Lei: “Ma cosa sta succedendo !”
L’altro: “State zitti, forse se ne accorge, state zitti.”
Loro: “Se ne accorge, se ne accorge. Il muro, forse il muro sta crollando.”
L’altro: “Forse il tempo é passato, il sole é entrato nella sua stanza ed é tempo anche per noi di andare.”
Loro: “Di andare dove ?”
L’altro: “Di andarcene.”
Loro: “Moriremo ?”
Lei: “Ma chi sei ? Vieni avanti.”
Loro: “Moriremo ?”
L’altro: “No, è solo tempo di andare per lasciare spazio a qualcuno.”
Loro: “Qualcuno chi ?”
L’altro: “Sssshhhh “
Loro: “Moriremo…ce ne andremo…lasciar spazio…”
L’altro: “Sssshhhh”
Loro: “Sssshhhh”
Lei: “Ma chi sei ? Vieni avanti…”
C’è una siepe stretta fatta di alloro da una parte e dall’altra, in mezzo una via.
Un cervo camminava lungo la strada sempre dritto e non si fermava mai. Poi la via finì davanti il vuoto e un banco denso quasi nebbia.
Non so più dove mi trovo.
Qual’è la stanza da vivere e dov’è che dobbiamo sentirla.
Mia zia mi ha comprato colori e pennelli, ma non ci sono colori dentro di me, sono tutti fuori lì sparsi per la casa.
Ho un senso di nausea e mi viene da vomitare.
Una volta, quando ero più piccola, c’era una donna che abitava con noi.
Era una donna posseduta dal demonio o forse era semplicemente isterica.
L’hanno esorcizzata e, quando il prete telefonava, lei si irrigidiva tutta solo a sentire il suono della sua chiamata.
Il tempo poi passò e lei se ne andò.
Un giorno, quando ero già sposata, tornò a trovarci. Era in camera di mia mamma e improvvisamente cadde a terra.
Io la sostenevo e lei diceva che lui, lui Satana, non mi avrebbe toccata e non mi avrebbe fatto del male.
A mia madre avevano detto che mi avevano fatto una maledizione e che era stata mia suocera e che mi avrebbe portato alla pazzia.
In soffitta, in direzione del punto esatto dove era caduta la donna, c’erano due vasi. Erano un regalo di mia suocera.
Mia madre andò a prenderli e appena li prese cominciò a vomitare.
Avevo una sveglia, una radiosveglia. Me l’avevano regalata per Natale i suoceri.
Una notte mi svegliai e la radio era dentro l’armadio. Sentivo la sua presenza, mi sentivo spiata e controllata. Mi alzai, ma non avevo il coraggio di toccarla e così andai a svegliare mia madre che la prese e la buttò via.
Andai da un esorcista e avevo paura di stare male. Mi spruzzò l’acqua benedetta addosso, mi mise un crocifisso sulla spalla e disse una preghiera in latino.
Il mio cuore batteva forte e avevo paura, ma non successe niente. Avevo il rifiuto di tutte le immagini sacre perché pensavo che a vederle sarei stata male.
Dentro la federa del mio cuscino mia madre aveva messo un’immagine esorcizzata. Mi accorsi di questo e non riuscivo più a dormire fino a quando non tolsi l’immagine.
Quando ero in comunità a Vicenza, c’era un ragazzo molto giovane che aveva partecipato a delle messe nere.
Una notte decisero di fare una seduta spiritica e il bicchiere si mosse e formò la parola Belzebù, il signore delle mosche.
Nei giorni seguenti tutti quelli che avevano un partecipato alla seduta si facevano male o stavano male.
C’era una corrente negativa nell’aria, si respirava e si annusava.
Ogni sera io pregavo e pregavo Satana perché facesse del male a un ragazzo che mi stava dietro e lui ha cominciato a star male.
Un operatore un giorno si è messo a gridare come un forsennato chiedendo chi avesse messo nella tasca del giubbotto di questo ragazzo un bicchiere con del tabacco dentro.
Io non ho capito perché avesse dato tutta questa importanza e che significato poteva avere, ma questo ragazzo poi, oltre a essersi slogato una caviglia, ha cominciato a impallidire giorno dopo giorno.
Un giorno ero in cucina e mi venne uno sforzo di vomito. Mi girai e c’era il prete. Sono corsa in bagno a vomitare.
Un’altra volta eravamo tutti in riunione e io cominciai a muovermi, ad agitarmi, a tossire. Non riuscivo a stare ferma. Poi dopo un po’ entrò dalla porta il prete.
nNon so nemmeno io perché mi succedevano queste cose. A volte pensavo di essere indemoniata e questa cosa mi dava un senso di potere nei confronti degli altri. Ma la maschera, se le si dà tempo, finisce col diventare la faccia stessa.
E’ una sensazione che mi invade l’anima