LA NOSTRA GRANDE STORIA D’AMORE

La nostra grande storia d’amore è una dissonanza di accordi,

una tonalità di cori ermetici e vagabondi,

una modulazione di frequenze alte e basse,

destrorse e sinistrorse,

mai di centro, anche se organico.

Eh,

vu tu far chè,

amore mio,

vu tu far chè?

Non ci sono più le armonie di una volta,

le orchestrine di periferia che suonavano per un soldino di rame

musiche approssimate alla perfezione e prossime al talento.

Non ci sono più gli uomini e le donne

di quella volta in cui io e te ci siamo imbattuti l’uno nell’altro

senza cognizione di causa e di effetto,

senza saper né leggere e né scrivere,

senza le parole per dirlo.

Noi due siamo conflitti in un modulo poetico,

in un moto contrario,

in un moto retrogrado,

in un andamento lento,

tutti moti che sconfinferano nel vago greco e nelle vaghezze latine,

animula vagula blandula,

nugae nugarum,

sciocchezze delle sciocchezze,

tutti moti che non confinferano con le nostre esigenze di gente comune

che abita i piani bassi di Montecitorio

insieme a quattro scalzacani in gonnella o in abito talare.

Siamo una coppia trina e quadrina:

un doppio litro sgargiante e sgualdrino

che puoi bere di notte nelle osterie di Conegliano

insieme agli ultimi uomini arditi,

Giobattino, Nane, Bortolo, Renatino, Bruno,

e alle tante donne argute del quartier del Piave,

la Mara, la Luisona, la Marietta, la Marina, la Bepa.

Sai che l’universo ha i suoi suoni,

l’universo suona di rumori residui e ancora vivi,

come una sorta di eco che rimbomba,

rimpilza,

rinfranca,

s’inerpica,

scavalca,

s’imballa tra le pieghe della cassa armonica,

si insinua nella fisarmonica del maestro Gorny Kramer,

quello del Musichiere e di Mario Riva,

quelli della febbre del sabato sera nel post fascismo.

Sai che il frastuono delle stelle in collisione

decreta l’armonia dell’Universo?

Armonia era ed è ancora figlia di Ares e di Afrodite.

La guerra e l’amore sono sempre in prima fila

a sancire la scissione e la fusione del Cosmo

in questa guerra di maramaldi e di saltimbanchi,

di avventurieri e di diplomati.

Tu amami secondo i moti naturali

del tuo micro e del tuo macro cosmo,

secondo le regole e i cicli

del tuo sangue girovago e vagabondo.

Amami sempre,

ti prego,

e dimmi come stai,

dimmi se il tuo corpo regge il peso della tua vita

in questo tempo di miseria morale e di esaltazione paranoica.

Dammi una parola,

dimmi una sola parola,

dammi e dimmi una parola sola

per quietare la mia angoscia di uomo abbandonato

sul lastrico amaro di un gratta e vinci da dieci euro

in una notte di mezzo inverno

e con uno strudel squisito di alta pasticceria londinese in mano.

Saperti senza parole,

mia gradita e rustica concubina,

immersa nella cura della grande Madre Terra

mi riempie il cuore e mi svuota i testicoli.

Tutto questo significa che stai bene.

C’è qualcosa di esotico oggi nel tuo sole,

come ieri e domani sarà stato e sarà nelle tue giornate,

forse il luogo o forse i mandarini,

le fave,

i ceci,

l’aglio,

le cipolle bianche e rosse,

le talee di piante antiche,

i fiori bianchi d’arancio che trasudano miele,

i rametti del mandorlo che trascolorano nel rosaceo.

Di certo, Tu,

tu sei esotica,

un mondo fiabesco,

ai miei occhi abituati ai lunghi inverni

che odorano di neve,

sempre in attesa che finiscano

e che non ritornino mai più.

Questo è un pensiero pericoloso,

oltre che inutile e melenso.

La Sicilia fa bene a chi non è siciliano.

Il grande Nord e la Liga veneta possono attendere

in questo momento di soqquadro psicofisico

e di furto demente della democrazia bambina.

E poi,

noi possiamo attendere per sempre.

Che importa?

Ci sarà sempre e ancora un vaccino.

Ci sarà sempre e ancora un’altra vita

da inforcare come una Stella veneta o una Legnano

per noi seguaci di Budda e di Mosè,

per noi figli di quelle stelle,

di quei genitori che da lassù ci guardano

e si lasciano ancora amare.

I padri e le madri non sono morti di covid

o di ostello per vecchi ringiovaniti

lungo il soleggiato viale Contardo Guerrini di Avola.

I nostri padri e le nostre madri hanno riposato

sul loro letto a fianco dei figli e dei nipoti

e sono morti al suono dei lamenti delle maiare,

le donne oltremodo mature e adeguatamente maritate,

pagate all’uopo lugubre e alla bisogna dolorosa,

quando gli occhi esausti dei familiari hanno smunto

tutte le lacrime di questo mondo crudele nell’ora dell’addio.

Intanto il desiderio è di tornare definitivamente alla terra natia,

di morire in un pomeriggio d’incarnazione,

di reincarnarsi immantinente e in modo subitaneo

in un gatto selvatico di nome Coraggiosetti,

un vivente dagli occhi di tigre mancata,

amico dei passeri e dei topini del cantante Zero.

Sono così pochi i gatti rimasti nei vicoli di Ortigia

e sono belli da morire nella campagna di Carancino

quando si spacciano per bulimici e affettuosi,

per Orlando e Rinaldo,

per compare Turiddru e il signor Provenzano.

Stringi, stringi,

sono soltanto dei marrani e dei farabutti.

Io?

Io,

per guarire dal male oscuro,

vado giorno e notte a spasso nei miei pensieri,

circolo ai margini del cosmo

a braccetto con te sulla via maestra,

la via Lattea,

quella della spruzzata di latte dalla tetta di Era

sotto le succhiate micidiali di Eracle.

Sai che botte!

Comunque e per farla breve,

perché altrimenti la processione s’ingruma,

in tanta coatta e casta contingenza virale,

ti arrivino sempre i miei non casti baci.

Buona pasqua di resurrezione!

Salvatore Vallone

Carancino di Belvedere, 09, 03, 2021

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