
IL TERREMOTO DI MESSINA
La figura materna viene nuovamente richiamata e senza modificazioni qualitative di rilievo nella rievocazione del disastroso sisma che distrusse la città di Messina il giorno 28 del mese di dicembre dell’anno 1908.
L’emozione legata al ricordo del tragico terremoto è associata a un altro macabro simbolo di morte: il grande pendolo inglese del nonno ancora fermo all’ora del sisma, le fatali cinque e venti.
Segue ancora un’immagine di distacco affettivo e di separazione: il ricordo del pranzo solitario dei nonni, quasi a sottolineare il fatto che i cibi, simboli di affetto, non erano condivisi in famiglia.
Di poi viene presentata l’irruzione dello zio Ferdinando, il quale annuncia la tragedia familiare: tra le tante vittime del terremoto di Messina il buon Dio ha voluto con sé le anime aristocratiche della zia, sorella della madre, e del marito.
A questo punto della dolorosa rievocazione si stacca la figura del cugino, coetaneo e improvvisamente orfano; la solitudine non è un fatto di vita oggettiva e di presenza esteriore, ma una questione di vita interiore e di dimensione psichica.
L’orfano Tancredi nel “Gattopardo” sarà la degna riedizione di questo cugino, a testimonianza di quanto si possa essere colpiti durante l’infanzia da persone e fatti, che, non essendo adeguatamente rimossi o razionalizzati, si conservano nella psiche e spuntano senza coscienza al momento opportuno in altra sede e in altro contesto, una “Traslazione” che avviene sempre in maniera camuffata.
“Questo ricordo è visualmente assai meno vivace del primo, ma invece esso è dal punto di vista della “cosa avvenuta” assai più preciso.
Qualche giorno dopo giungeva da Messina mio cugino, che nel terremoto aveva perduto il padre e la madre…Rivedo anche il dolore di mia madre quando, parecchi giorni dopo, giunse notizia del ritrovamento dei cadaveri di sua sorella Lina e del cognato.
Vedo mia madre singhiozzare seduta in una grande poltrona del salone verde nella quale nessuno si sedeva mai, ricoperta di una sua corta mantellina di astrakan moirè.”
“Racconti”; “I luoghi della mia prima infanzia”, edizione citata, pagina 100).
Il dolore della madre viene presentato dal principe come un vissuto affettato e di maniera; esso non è l’autentica espressione di un forte sentire dell’animo e di un coatto vibrare del corpo.
C’è sempre un oggetto o una serie di oggetti che stemperano i sentimenti e le sensazioni secondo le linee di un freddo e oggettivo “Verismo psichico” che distrae dalle emozioni intense e le raffredda mentre procede con il ricordo alla loro rievocazione e rappresentazione: la ”grande poltrona del salone verde” e la “corta mantellina di astrakan moiré” fungono da alleati nello stemperare e possibilmente stornare l’autenticità del dolore e nel renderlo formale.
In effetti si tratta di un meccanismo di difesa dall’angoscia proprio del principe di fronte alla riedizione del “Fantasma di Morte”, oltre che dell’esibizione ulteriore di un’immagine materna anaffettiva, una donna che, almeno nei vissuti del figlio, non riusciva a lasciarsi andare neanche al sentimento del dolore e a comunicare attraverso i canali psichici dell’affidamento e della sicurezza affettiva.
Una madre, del resto, che ha delegato l’educazione del figlio al mestiere di figure femminili estranee, induce a riflettere sul fatto che l’esercizio dell’amore non si può delegare, ma è da vivere in prima persona: l’amore è in prima istanza una sensazione e di poi anche un sentimento fantasmizzato nel bene e nel male secondo abbondanza o penuria.
Si noti il particolare e non indifferente dato sulla “continentalità” delle donne di servizio: la cameriera è piemontese e la bambinaia è senese in ossequio a un ambiguo buon costume dell’aristocrazia isolana, sempre protesa tra un’Italia da conquistare e una Sicilia da dimenticare.
A questo punto il principe di Lampedusa offre un altro ricordo del padre: uno sprezzante ammiccamento sessuale, riferito ai poveri terremotati che erano stati ospitati nella città di Palermo, un’insinuazione maligna che il bambino di dodici anni capiva benissimo.
