
Juliette,
ma chère,
ma chère Juliette,
me le cali le tue scalette
perché io voglio salire,
voglio esaudire i tuoi desideri di maitresse e di putain,
voglio appagare i miei bisogni di leccaculo e di ruffiano,
voglio soddisfare le tue voglie insane di aspirante strega
e di strega in carriera,
il tuo trasporto sconsiderato verso il Diavolo,
le Diable,
il prof. Woland,
il mago teatrante,
l’ipnotista dinamico che flagella i vizi sociali con il telecomando.
Cala la tua scaletta,
o novella Lilith,
io vengo
e ti porto il mio cuore
che pulsa d’amore,
d’amore per te.
Tu mi dai un bacetto,
io do un bacillo a te
e così di Juliette e Pompeo resterà per sempre l’idea,
la spensierata e pazza idea della Patty,
quella di desiderare la donna e l’uomo d’altri,
quella che va contro il nono emendamento del nostro mandamento,
mentre tutti stanno a guardare sul Bosforo
la luna rossa vicina vicina alle tue labbra,
il perigeo,
il perineo,
il periperi,
il tutti in giro e poi giù per terra
come nel girotondo di una volta nei cortili dei preti.
Ma perché questo avvenga,
senza rumors et senza tremors,
devi strofinare il manico della lampada del cretino di turno,
del puffo e del buffo e del pacioccone,
nonché le tettine della vispa Teresa,
devi immaginare che verrà la vita e non la morte
in questa nottata di vacche nere e smunte dopo munte,
come voleva Georg Wilhelm Friedrich Hegel,
quello che pensava nel mitico Ottocento
secondo il suo genio in quel di Stuttgard,
devi pensare che non avrai gli occhi
per guardare e per piangere,
per guardare il sole nascente dei socialisti democratici,
per piangere la luna calante dei fasci di combattimento.
C’è una fessura tra i rami del cespuglio di mirto
in fondo al vallone di Carancino
dove i carrettieri lasciano quintali di merda,
la loro exlinfa sopravvissuta al colera e ai suoi tempi.
Aprila con discrezione e con ardore
ed entra nella Wunderkammer del kaiser Franciose,
nella camera delle meraviglie e del consenso,
dans la chambre de Juliette la madame,
quella dell’agenzia dei viaggi di sogno per l’Aldiqua,
l’Aldisu e l’Aldigiù.
Dell’Aldilà ce ne fottiamo,
tanto con i razzi lo bombardiamo,
X-22 per la precisione e direttamente dal mar Nero.
E gira e gira l’elica,
romba il motor,
questa è la bella vita del poeta contadino,
dello scrittore dell’assurdo e del pur vero,
del piccolo scrivano di testi senza contesti,
la bella vita di Michail Bulgakov,
il compagno russo,
il Maestro senza nome,
il Maestro come il Nazareno o il Nepalese.
Evviva,
goditi il viaggio caldo,
o vecchio puttaniere di Notre Dame e della Graziella,
su e giù per le montagne tra boschi e valli,
su e giù per ritrovare la montanara
mentre canta canzoni stonate d’amore
che parlano di un tempo vicino nel tempo,
quando Gabriele a suo plaisir scriveva il suo Piacere.
Era il 1889,
milleottocentoottantanove,
era proprio ieri
e tutto era al caldo nella cucina di madame,
nel suo forno a legna della regina Clementi,
nella sua stube a calore radiante e democratico
di via della Concordia e dell’Armonia,
proprio ieri defunte entrambi sulle coste isolane del Giglio.
Sì,
è stata una donna moderna la nostra Juliette,
ma Margherita non è, non è stata e non sarà da meno,
tanto più se insieme al suo Maestro,
il povero Michail che scrive e riscrive per vent’anni
la sua storia di vita indegna per l’editore,
finisce in manicomio ante temporibus del grande Franco,
tesse e disfa la tela di Penelope
che non era lieta di suo marito Ulisse,
dell’amor di cui doveva godere,
per cui con la penna in bocca
giorno e notte stuzzicava l’inchiostro appiccicoso
fino a sentire la sua lingua parlare una lingua universale,
la speranza di un Esperanto
da mandare giù con facilità fonetica e lessicale
giù,
sempre più giù,
come un sorso d’acido lisergico in flacone aspergico,
come un sorso di sornione assenzio.
Su, su, su,
giù, giù, giù,
glu, glu, glu
e rien ne va plus.
Sava
Crancino di Belvedere, 21, 06, 2022