
LA LETTERA
“Doc, qua viene giù tutto: uno tsunami biblico.
Quando finirà, ci toccherà vendere la fontana di Trevi.
Quanto può tenere una quarantena simile senza che non comincino disordini di ogni tipo?
Ho paura, una paura che non ha niente a che vedere con nessun’altra prima.
Quando sono a casa e mi guardo attorno, analizzo che quanto ho a disposizione non vale niente. Sdraiato a letto prego che ci possa esser ancora qualcuno al mondo interessato a casa nostra in modo di poterla vendere, se serve.
Non ha un senso quello che stiamo vivendo. Nessuno può darmi risposte. Nessuna risposta o ipotesi mi sembra esauriente e degna.
E quando guardo i ragazzi, non riesco neanche a sperare per loro in qualcosa.
Non è la morte che mi spaventa, il Caos è la mia paura più grande.
Maurizio
Verona, mercoledì 01 del mese di aprile dell’anno 2020
LA RISPOSTA
Lo stesso Maurizio si porge su un piatto d’oro, sia pur con timore e tremore e senza consapevolezza, la risposta giusta al suo tormento vigile e consapevole e proprio quando alla fine della lettera scrive “E quando guardo i ragazzi, non riesco neanche a sperare per loro in qualcosa.”
Si è destata la “pietas” paterna. Maurizio dopo la paura dello tsunami e del Caos si imbatte in questo travaglio tra sé e sé, si imbatte nella sua paternità, nella sua nuova consapevolezza di essere padre e riconosce i figli provando dolore per la loro sorte, per il loro futuro. Anche la speranza è svanita in tanto trambusto psicofisico, ma la nuova consapevolezza della paternità è la giusta e naturale soluzione al suo tsunami e al suo Caos.
Procedo con metodo e passo dopo passo, ma non prima di aver ringraziato per il “doc”, la denominazione di origine controllata. Il sangue è come il vino, non mente.
“Doc, qua viene giù tutto: uno tsunami biblico.”
Il senso della catastrofe e dell’irreparabilità: l’uomo ha peccato contro Dio e contro la Natura e la vendetta è pronta. Il senso di colpa per aver turbato l’armonia del creato e le leggi dell’universo è presente in questo novello diluvio universale. Purtroppo manca Noè e un altro patriarca non si profila neanche all’orizzonte. Al massimo oggi possiamo contare su qualche cavaliere in disuso o su qualche sceriffo con la stella di latta o su qualche patriottessa di antica memoria. Quella di Maurizio è angoscia e non paura del contagio o della restrizione della libertà, quella di Maurizio è angoscia allo stato puro ed evocata dalla situazione in atto e dal ridestarsi in lui del nucleo antico del “fantasma di morte”. L’esagerazione e l’amplificazione dell’evento “coronavirus”, una terribile pandemia tra le tante ed elevata alla potenza di precipizio e di maremoto, attestano che Maurizio è stato ben colpito nel segno, nel materiale psichico pregresso e depressivo, quello vissuto ed elaborato nella prima infanzia. Nonostante lo tsunami, il “coronavirus” ha pescato bene e non poteva essere diversamente perché tutti siamo bersagli del drammatico evento epidemico. Ricordiamoci che a tutt’oggi non siamo ancora consapevoli di quello che ci sta succedendo tra capo e collo e che lo saremo soltanto fra qualche anno. Per adesso stiamo battendo cassa e stiamo sopravvivendo al meglio consentito dai vari meccanismi di difesa che ci tutelano dall’emergere dell’angoscia.
Quando finirà, ci toccherà vendere la fontana di Trevi.
