AUTORITRATTO 3

Sono un frate povero

e vivo in un convento ricco,

presso la valle del fiume assente,

l’Anapo,

protetto dall’Unesco e offeso dagli incivili indigeni.

Vivo tra l’origano odoroso e la salvia fulgente,

tra il timo discreto e la rosamarina ardente,

tra lu basiricò piccante e l’alloro magnifico dei poeti.

Sono povero e sono ricco,

sono frate e sono convento,

sono poeta e sono infante,

sono maestro e sono ciarlatano.

Ho accumulato sesterzi in questa terra

vendendo beni per il Paradiso,

quello umano e quello carnale.

All’Aldilà,

promesso dai preti neri e dalle suore con i cappellacci bianchi,

ho preferito un Aldiqua

vissuto in pieno e mai mancato neanche in parte.

Se lo sa Martin,

fa una nuova Riforma,

quella giusta e a misura di bestia:

“pecca fortiter et vive fortius”.

Ma come si fa a godere,

se la pandemia impazza a destra

e colora il tricolore del sangue dei patrioti

che rosicano l’ossobuco dell’autocastrazione,

mentre i senatori a vita godono ottima salute

in barba all’imbelle scansafatiche,

il cuculo crumiro che li vuole come lui,

inerti, passivi e inanimati.

A sinistra si ricorda il buon Antonio,

il piccolo sardo che non doveva pensare

secondo le direttive oscene di colui che fu

e gli auspici ridicoli dei ricottari che ancora sono.

A sinistra chi lavora non fa l’amore

e paga la pensione a chi non lavora più.

Sono spuntati i radical chic

come le mammoline nei celesti prati dei giornalisti,

come le margherite dei verdi declivi dei politicanti,

come le pansè macchiettate in Forcella da Aurelio Fierro.

Evviva,

evviva,

c’è anche la vispa Teresa

che avea tra l’erbetta al volo sorpreso

gentil caporale e gentil clandestino

e insieme a Renzo il tonto & Lucia la biondona

gridavano “l’abbiam presa,

l’abbian presa,

l’abbiam presa nel cul”.

E va bene così,

me ne vado da te,

non fa niente,

ma quando la sera ti sentirai sola,

ricordati di me che son la Elena di Troia,

maritata Menelao,

amante di Paride,

Arezzo mi fè,

disfecemi l’agro romano.

Nui chiniam la fronte al magico fattor

che volle in lei sì nobile fattura.

E io?

Io metto firma come caporale di giornata

e mi raffermo come il pane di Floridia

in questa campagna lucida di tutto punto

e brillante di calcare aggiunto.

Mille e mille di questi giorni,

mio caro,

mille anni di galera a chi fornica in canonica

senza che lo sappia Alice, la sagrestana.

Io?

Io insisto e persisto,

mi attesto e resisto,

pecco fortiter et vivo fortius.

L’inerzia crea martiri,

il narcisismo crea mostri

che per grazia ricevuta si annientano da soli,

ma solo a una certa età.

E se non sono narcisi,

sono cuculi,

sono vacui,

sono fatui,

sono campanule di bosco e orchidee selvatiche

nei campi di questo inverno indecoroso

che odora di primavera antica e di sterco perlettato,

buono per la cicoria selvatica e la zucchina domestica.

I narcisi odorano di quel letame da cui nascono,

sanno di sfasciato romanesco su visi di bambola,

hanno la calata lumbarda in un corpo bamboccio,

contrabbandono il Nulla del capo carnale o del comico sciocco.

Questa è la Legge.

Lex,

dura lex,

sed lex.

Quanta ignoranza in questa casa di bambole!

Dammi un economista e tre provetti ragionieri

e ti solleverò l’INPS e le consorelle

dalla boria insana degli inetti e degli infetti,

dal debito contratto in nome del padre,

dalle pensioni non più pagate

per decesso da covid del concorrente

o da noncovid, sempre del concorrente,

dalla dialettica filosofica dell’Essere e del Non Essere,

da Parmenide di Elea,

da William di Stratford-upon-Avon,

da Georg Wilhem Friedrich di Stuttgart,

da Martin di Mebkirch,

da Jean Paul di Paris.

Quanti morti in questa pandemia illustrata

come la vetusta “Domenica del corriere”!

Quanti ebeti in questa sagra serale degli eterni presenti

nel riquadro fosforescente a botta di mille e mille sesterzi!

Vero è,

caro compagno Francesco,

che non ci sono più gli uomini di una volta.

E noi chi siamo

e cosa facciamo in questo frangente ingrato di gioia e di sarcasmo?

Noi siamo l’elite fredda,

viviamo di politica,

non di professione,

pulluliamo nei giornali

leccando il lisoformio

per pulire la scrivania del capo.

Non c’è più lo Stato con i suoi professionisti.

Ma il siculo Leonardo da Regalbuto sbagliò

quando parlò così dei confratelli Giovanni e Paolo.

I servitori morirono da servi di uno Stato

che non li serviva

e a cui non servivano più.

Salsi la gobba defunta di colui

che disposando il buffone e il pagliaccio

parlava in romanaccio

e recitava ogni mattina litanie pesanti nelle chiese romane

e tra i fasci di combattimento.

E tu?

Io non sono in errore

se dico tutto questo dei piccoli Lords.

E allora,

viva noi,

evviva i ragazzi della via Pal!

Salvatore Vallone

Carancino di Belvedere, 21, 01, 2021

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