“Ricordo anche come si andasse dicendo che i profughi che erano alloggiati da per tutto e anche nei palchi dei teatri si conducevano tra di loro” in modo molto indecente” e mio padre che diceva sorridendo:” hanno il desiderio di rimpiazzare i morti”- allusione che comprendevo benissimo”:
(Ibidem; pagina 101).
Eros e Thanatos si distinguono e si fondono secondo cadenzati ritmi e armonici cicli: una costante da premiata ditta, dal momento che “Il Gattopardo” è ricco di questi meta-psico-fisici apparenti contrasti.
In questo spaccato mnestico sugli incresciosi postumi del terremoto, la “Vita e la Morte” si rincorrono nella carica sessuale di una dialettica pulsionale indefinita, moralisticamente “indecente” per il modo volgare in cui questi strumenti procreativi si mettono al servizio del “Genio della Specie” oltre che dei loro feudatari: un “Eros” poco divino e troppo carnale che non sarebbe piaciuto a Platone, un “Eros” privo di quell’aristocratico distacco dalla “Vita dei Sensi” che degnamente gli compete.
Il principe di Lampedusa rielaborerà nel “Gattopardo” questa ambigua e inquietante reminiscenza dell’infanzia, traslandola malignamente dalla povera gente terremotata alla sua stessa classe sociale, quell’Aristocrazia deprivata di “Eros” e votata ormai a “Thanatos”, una casta in netto degrado genetico e determinata positivisticamente all’estinzione.
Questo dato è una conferma non solo del materiale psicologico parzialmente rimosso nella dimensione inconscia e della struttura fantasmica che si esprime elettivamente nella sublimata produzione estetica, ma anche della riedizione masochistica e mortifera dei fantasmi inscritti nella psiche del giovane principe e mai estinti da una adeguata “Razionalizzazione”, vivi, quindi, e dominanti anche in una forma disposta a tralignare sotto la sferzante angoscia della “Fine”.
“…: in quegli anni la frequenza dei matrimoni fra cugini, dettati da pigrizia sessuale e da calcoli terrieri, la scarsezza di proteine nell’alimentazione aggravata dall’abbondanza di amidacei, la mancanza totale di aria fresca e di movimento, avevano riempito i salotti di una turba di ragazzine incredibilmente basse, inverosimilmente olivastre, insopportabilmente ciangottanti; esse passavano il tempo raggrumate tra loro, lanciando solo corali richiami ai giovanotti impauriti, destinate sembrava soltanto a far da sfondo alle tre o quattro belle creature che…passavano scivolando come cigni su uno stagno fitto di ranocchie.
Più le vedeva e più si irritava;…gli sembrava di essere il guardiano di un giardino zoologico posto a sorvegliare un centinaio di scimmiette: si aspettava di vederle a un tratto arrampicarsi sui lampadari e da lì, sospese per le code, dondolarsi esibendo i deretani e lanciando gusci di nocciola, stridori e digrignamenti sui pacifici visitatori.
Strano a dirsi fu una sensazione religiosa ad estraniarlo da quella visione zoologica: infatti dal gruppo delle bertucce crinolinate si alzava una monotona continua invocazione sacra: ”Maria! Maria!” esclamavano perpetuamente quelle povere figliole…Il nome della Vergine invocato da quel coro virgineo riempiva la galleria e di nuovo cambiava le scimmiette in donne…”:
(“Il Gattopardo”; edizione citata, pagine 291 e 292).
“Pigrizia sessuale” e “calcoli terrieri” sono condensati di anaffettività e di incapacità di amare, mentre “scarsezza di proteine”, ”abbondanza di amidacei, ”mancanza di aria fresca e di movimento” denotano un sentire deterministico di stampo bio-positivistico; è degna di nota, inoltre, la misoginia espressa nel bieco disprezzo delle scimmiette ciangottanti e crinolinate.
La figura maschile è connotata significativamente soltanto dalla paura: ”giovanotti impauriti”.
Lo stesso tema, sottilmente intrecciato a già noti motivi psico-esistenziali, si è presentato nel brano di “Lighea” con il titolo “Il solo esemplare superstite”.
Salvatore Vallone
Pieve di Soligo, 23, dicembre, 2002