L’interesse e il denaro sono inevitabili trappole mortali e Maurizio non è buddista, Maurizio è stato toccato nelle sue attività lavorative e nei registri della sua economia aziendale. Il colpo è duro e non basta capire che la storia viaggia per “epoche critiche” ed “epoche organiche” e che siamo appena usciti da una “epoca organica” per imbroccare una crisi pesante, quella che ci consentirà di ricostruire e di pervenire alla fissazione di una “epoca organica” di stabilità e di noia, a cui nel breve tempo subentrerà un nuovo tzunami e un nuovo caos. Non basta la filosofia della Storia e la Fisica sociale di Comte per lenire l’angoscia di Maurizio. Alienare i beni culturali inestimabili, come la fontana di Trevi di Nicola Salvi e ripresa da Giuseppe Pannini, dimostra che la perdita è tanta ed è di natura culturale, oltre che mercantile. Emerge un tratto psichico “anale” nel nostro eroe, almeno così si esprime la Psicologia del Profondo, la Psicoanalisi. Emerge in Maurizio un tratto psichico “anale”, legato alla perdita di potere, a sua volta legato alla perdita di denaro. Emerge la rabbia come conseguenza della frustrazione subita, meglio, emerge l’aggressività in reazione al sentimento di prostrazione e di perdita degli averi e dei beni materiali così importanti e così umani. Totò, all’anagrafe principe Antonio De Curtis da Napoli, era riuscito a vendere la fontana di Trevi, nel famoso film “Tototruffa 62” di Camillo Mastrocinque, allo sprovveduto di turno e in elogio all’arte di arrangiarsi e alla creatività del Genio italico. Non vedo perché anche noi, che siamo i suoi degni eredi, non possiamo rifare l’operazione truffaldina e vendere anche il Colosseo, magari ai freddi Tedeschi o ai tulipani Olandesi che tanto ci ostacolano con le loro antiche e attuali invidie. Chi vivrà vedrà e mai parole furono così profetiche in questi giorni di grande stranezza e di grande disgrazia.
“Quanto può tenere una quarantena simile senza che non comincino disordini di ogni tipo?”
La domanda è lecita, ma è finalizzata prevalentemente al turbamento dell’ordine sociale costituito, ai tumulti della piazza e agli assalti al forno di manzoniana memoria. Maurizio è preoccupato proprio dalla perdita dei beni materiali a opera della plebaglia che non aspetta l’ora di derubare i ricchi e di sostituirsi a loro. La filosofia spicciola e la rivoluzione sociale di Robin Hood sono da preferire all’ideologia dei comunisti rivoluzionari che seguono il “materialismo storico scientifico” di Karl Marx. Meglio l’assalto al supermercato Lidl di Palermo da parte dei posteggiatori abusivi disoccupati e dei tanti creativi che lavorano in nero, piuttosto che la rivoluzione proletaria propagandata da Francesco Guccini nella canzone sovversiva “la locomotiva”, quella degli operai guidati dall’emerito e benemerito macchinista ferroviere. Maurizio è tutto preso dalla perdita economica e dalla violenza sociale, non è abbastanza turbato dal virus che ammazza di brutto la gente anziana come me togliendogli il fiato. Maurizio è tutto preso da quello che il virus porta via ai ricchi e ai potenti. E’ vero che la quarantena desta turbamenti individuali e sociali, come ho descritto nell’articolo postato il primo di aprile, specialmente dopo quattro settimane di clausura a un popolo, come quello italiano, che non ha preso i voti nell’Ordine monastico di chissà quale santo. E’ vero che la limitazione della libertà individuale e la costrizione anche psicologica negli angusti confini di ottanta metri quadrati sono un’esperienza drammatica per il popolo, ma Maurizio è attaccato al denaro, all’affare, al guadagno, non contempla la perdita psichica e tanto meno la sindrome depressiva. Non è la vita il bene da tutelare, ma la “roba”, quella di mastro don Gesualdo del caro Giovanni Verga, il fotografo ante litteram catanese e il romanziere caposcuola del Verismo. Come mastro don Gesualdo Maurizio troverà il suo riscatto dal mito e dall’ossessione della “roba” in seguito, a testimonianza che la Psiche sa mettere le cose al posto giusto e senza la consapevolezza del portatore e della sua avida testa.
“Ho paura, una paura che non ha niente a che vedere con nessun’altra prima.”
