
“Ma l’amore no, l’amore mio non può
dissolversi con l’oro dei capelli.
Finché io vivo, sarà vivo in me
solo per te.”
De senectute,
come ridicolizzare i vecchi babbei e petulanti
nel piccolo schermo per fini non etici e non religiosi
da parte di donne gonfiate al silicio e all’improvvisata,
come internare i vegliardi riottosi in lager
a pagamento fisso e mobile,
a fior di quattrini come premio per saltimbanchi e saltafossi
da parte di figli senza valori,
da parte di uomini senza pietas.
O Enea,
o Anchise,
o Cicero,
o Cato maior,
o Attico,
mala tempora currunt nudi e crudi
per le strade maligne dell’Italia bella,
la nostra bella Italia
che ancora annovera mafia e pizza
nel vocabolario degli stenterelli d’oltralpe e d’oltre oceano,
che ancora inquina e ancora è inquinata
dai fumi del bieco assassino e della buona mariagiovanna,
dalle macerie burocratiche ed ecologiche di una legge
che vuole l’amore unico e univoco,
senza sbocchi e senza intoppi,
senza strappi e sparatrappi.
L’amore è un sentimento universale
e anche il vecchio Emmanuel lo decantava
durante la passeggiata delle cinque,
diciassette per l’appunto e per la precisione,
nella sua Critica del Giudizio
e per le stradine di Konisberg,
ancora per la precisione e per l’appunto.
L’amore è solo per te,
il mio amore è solo per te,
io non amerò nessuno o nessuna che non sei tu.
Come ti amo non posso spiegarti
perché io non lo so e non lo voglio sapere,
ma so che ti desidero
ogni volta che mi fai le mele cotte
al dolce sapore di prugna e di limone
con quel pizzico di cannella che non guasta mai
quando non è troppo.
L’oro dei capelli si dissolve nel bianco
e sfuma come il Prosecco di Pieve di Soligo dello zio Tony
sopra le povere membra condite del coniglio in pentola.
Quanta cattiveria negli uomini golosi,
quanta ingiustizia per le donne sorpassate in cucina
da poveri narcisi in fiore
nei canali della laguna ripieni di pullulanti stronzi.
Viva la mamma,
viva la mia mamma
quando cucinava la trippa nella pentola di coccio
e quando friggeva le patate con l’olio d’oliva,
fettina dopo fettina.
Io ti amerò,
ti amerò per quello che posso e che voglio.
Tanta è la voglia di amarti
che dimentico il fradiciume dei giornali e dei politici,
delle tivvù dissennatrici e degli spettacoli osceni
di masse di vecchi coglioni e di vecchie assennate
in cerca di un sollievo psicofisico e finanziario
con la dentiera in bilico tra il ponte di Messina
e quello di Nuova Jork.
O sole che sorgi libero e giocondo
e rompi le balle con le tue tempeste ormonali
e i tuoi giri di sangue infetto,
con il corona in testa alle teste coronate in estinzione
e ai santi di gesso
che abitano nelle chiese dei preti non iconoclasti,
gli adoratori di idoli sedicenti sacri
che non hanno mai meditato l’Ecclesiaste,
il libro più vero del Vero.
“«Vanità delle vanità»,
«vanità delle vanità,
tutto è vanità».
Che profitto ha l’uomo di tutta la fatica
che sostiene sotto il sole?
Una generazione se ne va, un’altra viene,
e la terra sussiste per sempre.
Anche il sole sorge,
poi tramonta,
e si affretta verso il luogo da cui sorgerà di nuovo.
Il vento soffia verso il mezzogiorno,
poi gira verso settentrione;
va girando,
girando continuamente,
per ricominciare gli stessi giri.
Tutti i fiumi corrono al mare,
eppure il mare non si riempie;
al luogo dove i fiumi si dirigono,
continuano a dirigersi sempre.
Ogni cosa è in travaglio,
più di quanto l’uomo possa dire;
l’occhio non si sazia mai di vedere
e l’orecchio non è mai stanco di udire.
Ciò che è stato è quel che sarà;
ciò che si è fatto è quel che si farà.
Non c’è nulla di nuovo sotto il sole.
C’è forse qualcosa di cui si possa dire:
«Guarda, questo è nuovo?»
Quella cosa esisteva già
nei secoli che ci hanno preceduto.
Non rimane memoria delle cose d’altri tempi;
così, di quanto succederà in seguito non rimarrà memoria
fra quelli che verranno più tardi.”
Salvatore Vallone
Carancino di Belvedere, 24, 09, 2022