
L’universo è selvaggio
come l’uomo rosso di latta,
altro che ordinato e perfetto
come l’uomo bianco di una volta.
Quello sì che era un uomo,
quello di Primo in Torino
e di Adolfo in nostra sora terra di Alemagna,
quello di Ecce homo o come si diventa ciò che si è,
quello del matto Friedrich Wilhelm
che abbraccia le cheval in Turin.
L’universo è entropico
come la città di Aretusa,
casino su casino in strade fatiscenti
e in cervelli post archimedici,
altro che armonico ed equilibrato
come l’uomo greco di una volta,
quello che non peccava di ubris
e non disturbava le proficue scopate di Zeus,
quello che non danzava nel bosco futurista
e non sbranava il povero capretto di Dioniso.
L’universo è fuori di testa e imbrogliato
come un matto savio sulla via di Damasco,
è cattivo
come l’homo homini lupus di Machiavelli e Hobbes,
è ferino
come i mangiatori dell’agnello pasquale
con le patate rosse novelle di Bologna
e le cipolle bianche antiche di Giarratana.
Ma quale universo?
Amore, amore, amore,
non c’è più pellet per scaldarti il cuore e il culo
in queste funeste e funeree giornate di ordinaria follia.
Fuori tutto è magnifico,
dice la dolce Francesca da Bassano,
quasi svarionato,
dice la meravigliosa Sofia da Bergamo,
non c’è un pallet di pellet in nessun mercato,
super o mega,
di questa striscia di terra
baciata dagli dei siculi e sicani,
greci e fenici,
romani e cristiani,
arabi e normanni,
svevi e spagnoli,
savoiardi e italiani,
beati Paoli e cose nostre,
minchioni a cinque punte,
leghisti a buon mercato.
Chi più ne ha,
più ne metta
in questo lurido albergo a cinque stelle,
in questo mondo dei puffi e dei buffoni.
E noi?
Cossa fene noialtri?
Non ci resta che andare alla Marina sul far della sera
a vedere il meraviglioso tramonto
della nostra povera stella ammalata,
questo sole
che si sta spegnendo in un bagno di lacrime incandescenti
insieme alla madonnina di gesso del santuario,
questo sole
che muore di covid 19 dentro un ricovero anticovid
che funziona alla siciliana,
come i cannoli di ricotta e cioccolata
nella psicoterapia dell’anoressia.
Non ci resta che Vladimiro,
l’oscuro come Eraclito,
per avere un po’ di umano calore,
per un pallet di pellet omologato
e al dolce sapore di faggio,
intriso dei dolciastri effluvi
nella sempre atomica centrale di Chernobyl,
già saltata in aria in illo tempore
come un ramoscello della pace all’olivo
durante le grandi e le piccole Dionisiache
dei soliti santoni nostrani in tuta mimetica
e delle solite baldracche vostrane in costume carnascialesco.
Guarda,
o damigella vestita in luminoso tailleur,
giallo come la paura e la gelosia,
la desolazione anfibia marinara
e la fatiscenza atavica di questo ricettacolo patriottico,
fulmina il quadro terrestre e celeste
come un’aquila dell’acuto Montecitorio
e trema con i visitatori incauti
come un parkinsoniano appena in fiore.
Un pianeta è solo,
è senza la sua stella,
è stato abbandonato nel cosmo
dalla madre ignuda e a gambe aperte,
dal solito padre ignoto
andato sul fronte a belligerare e a stuprare.
Un altro pianeta si è perso negli spazi interstellari
tra tante madri sogghignanti e senza cuore,
tra tanti padri fottuti dalla tubercolosi a furia di fottere
e ingravidare le pulzelle indifese e virginee di Orleans.
Che generazione malata nel corpo e nella mente!
Che stirpe indegna di celebri avi e di tante ave!
E tu dove sei?
Dove sei finita?
Tu sei alla deriva nella nostra galassia,
fluttui nella via Lattea senza una stella ospite,
senza una stella che ti accoglie,
ti abbraccia
e ti lascia riposare su un giaciglio di polvere,
la polvere delle stelle,
la polvere del cosmo che fa sempre un leggero rumore,
la polvere sul comò antico di mogano della mia nonna Lucia.
O nonna, o nonna,
nonna iuventina vestita di nero e di bianco,
cantami la nenia religiosa del peccatore e del peccato,
recitami ancora la santa messa sopra la tua toletta del 1881,
introibo ad altarem dei,
ad deum qui letificat iuventutem meam,
sollevami al cielo
come fece il padre di Kuntakinde,
dimmi che sono sceso su questa terra
soltanto per puro amore e non per sesso,
non per sgraffignare il companatico senza il pane,
non per far saltare gli ospedali di Mariupol.
Ogni universo ha bisogno di Mary Poppins,
un poco di zucchero e la pillola va giù,
di una madre
surrogata al cioccolato amaro delle Antille francesi
e affossata nello spazio vuoto di due braccia ormai sterili,
di un grembo da tempo andato in stramona.
Appena nato,
ho brillato anch’io di un calore residuo nel mio cielo
al calduccio astronomico di colori sorgenti di luce,
rogue planets,
io,
un oggetto sfuggente al suo passato e al suo destino,
sottratto alle Moire come il figlio di una dea puttana,
Afrodite nel mar Ionio intrisa dello sperma
di un Urano senza fallo,
io,
un soggetto esente dal grande Nulla,
presente e vivo in un universo vuoto
ed emergente dalle onde di questo greco mare
da cui vergine nacque quella Venere di dianzi
che fea quest’isole feconde con il suo primo sorriso,
io,
un uomo che abita la sferica regione del globo terracqueo
contaminata dal napalm americano e dal plutonio russo,
un uomo cullato in tante galassie
disposte come una ragnatela gigante,
un poeta benedetto che razzola gallinaceo
in questa enorme stalla di anime
dannate dal pope e dal papa.
Ognuno ha i suoi ragni.
La tegenaria domestica e il pholcus ballerino sputano nel cosmo
i loro escrementi sacri al filo di seta antica,
quella cinese di Marco Polo da Venezia,
avvolgono strutture barocche di rara perfezione
e con i filamenti rococò di un ossobuco
ancora umido di cipolle e di carote,
adornano ammassi di galassie in concentrazione spersa
condite al pomodoro ciliegino rigorosamente di Pachino,
si ritrovano tra grandi affetti familiari
e illegalmente costituiti
attorno a un desco fiorito di rosse lingue di fuoco
ed enormi vuoti ripieni di menzogne lapalissiane,
quasi un Supervuoto di mini vuoti cerebrali
indignato del suo essere quel Tutto
che turba la Scienza
o quel Nulla
che è sempre un Qualcosa.
La Guerra non c’è,
non c’è la Pace,
la Guerra e la Pace non ci sono.
Ti prego,
cara Jean Rhies,
di non raccontarmi balle,
specialmente adesso che la Moskva è colata a picco
nel tuo vasto mare dei Sargassi.
Ti prego, animula blandula!
Dal dolore ne morirei.
Morirei di dolore.
Salvatore Vallone
Carancino di Belvedere 15, 04, 2022