
Potevi chiamarti Greco e non Grecò,
come la signora Mara,
quella donna esposta di petto
e orgogliosa delle sue mani e della sua silhouette,
vestita di nero per lutto perpetuo,
che vende elettrodomestici in via Savoia
e liquida ritualmente al cinquanta per cento anche il padre
insieme agli estrattori del succo dei melograni di Proserpina.
Credimi,
saresti sempre stata la rosa nera dei cortili di Ortigia
che dalla Mastra Rua sboccano in fila indiana alla Giudecca,
nel quartiere degli Ebrei,
in un pieno maligno di odori speziati,
intessuti di salsedine e rosmarino,
di gerani ardenti di un rosso cupo
e di alghe morte di questo mare
che sopra dorme e sotto ribolle.
Poteva essere la tua Montpellier,
mais c’est si bon.
Potevi chiamarti Giulia,
come la mia compagna di classe,
la maestra abbandonata dalla madre infame e infoiata,
che con trecce bionde e lenti spesse
coltiva ancora la sua miopia
sopra i libri ammuffiti di greco e di latino,
in un bailamme osceno a lume di candele al sego puzzolente
intrattenendosi separatamente in via Mirabella,
la tua Rue Mirabeau,
al civico 23 del rinomato Cortile dei Porci
con Quinto Orazio Flacco e Publio Ovidio Nasone
e in ammucchiata con Eschilo, Sofocle ed Euripide,
sempre secondo il rito antico di Dioniso:
la follia nella testa e la danza nel ventre.
Poteva essere la tua Paris,
mais c’est si bon.
Potevi chiamarti Lisetta,
come la donna fedele soltanto a se stessa
e libera dai tabù del tempo e della storia
che attende sul balcone fiorito di basilico e di citronella
l’amore del marinaio infedele,
il naufrago che viene dal mare per grazia ricevuta
a consegnare le vesti ancora bagnate a Poseidon,
prima di accingersi all’amplesso ferino
dentro la grotta della Pellegrina di fronte l’isolotto di Ortigia,
mentre le onde del mare Ionio sciacquano le colpe dei nobili padri greci
e sciabordano i sensi infetti dei figli incivili in un continuo gorgoglio di morte.
Poteva essere la tua Saint Germain des Près,
mais c’est si bon.
Potevi chiamarti Sabina,
come la donna rapita dalla Tramontana e dallo Scirocco
con le cateratte del cielo poggiate sul balcone,
la maliarda che giostra le sue paturnie
in mezzo a sensuali trasporti
tra i muschi lucenti e le stelle cadenti
nella valle dell’invisibile Anapo,
immersa in tanta furia di natura sincera
là dove anche il povero Ercole pose li suoi riguardi
per eccesso di zelo e codardia,
occultandosi di giorno nelle chambres odorose di madame Suzette
e ricomparendo di notte nel bistrot di Via santa Maria dei miracoli,
nei pressi della Corte des Invalides.
Poteva essere la tua Ramatuelle,
mais c’est si bon.
Potevi chiamarti Maria,
potevi chiamarti Giulia,
potevi chiamarti Lisetta,
potevi chiamarti Sabina.
Ti hanno chiamata Juliette,
battezzata dalla gente di strada Jujube,
Jujube de mon coeur,
una fille silenziosa e solitaria
dai piedi scalzi e dalle gambe irsute
con un padre da immaginer e da odiare,
papà Gerard,
e una madre partisan da gifler e da odiare,
Juliette, elle aussi et comme toi,
lui poliziotto charmant d’italica memoria e uomo inetto,
della stessa pasta dei corsari corsi
e dei dittatori di un metro e mezzo,
lei tanto presa dagli uomini e dalla politique,
in attesa della Gestapo, di Ravensbruck, di Holleischen,
per tornare assolta tra le tue braccia adoranti
e prima di partire per l’Indocina
e lasciarti per sempre sola nella Rue des Innocentes,
nei pressi del cimitero più antico e più grande di Parigi.
C’est la vie, ma chère, c’est la vie!
Contavi diciotto anni,
dopo la tragica guerra della follia e dei bottoni,
in quel di Saint Germain des Près,
nella cinica e magica Paris,
e i boulevards erano l’ombelico del tuo corpo acerbo,
il luogo dove i bambini diventavano adulti
e gli adulti diventavano bambini,
tu enfant e mademoiselle,
tu fille della rue,
tu bohèmien,
tu pulzelle,
tu artista per bellezza,
tu esistenzialista per necessità,
espulsa dalla gente,
esplosa nella vita
dietro il decomporsi dell’amore
e dei sentimenti degli uomini
che a turno facevano a gara per averti,
per avere un tuo bacio,
per il caldo bacio di una magica vagabonda
che odora di avorio e di ghiaccio,
di pan brioche e di sesamo tostato.
Tu già sai quello che vuoi,
quello che ami e ammiri,
uomini e donne,
tu sai anche saltellare con un je m’en fous
tra i viali lunghi dei Campi Elisi
appena sconnessi dalla Luftwaffe.
Tu vuoi vivere soltanto le cose belle,
il resto lo lasci agli altri,
resisti alla banalità,
muovi il corpo a ritmo e le mani a danza
lungo le spire del tuo corpo sinuoso
in quel teatro di Montmartre
ripieno di clochard e accattoni,
di invalidi e deformi,
di cocottes e gigolò,
di artisti e commedianti,
di pittori e ladri,
di ballerine e cantanti,
il meglio del meglio di Paris après la guerre.
