DALL’EPISTOLARIO DI ANTONIA SOARES

LETTERA CHIUSA AL MIO DOTTORE

Ciao merda globale!
Sai,
mi viene familiare chiamarti così di questi tempi
e non certo per un senso di disprezzo o di distacco.
Tutt’altro!
Tu sai quanto sono legata a te nella gioia e nel dolore,
nella salute e nella malattia,
nella dipendenza e nella libertà,
in carcere e in Tasmania.
Per me tu sei un brutto stronzo soltanto per affetto,
per tanto affetto ben riposto e mal retribuito.
Adesso non ti dirò che ti amo,
ma è assolutamente vero
che io sono legata a te dalla gioia e dal dolore,
dalla salute e dalla malattia,
dalla dipendenza e dalla libertà,
dal carcere e dalla Tasmania.
Anzi, è assolutamente verissimo.
Io oggi sto bene.
A me sembra banale star bene
e soprattutto mettermi a scrivere quando sto bene.
Ma cosa significa star bene?
Significa forse non pensare in maniera arrapata?
Significa forse non sentirsi angosciati,
disperati dentro e dispersi tutt’intorno?
Allora sì, pezzo di merda, io sto abbastanza bene.
Io oggi posso dire di stare abbastanza bene.
Ma oggi è molto più difficile esprimermi,
oggi io mi sento tanto vuota e insignificante
al punto che non riesco a trovare le parole
per esprimere i miei pensieri,
le mie emozioni,
le mie fantasie,
i miei sogni a occhi aperti,
le mie fandonie,
le mie verità.
Oggi mi manca il delirio e la possibilità di delirare.
Tutto è diventato niente
o è sempre stato semplicemente niente,
uno zero assoluto,
un vuoto inconsistente,
un nulla mischiato con il niente.
Però oggi sto abbastanza bene.
Ma cosa significa questo niente?
Ma cosa significa questo zero assoluto?
Ma cosa significa questo vuoto?
Significa forse non avere pensieri tumultuosi in testa?
Significa forse non avere nessuno slancio emotivo
per le cose che mi stanno intorno?
Significa essere spenta?
Allora sì, amico mio, sono vuota,
sono spenta e sto abbastanza bene.
Ma io sono morta.
Per stare bene sono morta.
Io sono una morta che sta bene.
Partecipo alle attività del Centro diurno dei matti
e lo faccio con interesse e con piacere,
lavoro in una serra il sabato e la domenica
e lo faccio abbastanza volentieri
perché so
che poi con i soldini mi posso comprare le sigarette.
A volte dipingo
e la cosa mi dà soddisfazione.
Sono diligente,
riconosco il potere,
riconosco il padre e la madre,
il cane e il gatto,
la merenda e la colazione,
insomma,
ci sono anch’io.
Stringi stringi, le cose, caro dottore, mi vanno abbastanza bene.
Ma all’improvviso che succede?
Succede che un amico di vecchia data viene a ritirare
il modulo del censimento
e si mette a parlare con mia sorella di un libro di Coelho
che è appoggiato sopra la libreria.
La conversazione si arricchisce sempre più
e interviene anche mia madre.
Parlano di spiritualità,
di quella forza e di quella energia che sta dentro ognuno di noi
e che ci serve per andare avanti
perché l’uomo ha bisogno di un credo,
qualunque esso sia,
altrimenti la vita si fa invivibile.
E io?
Io niente,
io non ho detto una parola
e in quel momento mi sentivo così inadeguata,
così vuota,
così senza niente dentro,
senza niente da dare e da dire,
incapace di partecipare alla conversazione.
Eppure anch’io una volta avevo qualcosa dentro,
avevo un credo, seppur religioso,
un credo che si basava su un dio
che mi dava la forza e l’energia,
la sicurezza di pormi di fronte agli altri
e il coraggio di fare certe scelte.
Adesso niente,
adesso non ho niente
perché io voglio pensare di poter essere qualcuno
e qualcosa senza alcun dio,
di poter essere uno qualsiasi e una qualsiasi,
ma senza alcun dio.
Forse questa è follia,
forse questa è presunzione.
Sicuramente Lucifero ci cova.
Questi sono discorsi luciferini.
Chissà se l’uomo può essere qualcuno e qualcosa senza un dio.
Ma chi è Dio?
E’ forse un qualcuno e un qualcosa che sta al di sopra di noi
e dove possiamo canalizzare le nostre energie?
Dio è un ideale, un credo, uno scopo?
Questo stramaledetto scopo, che io non riesco a trovare nella mia vita,
può chiamarsi Dio?
Ne ho parlato con Carmelo,
ma lui a dio non crede più da tempo.
Allora gli ho chiesto
perché qualche volta segue la messa in tivù
e lui mi ha risposto che lo fa per nostalgia.
Da bambino credeva in san Nicolò
e adesso è diventato grande
e alle illusioni di san Nicolò non può più credere
e questo gli crea nostalgia.
Ma allora dove spostare il mio ideale,
il mio scopo,
ammesso che io ne abbia uno?
Io non ho energie da investire
perché sono ghettizzata in questa situazione psichiatrica
e da qui non ne esco.
Ho bisogno di spiritualità,
ambisco il mistico,
ma qui tutto è troppo concreto,
tutto è troppo presente,
tutto è troppo medicinale
e so
che soltanto così io posso vivere.
Ma così potrei anche morire,
morire dentro.
E allora?
Che faccio?
“Fottiti!”
Allora fottiti anche tu, brutto stronzo,
visto che io mi sono ormai fottuta da sola.

Salvatore Vallone

Venezia, 21, 10, 1986

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