
Caru deu ti scrivo,
così mi rilasso un po’,
e ti ritorno a dire
che ci sono anch’io in questo mondo,
“in estu mundu ghe sum eu”,
io ed Erasmo che mi elogia,
io e la mia follia.
E ti dico e sottolineo che,
che non sono per niente contento,
“che ni so cuntentu eu”.
Come vedi,
siamo ancora una volta in due,
nonostante la prima volta e il mito della prima volta,
io e Sigmund stavolta,
mica Vittoriu u babbu o sua sorella Carmelina,
Sigmund in persona,
l’ebreo errante che fuma puzzolenti sigari Thuskanen
del monopolio dell’OsterReich rampante e altezzosa,
ieri governata dall’imperatore Joseph Franciose e da Adolfo,
oggi da un ragazzino licchettato,
impomatato di brillantina Linetti,
quella dell’infallibile ispettore Rock
nel famigerato Carosello dell’Italia povera ma bella.
Sigmund mi parla,
m’ispira,
mi inebria,
mi traduce,
mi incita,
mi vocifera dentro e fuori.
Siamo ancora in due,
io e il me medesimo ebreo della Giudecca
che mi attrae,
mi respinge,
mi gingilla,
mi attizza,
m’incastona,
io e il me stesso poeta italico e vernacolare,
contaminatore e falsario,
che riattraversa,
mischia,
confonde,
rifonde,
io e il me contastorie e contaballe
che vaticina,
rievoca,
fantastica,
desidera,
la spara grossa.
In tanto bordello non c’è una donna di provincia,
ma soltanto una serva Italia di dolore ostello
e in mano alla meglio gioventù del Testaccio e di Forcella,
de Milan e di Firenze.
Manca Platone,
il ragazzotto greco dalle spalle larghe e dalle palle mosce.
Platone non c’è,
è rimasto ad Atene a cazzeggiare con le sue mille Idee iperuraniche
prima di venderle in Amazon.
Soffre il mal di mare e non sa nuotare,
teme un nuovo Dionisio e un vecchio Dione,
è allergico ai giovani di belle speranze e ai mercanti in fiera,
nonché ai nani e ai buffoni di corte,
gli inetti osceni che sputano sul desco
fiorito di occhi larghi di bambini affamati,
di poveri migranti ricchi di uova e di seme,
fecondi e feconde,
è allergico alle gentili servitrici della tivù di Stato
e della tivù ciarlatana e beffarda,
quella dell’eterno e costoso tempo che farà,
quella che gioca con le solite carte a sette e mezzo,
quella che la sera massacra i poveri di spirito del Belpaese
con il ghigno saliente del giornalista camaleonte
e l’amorfa mummia imbellettata del tempo che fu
e che fu, a quanto pare, invano.
Questo è una parte di quel quanto,
mio caro dio,
“caru lu me deu”,
che vorrei depositare sulle tue auguste ginocchia
per la grazia ricevuta di aver vissuto questi tempi
di grande ingordigia e di vasta ignoranza,
di tanta scienza e di cacasotto pandemia,
di stupidi marioli e di incongruenti scassapagliai,
di bastardi onnipresenti e di emerite teste di cazzo.
E allora, cosa resta agli sconsolati ed eterni esclusi?
Signori in carrozza,
per fortuna finalmente si parte.
Il grande vate e il gran balon sono serviti
nel vagone ristorante di questo treno,
mezzo vuoto e mezzo pieno,
targato anni trenta e ferrovie dello Stato di Benito
e dei suoi imperituri immarcescibili accoliti.
O Ciccia,
Francesca all’anagrafe di Arcore,
ricordi che allora i treni arrivavano sempre in anticipo,
forse non partivano,
forse non partivano mai,
come i migranti dall’Africa di Maryl Streep,
come gli emigranti da Corleone di Vito e da Forcella di Raffaele,
come gli alberi degli zoccoli prima della Lega socialista,
come i poveri di spirito e lo spirito dei poveri,
la chiesa luterana e la grappa trentina.
O Bepa,
Giuseppina all’anagrafe di Pieve di Soligo e del quartier del Piave,
come farò a non vendermi l’anima,
se sei tu a volerla comprare
e mi seduci
mentre questo vagone letto di marca francese,
“compagnie internationale des wagons lits”,
viaggia spedito come l’Italo del Prezzemolo?
E intanto il tempo se ne va,
come il treno inquisito e osceno,
tra una canzone di Totuccio e un articolo di Marchetto,
tra un saggio puttaniere e un emerito imbecille,
tra un politico ovunque e un giornalista dappertutto,
giorno e notte,
notte e giorno,
sempre a lacerare i coglioni della povera gente,
organi intirizziti da un virus virulento e virile
che circola tra i colori dell’arcobaleno
saltellando di palo in frasca come la vispa Teresa
che aveva trovato tra l’erbetta una gentil farfalletta
e tutta giuliva gridava l’ho presa,
l’ho presa,
stringendola, oltretutto, al petto.
Vedi,
vedi, “caru deu”,
cosa ci tocca sentire e vedere in questa valle di lacrime,
dove non ci soccorre neanche la statuetta di una madonnina di gesso
con le sue stille argentate e le sue litanie monotone,
mentre attendiamo il greco deus ex machina
che alla fine trionferà
e risolverà la fame e la sete,
il morbillo e la tubercolosi,
la sifilide e lo scolo,
il Mes e il Recovery Fund,
Dante e Boccaccio tramite Petrarca.
Vedi,
“caru deu”,
cosa ci tocca fare per ridere e sognare un po’?
E ancora Ulisse non si mostra all’orizzonte
di questo mare che sta in mezzo alle terre,
di questo pelago mezzo scuro e mezzo chiaro,
di queste acque salate e inquiete
che spruzzano contenuti immorali
contro le mura ammuffite del convento delle suore di Orsola,
mentre un bambino bianco e nero è seduto sullo scanno
davanti un pianoforte nero con la coda bianca,
un organo che non suona da solo,
ma che può volare.
Se vuole,
un pianoforte di notte può volare nel cielo più scuro
e sotto le mani di un intenditore come Paolo Grillo,
ti porta chissà dove,
chissà dove,
sulle tamerici salmastre e arse,
sui rosmarini di viola guarniti,
sui freschi pensieri che l’anima schiude novella,
sulla favola bella di un P.C.I.
che ieri c’illuse e che oggi ci sgamma,
o Francesco.
Intanto sono gradite una preghiera e una mancetta
per ricevere una grazia mafiosa nella chiesa del buon Gesù.
Padre mio,
dammi oggi il pane quotidiano,
dammi domani il pane di ieri,
possibilmente condito con sgombro e olive,
e liberami dalla tentazione del gran rifiuto e della gran viltà.
La tragedia si sta velocemente consumando.
Andiamo in America
a salvare la statua della Libertà.
All’Italia ci penseranno i travicelli,
neri di storia e di vergogna,
che ancora oggi onorano gli uomini di ghiaccio della Siberia.
Fu vera gloria?
Tutto questo Alice non lo sa.
E Ulisse?
Ancora non si vede a Cefalù
e neanche nella quinta strada di Nuova York.
Amin!
Così è se vi pare e se vi garba,
come disse Matteo ai coglioni di Machiavelli.
Salvatore Vallone
Carancino di Belvedere, 28, 02, 2021