
Se non reggo l’angoscia di morte,
dimmi tu che male ti fò.
Se la morte la sento alle porte,
dimmi tu che male ti fò.
Se la fine mi bussa più forte,
dimmi tu che male ti fò.
Se la fine è per me senza un fine,
dimmi tu che male ti fò.
Se di giorno cincischio e m’inciampo,
dimmi tu che male ti fò.
Se al computer fraseggio e cazzeggio,
dimmi tu che male ti fò.
Se m’intrippo di trippa e m’intruppo,
dimmi tu che male ti fò.
Ho vissuto una vita beata,
ho sorriso alla gioia sfrenata,
ho abbracciato la truffa impensata,
ho viaggiato con i masnadieri,
ma se non reggo l’angoscia di morte,
dimmi tu che male ti fò.
Chiamami Alzheimer,
sarò il tuo morbo.
Chiamami anche Arturo o Zoe,
sarò sempre il tuo morbo.
Nella mia vita allegra e sconclusionata
tutto sbambazza e nulla sorride più,
ho ancora una speranza nella morbata
e la malattia mia sei proprio tu.
A te io ricorro,
o Alois,
esule figlio di Eva,
a te io ricorro,
o Emil,
io che sono l’erede indegno di Adamo,
l’uomo che guadagnò la Morte anche per il suo Seme
desiderando la donna propria e la donna altrui,
desiderando,
desiderando la Roba di mastro don Gesualdo,
mangiando la mela tossica delle verdi vallate tirolesi
dove vivi tu,
mea magistra et domina,
mea nouvelle vague anzichenò e anzichesì.
Nulla mi mancherà,
se tu sei con me,
o sorella Morte corporale
che,
come il poeta,
fai un uso improprio delle parole e degli attributi,
della punteggiatura e dei segnali stradali,
del cannolo e dell’assenzio,
delle nobili figurine Miralanza,
quelle dei signori Lanza di Mira di Venessia,
del Bacco e del Tobacco,
Johnnie Walker e Muratti ambassador,
del Plutonio e del monte di Venere,
Pu 94 e pube impubato.
O Morte creativa
e accattivante come un cesto d’insalata iceberg
nella fredda stagione invernale,
quando l’angoscia bussa più forte alle porte
perché anche Lei ha freddo
e vuole entrare in un corpo caldo caldo
come il cappuccino del tuo bar preferito,
il bar da Ciccio,
ex Francesco,
in odore di santità per rinnovato voto di povertà,
nonostante la Multinazionale dei conventi a cinque stelle,
gli eredi di Francisco l’umbro.
E tu, adesso, mi ricoveri in hotel,
mi lusinghi e mi seduci,
mi adeschi in un motel
dicendomi che è un bordello di tipo maltese
per camionisti crapuloni in cerca di sballo
ogni sabato e ogni domenica
quando non cavalcano il proletario Iveco
o il nobile Mercedes
o il potente Mann
o il pragmatico Scania.
E tu, adesso, mi paghi la retta e la curva,
il quadrato e il triangolo,
mi segni le strisce bianche per terra
in ricordo della bionda zebra
che amai da ragazzo in un safari moldavo,
mi dici
che sono malato del morbo del dottor Alzheimer,
il degno compare di Kraepelin,
un signore illustre che ha scoperto la demenza senile
senza essere stato mai vecchio,
senza più figli e senza più voglie,
mai stato folle,
mai stato matto,
mai affiliato a Dioniso,
un pioniere del West malandrino di Germania targato 1933
a cavallo dell’asino di Sancho Panza
in questa vasta e incolta prateria
chiamata “casa serena” in via del Piscio
al numero civico 33
in questa Siracusa dalla mancata cultura,
un luogo pieno di umane cianfrusaglie disordinate.
Sappi,
mio caro imbroglione e mio caro somaro,
che io mangio ancora pane e panelle
per fare figlie belle
con tutto questo seme che mi pullula dentro le palle
e non sa dove andare a parare,
in quale ricettacolo anfrattuoso cercare la sua degna fortuna.
Io ti chiedo la tregua per senescenza acuta
e tu mi dai la guerra per codardia incallita,
o fratello,
io ti chiedo la pace
di fronte al cadavere del figlio e della figlia,
del fratello e della sorella,
della madre e del padre,
in questa guerra tra monaci e monache per l’Inferno,
in questa guerra dei bottoni tra bambini e bambine
nel boulevard du Montparnasse
in una Parigi piena di bonbon allicchittati e di filosofi travestiti,
io ti chiedo la semplice pace
e tu mi dai la guerra più bieca del candeggio per lavatrice.
Una vita sola vale più di una vittoria sonante
sul Bosforo a cavallo del mio cannone di latta
che ormai spara soltanto fiori di ghirlanda da morto.
Vanitas vanitatum,
caro erede di Quinto Orazio Flacco,
omnia turpia turpibus.
Memento vivere, non mori!
Se non reggo l’angoscia di morte,
dimmi tu che male ti fò.
Se la morte la sento alle porte,
dimmi tu che male ti fò.
Se la fine mi bussa più forte,
dimmi tu che male ti fò.
Se la fine è per me senza un fine,
dimmi tu che male ti fò.
Se di giorno cincischio e m’inciampo,
dimmi tu che male ti fò.
Se al computer fraseggio e cazzeggio,
dimmi tu che male ti fò.
Se m’intrippo di trippa e m’intruppo,
dimmi tu che male ti fò.
Salvatore Vallone
Carancino di Belvedere 25, 03, 2022