
ODE IN LODE DI PIETRO,
IL GENTILGATTO DETTO PIERO
“Piero Pierin,
Piero Pierin,
Piero Pierot,
nel caffellatte io c’intingo i tuoi cingot.
Il gattone me lo mangio con la panna e col giambon,
Piero Pierin,
Piero Pierin,
Piero Pieron.”
Se tu sei un felino,
io sono Raul Siddharta Encumeni:
un nessuno muschiato con un niente,
un chissachì oltremodo anonimo e ignoto,
un quaracquacquà inetto e indolente
di cui a suo tempo parlò Leonardo Zarathustra
insieme alla sua civetta e nel giorno a lei dedicato.
Eppure io sono io e tu sei tu,
io sono Salvuccio Sinagra,
detto padre Carnazza,
tu sei Pietro,
detto Piero,
un soriano orientale alla Sandokan
che salta e s’avventa sui sorcini di campagna,
un molle pagliaccio francese
che ama i massaggi shiatsu sul collo pendulo
in ricordo della mamma gatta.
Eppure tu non sei un gatto,
perché si vede e si sente da lontano
che sei un gran pezzo di pane casereccio
condito con olio extra-illibato e origano dei monti Iblei,
perché si vede e si sente da vicino
che sei un favo ripieno di miele dolciastro e appiccicoso,
sempre degli stessi monti annoiati e distesi presso Sortino,
perché si vede e si sente da lontano
che sei un vivente dai miti consigli e dai pessimi intrighi,
un incallito e irresponsabile seduttore
che non ha scritto nessun diario
perché vive la sua vita alla menomale,
alla menopeggio,
alla menesbatto,
alla menopiù, più che alla menomeno,
ma soprattutto sei un vivente libero
che non si lega a nisciuno
semplicemente perché non sei un fesso
e accà tutti lo sanno.
E tutto questo si vede e si sente da lontano e da vicino.
“Piero Pierin,
Piero Pierin,
Piero Pierot,
nel caffellatte io c’intingo i tuoi cingot.
Il gattone me lo mangio con la panna e col giambon,
Piero Pierin,
Piero Pierin,
Piero Pieron.”
E allora?
Allora,
dimmi orsù,
o signor Pietro,
cosa nascondi di buffo sotto i baffi a sventola,
mentre rumini le salsiccette texane di un siculo Mc Donald?
Non gradisci la paprika perché ti irrita il retto?
Sai quante slinguate occorrono
per richiamare all’ordine la mucosa e le sue degne comari?
Lo sai, lo so.
Lo so che lo sai.
Tu sai tante cose
perché hai il gusto e l’olfatto delle cose:
poche, ma buone e al momento giusto.
Tu non parli il greco e il latino,
non conosci l’inglese e l’arabo,
il russo e il cinese,
ma hai mille e mille altre virtù,
come diceva Giosuè ai cipressetti di Bolgheri
e alla sua Tittì che piangente l’aspettava.
Tu sai sculettare di sbieco e di squincio
sulla strada che porta da Detroit a Santafè
passando per una mitica Cefalù,
sai balzare da una sponda all’altra di oceani maldestri
per accalappiare al volo un cefalo sciocco
da arrostire dentro un cartoccio argentato.
Tu sei per me una presenza inquietante,
un ectoplasma girovago e clandestino dentro un castello medioevale,
un inciucio etologico tra professori illustri e gattofile massaie,
un insulto all’homo sapiens e ai facsimili cosiddetti,
un nobile puttaniere da bordello di Malta
che aspetta nella Marina di Ortigia il panfilo delle belle ragazze
per attraversare il siculo canale
tra acide tempeste ormonali
e schizzi volanti di piscio maleodorante
incisi sui bianchi muri della mia modesta e modica magione.
O gatto infame e in odore di mafia,
lasciati sognare con la libido genitale in corpo
e con gli investimenti psicofisici giusti e naturali,
lasciati adorare la vecchia pellaccia rossa e bianca,
linda e tersa come le trippe del megastore dei nuovi dettaglianti,
lasciati onorare sul tuo altare di solitudine
con le penne al vento degli sciocchi bersaglieri
che sempre corrono e mai si fermano,
come i pompieri di Viggiù che quando passano i cuori infiammano,
lasciati afferrare con le cariche di bellezza dei tuoi irruenti atomi
destinati a un obbrobrioso spezzatino di manzo e maiale,
lasciati blandire con le solite litanie di nonna Lucia
e delle vecchiette intrepide e sempre in lutto
che nella chiesa di san Paolo celebrano i loro nobili trofei.
Lasciati fare e lasciati servire, o gatto delle mie brame!
Sai che non sono buddista e tanto meno cristiano.
Mi porto dietro qualcosa di arabo
da sotto le sottane di mia madre
per la solita paura di essere lasciato da solo
a ballare il paso doble
in un convento di frati o in un collegio di suore,
come gli orfanelli politici del Fascismo e delle sue guerre intelligenti.