Nella strada cerchi il companatico e la baguette,
piedi nudi,
maglione nero dolce vita
e in un nero altrettanto sucrè nei pantaloni attillati,
ultima tra gli ultimi come nel vangelo della strada,
alla ricerca del sogno dei ricchi e della lotteria dei poveri.
Ma Paris è già canaille per una jeune miserable,
selvaggia,
indomabile,
silenziosa,
bizzarra,
asociale.
Mai dire jamais.
E così Mauriac ti saluta con un sonoro “bonjour Grecò”
davanti all’Hotel des Etrangers
tra le madames truccate e incappellate,
in odore di cipria e menopausa,
tra le pimpanti ballerine del Moulin rouge
in attesa di un ricco impotente da castigare.
Mai dire jamais.
Jean Paul e Simone ti parlano dell’Essere e del Nulla,
mentre se la godono al bar du Montana
tra una puzzolente Gauloises
e un aspro cognac Courvoiser da dopoguerra.
Per te,
proprio e solo per te,
il sarto sornione e furbetto cuce e adorna
La rue des blanques manteaux
con un boia pronto a gettare nel torrente dei frati bianchi
la tete avec le chapeau di generali e vescovi,
di ammiragli e commissari,
compresa quella di papà Gerard.
Mai dire jamais.
Alla Rumerie martiniquaise Albert fuma da straniero
le sue oppiacee Safir senza stare in cielo e in terra,
nella ricerca oscena dei tuoi baci e dei tuoi abbracci.
Ma tu non sei straniera a te stessa
e cerchi l’orgasmo del sapere di sé e dell’altro
al Bar du Port Royal con Maurice,
le vieil saggio che desidera i tuoi pantaloni neri e il dolcevita buio,
la dama in nero,
la rosa nera nei bistrot e la rosa rossa nel corpo,
la femmina di buon sangue e di voce pastosa:
le philosophe e la jeune femme
che vuol sapere della vita e della morte,
dell’amore e dell’odio
del sesso e della castità,
della Bellezza e dell’Arte,
del maschio e della femmina,
della libertà e della necessità,
della razza e della menzogna,
del giusto e dell’ingiusto,
dell’essere e dell’esistere,
del tempo e dell’eterno.
La jeune femme vuol sapere anche del Niente,
le Rien,
le Rien de Rien,
e, intanto, canta e fuma,
si tocca il bel viso e le buone fattezze con sapiente ironia
nel teatrino sconnesso della Bastille
con la Viceroy all’aschisch
che le pende dalla bocca ammiccante e maliarda
come uno stendardo slanciato al vento dell’ipocrisia.
Anche Jacques s’innamora di te e delle feuilles mortes
che tappezzano in autunno les boulevards de Paris
sotto il respiro del vento del nord
e in attesa di un oblio che non arriva,
in cerca di una canzone che unisce
e ricorda soltanto che ci amavamo,
toi tu m’aimais et je t’aimais.
Ma la vita separa les amoureux senza rumore
e anche il mare cancella le orme dei loro passi sulla sabbia,
mentre l’amore silenzioso e fedele ringrazia
e non riesce a dimenticare.
E poi,
dopo la gavetta,
après ses preuves,
si va con il vento nelle poppe erette
e gli occhi pittati di carbone,
con il naso a punta che attende un ritocco,
con la silhouette da danceur
e la voce impostata da chanteuse e già buona per l’Opéra,
si va a far la chantosa elegante e sofisticata nei bistrot e nei bar,
nei cafè e nelle rumerie,
si va a carezzarsi il corpo con le mani scivolose sui fianchi ricurvi
a suggerire anzitempo ai buongustai deshabillez moi,
a cantare che le foglie sono morte
e che il nostro amore è stato bello
anche perché è finito.
Sarà anche vero,
ma ancora non basta e tu insisti.
Ce soir non lasciarmi,
ne me quitte pas,
prendimi con forza e sii generoso,
sbalordiscimi,
prendi e porta via con te una donna
che canta in piedi l’amore e la libertà,
che fa sesso con maschi e femmine,
che parla del razzismo, dell’immobilismo, della menzogna,
che da voce ai bambini felici e ai vecchi bambini felici,
a tutti quelli che si amano come bambini felici,
une femme gèniale che canta storie d’amore senza tempo,
che al Bataclan danza la sensualità del corpo
e all’Odeon si esalta in Belfagor,
une femme sensuelle et sensible
che comunica la sua verità per sconfiggere la morte
con le parole che diventano pietre preziose e milioni di poesie,
con la voce che contiene guizzi eleganti e milioni di canzoni,
con Laurence Marie che parte anzitempo per il Nulla eterno
e con l’ictus sotto i capelli ardenti di nero.
Un coup de chapeau, madame Jujube!
A Saint Germain des Près
la memoria è un piacere carnale
e nella notte color carbone echeggiano i tuoi formidabili
déshabillez toi e ne me quitte pas.
Per te ho condito parole sensate
che ben capirai,
Jujube de mon coeur.
Ti ho parlato degli amanti
qui ont vu deux fois.
Salvatore Vallone
Carancino di Belvedere, 02, 11, 2020