MISTURA

La sera fresca bruiva con le sue parole tiepide,

parole fuggitive fruite in forma di commiato lacrimoso

in questa strana primavera di Libeccio bellico

che è veramente un primo tempo alla francese,

printemps a rien ne va plus jamais,

in questa sera operosa del dì di festa

vissuta alla finestra del cortile antico di Alfred,

consunta in famiglia tra le Asteracee,

il cardo minore,

buono per il cuore,

il cardo saettone,

buono per il fegato,

il cardo dentellato,

buono per lo stomaco,

il cardo rosso,

buono per il sangue,

il carduus siculus,

buono per tutte le stagioni,

nonché il cardo mariano,

buono per i miracoli,

bollito prima che il frutto si esalti nel fiore,

il fiore blu come la rosa di Michele,

l’oggetto del mistero innamorato dell’impossibile.

E’ tutto all’incontrario in questa sera rusticana

trascorsa con solerte cavalleria sicula

insieme alla bella e procace Lola

e al magico e terrestre compare Turiddru,

senza il solito cornuto di don Alfio

sullo schermo lucido di serale follia,

senza essere necessariamente soli sopra questa terra,

tanto meno trafitti dai raggi obliqui del sole saputello

anche se la sera puttana arriva sempre subito

e in qualsiasi strabenedetta stagione.

Joe lo sa

e canta a squarciagola da uno sgangherato grammofono

per i poveri nel corpo e i senza spirito della via Resalibera.

Era Natale,

il giorno della carne bollita con le polpettine di nonna Tita,

l’occasionale rinascita dei furori ardenti ed eroici

per quello squarcio cosmico di miseria antica e disonesta

che si spaccava fino al quartiere degli Ebrei.

C’era la guerra,

c’era la pace,

c’erano la guerra e la pace,

c’eravamo noi,

i figli del conte e del marchese,

gli eredi dei Gargallo e dei Pupillo,

io e te ignoti a noi stessi e ai nostri simili o affini,

tra un ballo lento e un twist scatenato,

tu che finivi sul divano per eccesso di foga,

la giovanile irruenza di chi nulla si aspetta dalla vita

e tutto pretende dagli altri,

quei simili dissimili e quasi identici.

Beatrice era di Dante,

Laura era di Francesco,

Fiammetta era di Giovanni.

Restava Lucia per ogni evenienza umana e inumana

in questa guerra disumana tra poveri bottoni

da espiantare dalla logora giacchetta della domenica,

per giocarli in quel gratta e vinci degli esperti kamikaze.

Ma Lucia era di Lorenzo il fesso,

era una sposa promessa,

era in piena peste all’italiana

tra virologi e giornalisti,

tra politici e papponi,

tra monatti e untori,

era nel Lazzaretto delle mie brame,

era nel più squallido reame di Gianbattista

in via del Corso e del Ricorso storico

a perpetuare la specie e la stirpe

in questa domenica odorosa di manzo lesso

e di cardi amari come la sfiga latente

che ormai non si nasconde

e si manifesta come le parole del tuo sogno

quando al mattino mi racconti di te e dei tuoi tatuaggi.

Di te dicono nel giro che ci stai

e che fai tutte le cose previste nel codice dei cencelli,

il kamasutra degli arricchiti sotto gli occhi socialisti

di quella Milano da bere e da vomitare subito

a che più oltre l’Uomo vero non si metta.

Una notte da leone vale più di una messa

cantata sotto il Portico dipinto di Zenone e dei suoi seguaci,

sotto un sole greco che si taglia a spicchi

come il melone retato di questa laboriosa Pachino.

Domani è un altro giorno,

la sera che bruiva sarà già passata

anche tra i cipressi e i cipressetti

che dal cimitero vanno verso Floridia in un solo filare.

Domani si vedrà.

 

Salvatore Vallone

 

Carancino di Belvedere 20, 05, 2022

 

 

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