
Vita et dulcedo,
speranza nostra,
salute a te,
o dolce signora delle profondità alte e basse,
fiat tua voluntas,
atque noluntas,
sicut in coelo et in terra,
nella Filosofia di Arthur e di Soeren,
nonché sul lago dorato insieme a Henry o a Norman,
là dove si posa una speme,
una speranza fulgente come la lastra di ghiaccio sottile
che in gennaio copre le giovani acque del ruscello,
quando la luce si infrange e si indovina il mare,
quella speme che di cotanta attesa oggi ci resta,
un uomo bambino in un bambino uomo,
un agente birichino e impertinente dell’effebiai.
del kappagibi,
de li mortacci sua.
Rigenerati dulcis virgo,
mecum dallo spazio finito all’aldilà dell’universo,
nell’Oltrità degli amici di Sigismondo,
nell’Es rivolto all’insù
come il nasino dei bambini
quando guardano i palloncini sfuggiti di mano
che vanno in cielo per l’azzurrità.
Quale cielo,
advocata nostra,
quale portento con tutti questi demoni accanto,
quale nouminoso pensiero si cela nel pensabile,
quale fenomeno mistico appare tra le pieghe della tua mente
mentre l’anima di Elisa vola
perché non si crea e non si distrugge.
L’anima è quella tartaruga
su cui poggia la maltrattata Terra,
una serie di associazioni di idee
che portano al Salve Regina,
io che conosco a memoria due preghiere
e che amo solo il Padre Nostro.
L’anima è la preziosa parte femminile
che concilia con l’universo,
che fonde con il cosmo.
Un pensiero insolito,
quindi,
ma le preghiere sono poesie,
si insinuano tra le pieghe della logica,
belle come un desiderio.
Immagina la sorpresa della mattina,
quando si legge una poesia,
quattro versi sgangherati o in fila indiana
che sprizzano al Prosecco con Aperol
condito con le noccioline scimmiesche della Novi.
Sembra di abitare in un sogno
dove gli avvenimenti seguono un libero arbitrio,
dove anche l’augello della signorina Aurora vola in alto
a cinguettar.
Si continua in pectore,
si rivela quello che è nascosto dentro il calamaio,
perché con l’inchiostro si scompigliano i fogli
tra il pennino dorato e il manico di madreperla.
Orsù, dunque,
advocata nostra,
rimetti a noi i nostri gemiti,
così come noi li rimandiamo volenter et libenter al mittente,
quel gran figlio di vacca dagli occhi vitrei
che nessuno ferma e tutto distrugge,
advocata nostra
nel tribunale della historia magistra vitae,
matrona del solito bordello di una Malta ingenerosa
e a metà tra la Sicilia e l’Inghilterra
nei costumi degli scostumati indigeni.
Spareremo ancora sugli ultimi degli ultimi,
su tutti i fottuti di questo globo terracqueo
semplicemente perché sono scuri e ci oscurano.
Sava
Carancino di Belvedere 15, 03, 2022