
LAMENTO IN PAROLE
L’invidia,
che lucida traspare dai tuoi occhi,
mi costringe ad abortire tutta l’aggressività maturata nel granaio,
quando m’ingravidavi di odio.
Adesso non riesco più a lasciarti.
Non vedo il come e non capisco il perché.
E allora io fingo di andar via,
correndo incontro a un genitore geloso,
un uomo che oggi si pensa cornuto
e che dentro lo è stato sempre,
specialmente da quando ha visto sua madre
appartarsi con suo padre nel granaio e con fare sospetto.
Io minaccio
e inutilmente agito le mani contro la tabuica violenza
consumata sui bambini e sulle donne,
giustificata dall’arteriosclerosi culturale
che irrigidisce i flussi e i riflussi sanguigni,
più che storici,
i corsi e i ricorsi storici,
più che sanguigni.
Gradisce la merda marrone o il sangue rosso?
Nessuno consola ormai la mia angoscia di morte,
eccezion fatta per qualche generoso farmaco,
il Prozac,
un ammorbidente come il Vernel,
che si concede alla mia sfrenata voglia di uccidere la coscienza.
Io non posso picchiarti perché sei mio padre.
E allora?
E allora io me ne vado.
Come saresti cambiato ai miei occhi,
se nel fienile,
invece di consumarti in lacrime di sangue
e nel disprezzo di una moglie puttana,
mi avessi insegnato a non fuggire di fronte a quel povero niente
che, quando arriva, ti opprime e ti riempie di calma,
quella dolce sensazione di ristagnare in un putrido letamaio
tra pantegane e sordi rancori,
anch’essi abbandonati a marcire al sole e alla pioggia.
Perché mi metti tra te e lei?
E io?
Io chi sono?
Leggera e insostenibile è la leggerezza del mio “non essere”.
Io sono Nessuno
e non ho niente da spartire con Ulisse e Polifemo.
Di certo potrei essere Qualcuno,
sconosciuto a me stesso
e alle mie brame sessuali represse,
sublimate in una dolce astinenza,
contorte e bombate
come le sbarre di ferro di una ringhiera araba
esposta nel balcone di una strada di Siviglia
al sole e alla pioggia,
allo scirocco e al maestrale,
un orgoglioso prodotto di mani esperte
buono anche per la ruggine.
I pretesi fatti e misfatti sono una mistica utopia,
simile alla mia sbandierata aggressività
che non trovo al momento opportuno
dentro i calzoni per l’assalto alla donna,
un’aggressività che sa di ascesi e di castrazione,
di complesso edipico e d’identificazione mancata.
Ah, se potessi tornare indietro,
piccolo e docile,
senza prepotenza, senza risoluzione e senza calcolo!
E invece mi ritrovo solo e isolato,
eccentrico e illuso artefice di me stesso,
decorato alla memoria
nel “carpe diem” di tanto disagio.
Io mi ritrovo in uno stato depressivo di cose.
Scaricherei aggressività alla fine,
alla fine di un ciclo dove primeggia il padre
e le assurde idee di un dominio ineluttabile,
di una cultura ineludibile,
che vola a bassa quota e scarica merda sui figli.
La crisi preme e s’insinua in ogni piega
per possedere tutti.
Io non l’ho riconosciuta e non l’ho superata.
Chi colpirà adesso?
Non trovo capitali da investire in banca e in borsa.
La libido del mercato è osteggiata dalla polizia
secondo le norme acritiche di una legge nefasta
che mi vuole amico e nemico,
alleato e avversario di mio padre
e di una parte di me stesso.
In base alla distruttive coordinate di uno spirito oppositivo
io avanzo e indietreggio,
progredisco e regredisco,
aumento e diminuisco,
affermo e nego il mio stesso essere in un gratificante dilemma.
Ah se riuscissi ad aggredire!
Forse starei bene nel distruggere Qualcuno.
Io non so chi tu sia, o anonimo Qualcuno,
ma stasera vorrei vedere i tuoi occhi riflessi nei miei,
occhi sicuri della caduta degli dei
e allora qualcosa di nuovo potrebbe finalmente accadere.
Io non ti cercherò nelle pagine gialle
o nelle grigie profezie di Nostradamus,
l’impostore e il visionario,
il compiaciuto evocatore di tormenti per gli uomini,
il brutto e vecchio sadomaso privo di voglie.
Io voglio andare al “dunque” della mia conoscenza,
alla fonte della mia aggressività,
una forza inespressa in un uccello che non canta
e in altre piccole cose
che ributtano a pollone da una oscura sorgente.
Sento che la mia sana aggressività si è occultata
in un periodo della mia vita,
in un tempo gravido di eternità,
quando mio padre mi parlava dei suoi cinquanta logori anni
e li metteva in fila di fronte a me insieme alle sue corna
come tanti sassolini sulla sabbia
alla ricerca di un Pitagora orgoglioso di sé e della sua geometria
o di un Archimede che grida per l’ultima volta il suo “eureka”
mentre un vile soldato trafigge il suo corpo in un impari faccia a faccia,
l’uno armato di fisica e l’altro di gladio.
Ma cosa poteva fare un bambino?
Come poteva aiutarti tuo figlio?
Adesso, per sopravvivere, mi tocca infilzare il mio nemico
sulle tracce consumate di atavici sentieri,
tracce non annientate dal tempo
e proiettate nello spazio infinito di un cielo stellato in una notte d’agosto.
Finalmente potrò riposare dentro una città o dentro un palazzo,
libero di me stesso,
libero e felice nella mia casa psichica.
Io esco fuori e sono felice di poterti distruggere.
Io mi chiamo David
e vivo in umiltà con me stesso e con il mondo.
Io sono una sola cosa con me stesso,
un’unità con l’esterno e con l’interno.
Felicità è la conoscenza di Dio
esperita tra le candele di una splendida chiesa barocca.
Io non sono felice,
il mio Io è diviso dalla creazione del mondo
ed elabora sempre ambigue strategie psico-politiche.
Io devo combattere per inerzia,
altrimenti non so cosa fare di un’aggressività banale
che oltretutto non possiedo nella radice.
Attendendo il nemico,
farò una passeggiata lungo il Piave,
accontentandomi del cadavere di un qualsiasi imbecille,
curando di non assorbire nelle mie vene
l’urina ancora fresca di una pantegana
che spappola il pancreas e il fegato degli incauti pescatori
di povere trote e non di uomini.
E io guardo,
io intanto guardo le coppiette vezzose di sesso dietro i salici
senza trovare la forza d’inventare un progetto tutto mio.
Da buon guardone,
di questa scena farò un quadro a olio.
Ci metterò un bambino e una fontana,
quel drago e quella strega
che non ho mai provato a combattere
per sentirmi vivo.
In una surreale fantasmagoria di simboli
illuminata di presente e di passato,
di presente e di futuro,
io,
io resto ancora tenacemente prigioniero di un indefinibile “non saprei”.