
TRAMA DEL SOGNO
“Ero in viaggio per una vacanza, sono partita con alcune amiche e siamo arrivati a Parigi.
Siamo andate in un albergo alla periferia della città, era un luogo non molto luminoso con dei lumi accesi.
Le mie amiche mi hanno invitato ad andare in giro per la città a fare shopping, ma io ho rifiutato dicendo che sarei andata il giorno dopo.
Dopo qualche ora sono arrivati i miei cugini e mi hanno invitata ad uscire. Sono stati tanto insistenti e io ho accettato l’invito e siamo andati in giro.
Era l’imbrunire e le strade erano buie e deserte.
Poi mi sono svegliata e non ricordo altro.”
Questo è il sogno sognato da Barbissa.
INTERPRETAZIONE DEL SOGNO
“Ero in viaggio per una vacanza, sono partita con alcune amiche e siamo arrivati a Parigi.”
Barbissa è una donna che fa della socialità il suo pane quotidiano, predilige l’elemento femminile in versione moderata e i luoghi trasgressivi come Parigi canaglia. Barbissa aspira a viaggiare e a esulare per riempire i suoi vuoti interiori e di questo espediente psico-esistenziale ne ha fatto una terapia, la sua terapia. Lei parte, lei viaggia, lei arriva, lei prova, lei tenta, lei insieme e non da sola. Il “viaggio” di Barbissa non è il simbolo della vita che scorre e si evolve con il suo ineludibile andare verso la fine. Il “viaggio” di Barbissa è proprio un rincorrersi dentro di volta in volta per costruire la sua consolazione riepilogando alla sua maniera il “già visto” e il “già vissuto” nella sua vita in atto e in corso e non in metafisiche e paranormali esistenze pregresse. Barbissa è pratica e concreta, parte per Parigi con le amiche in vena di riempirsi d’emozioni e di curare i suoi vuoti e le sue tristezze attraverso uno sballo consentito dalla sua etica e dalle sue esperienze di vita. “Parigi” è, infatti, il simbolo della trasgressione e dell’erotismo, il Francese è la lingua più sensuale dell’orbe terracqueo. “Parigi val bene una vacanza”: disse Barbissa salendo in aereo e lasciando il suolo natio. Il sogno dirà quanto e quale divertimento sarà capace di imbastire per i tratti psichici con i quali si è imbarcata per questa avventura.
“Siamo andate in un albergo alla periferia della città, era un luogo non molto luminoso con dei lumi accesi.”
Barbissa manifesta sin dall’arrivo le sue predilezioni discrete e il suo bisogno di crepuscolarismo. Barbissa non vuol pensare lucidamente e tanto meno tenere accesa una coscienza lineare e una auto-consapevolezza estrema. La donna vuole riposare a lume blando e pacato e non desidera essere al centro delle attenzioni e delle predilezioni. La sua modestia è stoica, si basa e fa perno sul giusto mezzo: “est modus in rebus”. L’albergo di periferia è un classico dei poeti bohemien e degli chansonnier, degli artisti di strada e delle donne libere, delle ballerine di Toulouse Lautrec. L’albergo di periferia è il luogo della coscienza subliminale, quella che serve per rilassarsi e riconciliarsi con la vita quando quest’ultima è irruenta e scorre in argini scomposti. Le amiche non mancano, la coscienza è accesa nel modo giusto, il posto è fascinoso, per cui si può andare in giro per la capitale della trasgressione e del vizio.
“Le mie amiche mi hanno invitato ad andare in giro per la città a fare shopping, ma io ho rifiutato dicendo che sarei andata il giorno dopo.”
