
Oh tu che stai,
oh tu che ristai,
oh tu che ristagni in hac lacrimarum valle,
piacciati di restare in esto loco
anche se la tua loquela ti fa manifesto
di altra nobil patria natio
e alla quale non fosti molesto
traghettando il mare nostrum
in cerca di squali e di balene,
novel Caronte e novel Sardanapalo,
piacciati di giacere con l’esquimese
secondo le ospitali norme di Cupido,
secondo libido orale,
anale,
narcisistica,
edipica,
genitale.
Alsò spracht Sigmund!
Piacciati in cotanta avventura virale
di annegare in calde lacrime
come un amore degli anni sessanta
secondo il sestante di Neil Sedaka,
senza fare i capricci ridicoli
seguendo i bei giorni e il tempo invidioso,
inseguendo Heidy nelle sue montagne
così fredde,
così pungenti,
così maliarde,
accoccolando semi di girasole e ampi consensi.
Proprio perché della fatal quiete tu sei l’imago,
a me sì cara vieni,
oh tosa delle nevi,
delle malghe anguste di muffa,
odorose di ceneri ardenti e di pini aulenti,
nonché di formaggi grassocci,
oh domina delle mie brame,
la più furbetta del reame,
la più costosa del mercato rionale di san Basilio,
all’angolo con la bottega del baccalà e dello stoccafisso,
quella di donna Ciuzza,
vezzeggiativo di Luciuzza,
sincopato in Lusy l’afarensis,
quella che non sapeva parlare,
la femina scimmiesca di un metro e dieci,
pelosa e irta come il mirto dei Sardi,
il ginepro di Gabriele che annunzia il nuovo e il vecchio Verbo,
come le more dei monti Iblei in odore di rosa canina,
tettuta e capezzolata come le mucche argentine
prima di finire in scatola,
dopo una fugace apparizione in tivvù,
la madre di tutte le scimmie,
evolute secondo i dettami di Charles,
spregevoli secondo religio et superstitio.
Parlaci,
o madre,
rompi questo silenzio inumano,
disponici nel petel,
nel dialetto,
nella lingua,
nei linguaggi,
partorisci Umberto il boss
per farci capire le nostre mirabili sorti progressive.
Salvatore Vallone
Carancino di Belvedere 27, 12, 2021