MENO MALE

Sei generoso,

tanto,

quasi un asceta,

altrettanto,

un uomo senza dubbio e senza dubbi,

uno scettico,

un Pirrone dell’Elide,

un padre Pirrone, il gesuita confessore del puttaniere don Fabrizio,

un vivente senza il pudore del pusillanime,

un guardone senza ritegno e senza riguardo,

un monaco senza il compenso dell’obolo,

un maschio tutto d’un pezzo,

sempre sul mazzo a chiedere il pizzo,

quello delle sottane femminili,

non quello degli inetti parassiti

che affollano questa mia landa

in attesa di una notizia che striscia

per essere smascherati.

Sono generoso.

Sei ricco di buon sangue come un mestruo fulgens

e io mi perdo in un turbamento infantile da suora orsolina

quando mi vedo nelle mie storte parole sulla tua lavagna.

Faccio come la mia bambina,

quella dentro e quella fuori,

che copriva il suo capino con una coperta

per non farsi scovare giocando a nascondino.

E immancabilmente la trovavo chinata sul divano

col culetto in aria e il viso avvolto in un grande mistero,

il dubbio della fede,

la vertigine della libertà,

il bene della fiducia,

la possibilità dell’affidamento,

l’incanto dell’amor proprio,

la follia di Narciso a piccole dosi.

Sono ricco di buon sangue come un mestruo fulgens.

Cosa vuoi,

o mia cara insolente e impertinente,

c’è sempre un aliquis che ci trova e ci sgama,

qualcuno che ci attende e ci sottende,

qualcuno che ci circuisce e ci consola,

nei giardinetti pubblici o nella degna magione,

nella Camera alta e nella Camera bassa.

C’è sempre un quidquid,

qualcosa in cui crediamo e farnetichiamo,

qualcosa in cui nuotiamo e affondiamo,

qualcosa in cui ci perdiamo definitivamente.

C’è sempre un qualcuno e un qualcosa

a sinistra e a destra,

in alto e in basso.

Cosa vuoi.

Ciao,

maestra del mio cuore,

numquam mater, semper domina.

In un quaderno rosso, maoista e a righe strette

e stretto al petto ansante come la vaporiera di Giosuè,

si scioglie l’orrenda boria della vita,

si annida la facile futilità dell’esistenza,

si consuma il più grande peccato,

la strage di se stessi,

il suicidio collettivo,

collettivo come l’Inconscio di Karl Gustav Jung,

il mago che la sapeva lunga,

l’esoterico folle affetto da sedicente esaurimento nervoso.

Cosa vuoi,

Ortigia ormai è un borgo arido e deserto,

pieno di topastri e architetti in fiore e allo spritz,

un sito affidato al terribile Fato degli inetti

e regalato al miglior deficiente in qualità di offerente,

un’isola fatiscente e sconnessa,

pullulante di prodi ed eterni profughi,

ricca di meravigliosi clandestini

che vanno in culo alla vita e al mondo

vendendo cianfrusaglie inutili in ogni cantone

e nel mercato dove mia madre osava

e aveva posto li suoi riguardi.

Cave canem!

Così aveva ammonito la buona Oriana.

Così aveva insegnato la buona Ida:

l’inviata Fallaci e la professoressa Magli.

Chi altrimenti?

Non vedo divinità all’orizzonte.

Dio è morto nell’arena dei gladiatori,

nel tempio di Apollo,

nei giornali di parte e non di partito,

nelle sacre stimmate delle logge,

nelle scuole pubbliche e private,

nella latitanza della civica educazione.

Quanta ignoranza,

o madonna mia degli Angeli,

quella del cortile in fondo a piazza Termini,

quella dei buffoni e dei ciarlatani,

quella dei poeti e dei contastorie.

Adesso che siamo tutti sistemati,

si può andare serenamente anche in culo.

Ciao.

E noi?

Noi che facciamo?

Noi continuiamo a sbatterci la gnocca e il pisello

con il solito pane quotidiano,

quello di ieri e di domani,

con la surroga dei nostri debiti in altra banca,

con i prodotti finanziari derivati e sempre inclusi

che hanno suicidato tanti improvvidi pensionati in un sol boccone,

con le labbra gonfiate al silicone botuloso,

con i tatuaggi sulle splendide chiappe e sul venereo pube,

con le culottes delle influencer alla spremipatata,

con le indecenze sottili e luminose di un raggio di sole

fortunatamente in via di estinzione.

Moriremo d’amore e di nostalgia in Sicilia

tra i cumuli dei rifiuti della Storia

che nihil docet ai Farisei, ai Sadducei, ai Manichei,

ai Siciliani insomma.

Peccato o meno male?

A noi l’ardua sentenza.

Sava

Carancino di Belvedere 12, 10, 2021

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