30 SETTEMBRE

Seduto in questo caffè di piazza del Duomo,

pensavo a te,

a te che non sei la solita donna eternamente angelica

o improvvidamente angelicata,

la solita donna immarcescibile

come il fiore dei defunti nelle botteghe cristiane,

la solita donna compromessa in una canzone dell’Equipe 84

mentre si giocava alla rivoluzione culturale,

la solita donna portata in piazza dal maschio di turno

per esibire il trofeo borghese dell’ignoranza.

Tu non sei la solita donna da menare sugli altari della ribalta

o nel web come influencer truccata o opinionista alle vongole,

tu non sei da menare neanche dove la notizia striscia

come un verme malsano o un tarlo rasato.

Ebbene,

in questo café alla moda di Floridia io pensavo a te

che non sei una femmina da intrallazzo occulto o da rifugio antiaereo,

un personaggio tutto Lolita e per niente Nannarella,

pensavo semplicemente a te in questo settembre afoso,

oltremodo odoroso di spazzatura putrida e inzuppata nel finocchietto,

che asciuga le stanche ossa di barocco calcare

e le prepara con noncuranza alla benefica cenere,

al vaso ventoso di marmo che Pandora non aprirà mai,

pensavo al prezzo esagerato di uno shakerato alla caffeina

in questo castello Maniace tanto amato da Federico di Svevia,

un cimelio tanto bistrattato dai soliti ignoti indolenti

che lamentano la noia e l’accidia del tosco

che per la città del foco ancora vivo sen va così parlando onesto,

pensavo al fetore del lesso di maiale,

intriso di succo di limone femminello,

che la zia Violanda accudiva per comporre la sua gelatina

e per tirare un’altra paga proprio con il lesso.

Pensavo

che in questo giorno di ordinaria follia

manca all’appello don Peppino pallemoscie,

il famigerato professore di storia e filosofia

in quel Liceo storico intitolato a Tommaso Gargallo,

poeta sicano ed erudito siculo,

amante di Quinto Orazio Flacco e delle sue donne,

pensavo

che mancano le quattro ossa malferme del prof

affossate in una sedia di lurido vimini in via Cavour,

presso il negozio d’arte delle stoffe varie e variopinte,

che manca la bocca color nicotina di don Peppino

che rinserra il ciuccio toscanello e la bava inamidata sulle labbra,

che manca la vecchia copia dell’Unità nella tasca del vestito coloniale,

intriso di sudore a mo’ di carta geografica,

un giornale ardito e un residuo archeologico

in vendita nel negozio di Santino u cumunista

in quella incomprensibile via delle Vergini al civico 68.

In questo giorno banale di fine settembre

pensavo a Vittoriu u babbu e a sua sorella Milina

che si compiacciono di litigare con la loro loquela antica

che li fa manifesti di quella nobil patria natii

alla qual io fui e sono ancora troppo molesto.

Ma, girando e rigirando per vicoli e viuzze,

m’imbatto in un amico vero e sincero

che mi offre di mandorla la granita e la brioscia col tuppo,

mi annido nel migliore caffè del borgo,

con tanto di tendone e cameriere,

un amico di lunga data e di vasta battuta

che insegna il canto gregoriano e il ricamo clandestino

presso il collegio delle suore di sant’Orsola,

in quel di Ortigia,

in quel piazzale san Giacono,

altrimenti noto come ricettacolo della faccia disperata

delle madri e delle mogli

che attendevano i figli e i mariti pescatori

rientrare in porto all’imbrunire

senza pesce ma con la vita ancora in mano.

Il mio amico vero e sincero si chiama Pietro,

detto e conosciuto come Piero Pierin,

come Piero Pierot dai tosti cingot,

un gatto meticcio di color rossiccio e bianco,

un micio senza tempo che vive al presente,

alla giornata,

al momento,

non quello a quo pendet aeternitas di Augustinus,

ma quello dal quale dipende il rancio e il vitto,

l’alloggio e l’albergo,

il dritto e il rovescio di malfamata fame.

Un gatto non è semplicemente un felino,

è un mondo incantato dalle mille virtù e dai mille peccati,

una Peyton Place di anarchia sincera,

alla Sacco,

alla Vanzetti,

alla faccia di quell’America balorda e fumosa

che ieri m’illuse,

che oggi ti bastona,

o piccolo mondo di vita dalle vibrisse color della cenere

come le palle dei giovani nelle canzoni goliardiche di ieri,

dalle fusa che tendono il fuso

come nei migliori affreschi della casa dei Vettii

sotto la cenere di Pompei

in quel 30 settembre di allora che dirti non so.

Salvatore Vallone

Carancino di Belvedere, 30, 09, 2021

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