Sai che preferisco camuffarmi da ebreo errante
solo perché mi piace andare in giro su evanescenti vascelli
e non perché sono convinto della bontà
di questa logorata e logorante giostra religiosa
dei cavallucci penduli e impennacchiati
e delle macchinette appositamente gommate per lo scontro.
Io,
di mio e d’altrui,
non credo a quello che vedo.
Figurati se mi abbandono a quello che tocco!
Non sono mica Masino,
il direttore della nuova novella 2000,
non voglio mica la luna,
come la cantante dal fiore liso.
Io sono soltanto un assaggio del linguaggio del Verbo,
un misero cumulo di parole a tinchitè
che oggi ti sparo con la mia scacciacani nuova di zecca,
io sono un bossolo verbale
che ti arriva prepotente addosso
soltanto per amore e per rispetto,
che a te chiede e da te vuole sapere la verità,
l’aletheia,
quella che non si nasconde dietro quello che si vede,
il noumeno nel culo del fenomeno.
Io voglio sapere chi sei in persona,
o brutta bestiaccia
dalla lingua ruspata tra rosee labbra
che penzola da due occhi serrati
e dondola tra le meraviglie dei soliti due occhi di verdastro incantati
e conditi con scaglie di pistacchio speciale di Bronte.
Io voglio ancora sapere perché,
quando arrivo,
tu mi senti,
mi vedi,
fai la tua pipì sul mio davanzale
e fuggi nell’eden dell’ameno Carancino
mostrandoti ai miei occhi increduli e incerti
nella forgia del severo padrone di un lindo b&b
deluso dal suo ospite ingrato
che gli ha fregato la trombetta a sonagli
e gli asciugamani colorati da bidet,
arrabbiato con il governo ladro di polli
e fornitore indiscusso di pampers televisivi agli incontinenti.
Perché questa insolenza d’amore e odio, o mio gatto preferito?
Merita tutto questo Salvuccio Sinagra, detto padre Carnazza?
Non pensi che meriti di peggio?
E poi, perché fuggi?
Non vuoi mostrarmi i tuoi occhi appiccicati dall’umore delle lacrime
e arrossati dal siero di un pesante raffreddore da fieno?
Tu sei un signore sensibile,
ancor prima di essere gentile
e allora giri,
rigiri
e non ti lasci corrompere dalle nuove fattezze
che i tristi tempi impongono dall’alto di un Comitato scientifico:
la mascherina di gran moda e la distanza di sicurezza,
l’assembramento fuori moda e fuori stagione,
il cu futti futti e dio pirdona a tutti,
i dindi,
i tanti dindi che non piovono mai e abbastanza
sul desco fiorito di occhi di bambini,
i skei,
i tanti skei che cadono sempre sul bagnato
per la voracità dei soliti ignoti
che mangiano e cagano continuamente le polpette di zio lupo,
per l’accidia degli stenterelli
che non conoscono la lingua patria
e parlano alla Jacques,
senza capirci un cazzo e tanto per dire.
E dove mettiamo
i soliti narcisi che hanno ingoiato una superba caretta caretta
che è rimasta proprio sullo stomaco
e le varie e vaste mele al sole in attesa di disidratarsi
con lo spaghetto tra le labbra grandi e piccole
sulla sabbia dorata della spiaggia di una pazzoide Avola
tra cosce cadenti e lune pensanti,
tra mandarini tardivi da sbucciare e mandorle amare da gustare,
tra carati di carrube e intingoli di creme alla marinara.
Vedi cosa mi tocca vedere,
o gatto delle mie brame,
o gatto delle mie speranze perdute in un cesso pubblico
del lindo autogrill dell’autostrada
che da Firenze Scandicci porta ad Arezzo nord,
da Matteo l’evangelista ad Amintore il chierico!
Ormai si sa anche nel quartier del Piave
che tu sei un gatto codardo e infingardo,
una bestia rara senza stivali
che salta su un olivo antico
per nascondersi agli occhi delle gentili donzelle
che al tempo giusto bramano i cingotti,
quelli che hai ben sistemato ed esibisci prima della coda,
quella coda che non mordi e non rincorri più
da quando hai capito il bello e il ballo della vita.
Altro dirti non so,
credimi
e credi sempre al tuo persistente Salvuccio Sinagra,
detto padre Carnazza,
e alle sue parole sparse noiosamente allo Scirocco
e riprese al volo da quel severo Libeccio
che di certo non benedice quello che tocca
con le sue sonore frustate di bianco vestite
tra i massi di languido calcare
e pronti per un anonimo e tisico scalpellino
che rifonderà il Barocco
attendendo la silicosi per sé e per i suoi dodici figli.
“Piero Pierin,
Piero Pierin,
Piero Pierot,
nel caffellatte io ci intingo i tuoi cingot.
Il gattone me lo mangio con la panna e col giambon,
Piero Pierin,
Piero Pierin,
Piero Pieron.”
Salvatore Vallone
Carancino di Belvedere, 16 settembre 2020