Ecco che viene fuori la Barbissa profonda, quella che si isola e che si trova bene da sola, quella che ama l’introspezione e non si sente a posto fuori se non è a posto dentro. Barbissa pospone la socialità e il divertimento a un sentirsi bene con se stessa, al ritrovamento di un equilibrio psicofisico prima di addentrarsi nelle tortuosità del mondo moderno e nelle eccitanti traversie dello “shopping”, dell’acquisire e dell’avere al fine di reperire quella sicurezza che non si acquista al supermercato anche se francese e all’ultima moda. Barbissa non ha bisogno di acquistare il futile e l’inutile, ha bisogno di sistemare le tante esperienze che hanno costellato la sua esistenza e riempito emotivamente la sua vita, ha bisogno di quel tocco personalissimo di qualità che colora quello che le scorre intorno come in un film pubblicitario e senza il bisogno di fare nuovi clienti. “Domani”, domani ci sarà tempo per le avventure sui Campi Elisi e sulla torre Eiffel. Domani si può andare Chez Maxime e al Moulin Rouge a imbeversi dei colori rubicondi delle ballerine con le tette al vento. Barbissa ha una pacatezza di fondo che rasenta la tristezza, ha l’età giusta per non aver fretta di vivere e per sentire la voglia di aspettare.
“Dopo qualche ora sono arrivati i miei cugini e mi hanno invitata ad uscire. Sono stati tanto insistenti e io ho accettato l’invito e siamo andati in giro.”
E’ proprio una tristezza di fondo quella che governa l’umore di Barbissa ed è quella tristezza che sa di vita vissuta e di paziente attesa del meglio che può ancora venire, un bene affettivo soprattutto, “i miei cugini”, che non guasta mai alcuna bevanda. Barbissa si abbandona alle premure dei familiari e alle insistenze di coloro che condividono sensi e sentimenti, esperienze e riflessioni. “I miei cugini” sono tutto questo mondo di affetti che si porta dentro Barbissa e sono tanto “insistenti” proprio perché lei calca la mano su questo materiale elettivo e proprio questo cerca e vuole, gli affetti familiari che si possono traslocare anche a Parigi, nella città più sexy del mondo. Barbissa ha bisogno di tempo e di riflessione per muoversi e per investire la sua “libido”, ma, quando è a posto, si vede e si sente che sta bene.
“Era l’imbrunire e le strade erano buie e deserte.”
Ah, questa brutta bestia della tristezza ha tanto bisogno di uscire e di mostrarsi in pubblico. Questo capoverso è l’allegoria del “de senectute”. “L’imbrunire” attesta della caduta della vigilanza a favore degli stati crepuscolari della coscienza e la cosa ci può stare anche positivamente, una forma di “atarassia” e di “nirvana”, ma “le strade buie e deserte” non ci volevano proprio, sanno di mancanza di prospettive e di soluzioni, odorano di solitudine e d’ineffabile, di ineludibile e di incertezza. Il “buio” appartiene al corredo depressivo della perdita ed è figlio primogenito del “fantasma di morte”, così come l’aggettivo “deserto” attesta dell’impossibilità di scegliere e dell’assenza di prospettive: una vera desolazione affettiva, un eclatante pessimismo sulle sorti finali dell’esistenza. La consolazione vuole che Parigi sia anche la terra di Jean Paul Sartre e dell’Esistenzialismo nichilistico, di Edit Piaf e dei maglioni dolce vita neri, di Simone de Beauvoir e di Juliette Grèco, per cui Barbissa è in sintonia e in buona compagnia, sa dove andare con le idee più cupe, si trova nel posto giusto anche con le convinzioni filosofiche estreme e poco generose verso la costruttiva “libido”. Altro che simbolo della trasgressione, Parigi si è rivelata la città più triste del mondo terracqueo e l’anticamera della brutta morte, quella che non ha prospettive di riscatto e di ritorno alla sopravvivenza.
“Poi mi sono svegliata e non ricordo altro.”
Non serve, è già tanto quello che Barbissa ha sognato, a piena testimonianza della consapevolezza dell’umano travaglio del vivere e della debolezza delle umane sorti.
Questo è quanto si poteva dire del triste sogno di Barbissa.