Giustamente quella di Maurizio è una paura centrata e consapevolmente legata alla perdita del potere economico, ma è soprattutto angoscia, perché sente che la sua paura di perdita non è quella di prima e non è come prima perché non ha oggetto specifico. Si è ridestato il “nucleo” psichico depressivo e ha evocato l’angoscia dell’ignoto, dell’indefinito, dell’indeterminato, la somma di tante paure che hanno perso la loro connotazione e la loro identità per diventare generica e semplice angoscia. Maurizio è in piena angoscia e sta male perché non sa la causa e la verità di tanto trambusto. Non è l’economia, ma è la psicologia, non è il denaro, ma è la sua organizzazione psichica che reagisce allo stimolo della perdita dei beni.
“Quando sono a casa e mi guardo attorno, analizzo che quanto ho a disposizione non vale niente. Sdraiato a letto prego che ci possa esser ancora qualcuno al mondo interessato a casa nostra in modo di poterla vendere, se serve.”
Ritorna l’analità, la paura di perdere i beni, la sindrome di mastro don Gesualdo. Maurizio riflette pregando e si rende conto che tutto quello che ha accumulato va in malora e non serve a vivere perché è materia deperibile e non invidiabile. Ci sono beni maggiori e migliori per un uomo al di là del potere della materia che si perde. Maurizio non è più interessato ai suoi beni, non è lo tzunami che lo angoscia, è lui in prima persona e in prima linea che tramite questo evento ha fatto una scala dei beni per cui vale la pena vivere e morire. Maurizio è cresciuto ed è maturato. Adesso è in grado di dare il giusto rilievo al denaro e al potere perché ha paura di non sopravvivere, perché non si può mangiare il denaro, la sindrome del mitico re Mida che ebbe da Dioniso il dono di trasformare in oro tutto quello che toccava e che per questo dono morì di fame. Chi comprerà la sua casa per avere la possibilità di continuare a vivere? I valori vanno al giusto posto nella scala sociale e culturale. Più che l’angoscia del potere, potè l’angoscia del digiuno, l’affamamento, la morte per fame, la morte per mancanza di vettovaglie. Il denaro è una forma di potere da rivedere e da collocare nella giusta posizione nella scala dei valori personali e socioculturali. Il “coronavirus” con il suo carico di morti e di angosce è un buon maestro per chi sa ben leggere nel suo libro epidemico.
“Non ha un senso quello che stiamo vivendo. Nessuno può darmi risposte. Nessuna risposta o ipotesi mi sembra esauriente e degna.”
Maurizio persiste nelle sue funeste resistenze a capire in pieno e appieno. Destituisce d’importanza logica il carico e il complesso dei vissuti in questo tempo di strage epidemica. Maurizio non vuol capire la lucida e fredda Logica dei segni del tempo storico e culturale. E non ha senso la lezione di Charles Darwin prima di questo evento traumatico che sta scuotendo l’umanità dalla testa ai piedi e sta mettendo al posto giusto le cose e i valori. Maurizio ricorre al suo bagaglio psico-culturale ed esistenziale e non trova la giustificazione a se stesso sul perché dovrebbe rinnegarsi e rinnegare la sua filosofia di vita. Non sa ancora che la verità sta affiorando da se stesso e tramite quelle risorse che non sapeva di avere e che erano dentro di lui. Quello che stiamo vivendo ha una semplicità estrema e ha un senso occulto da tirare fuori e che ci costringe a rivedere il nostro sapere e a riformulare le nostre azioni e le nostre convinzioni. Il passato è andato in fallimento e al presente si naviga verso un ignoto apparente con il cannocchiale dei naviganti, che è molto diverso da quello dei mercanti.
“E quando guardo i ragazzi, non riesco neanche a sperare per loro in qualcosa.”
Ecco la soluzione di Maurizio, la sua paternità, il suo essere padre dei suoi ragazzi. Proprio quando dispera, si accorge dell’altro. Era tutto preso da sé, adesso si smolla e incontra ancora se stesso nella forma del padre. Io sono io, io sono il padre dei miei figli. Li guarda con la “pietas”, con la partecipazione empatica, li riconosce come destinati a una vita in cui lui non può intervenire, ma sente la responsabilità di averli messi al mondo, un mondo brutto e non bello in questo momento storico e in questa contingenza pandemica. Maurizio sente quasi la colpa di averli concepiti, desiderati e visti nascere e crescere. Guarda i ragazzi e ha una nova consapevolezza di loro semplicemente perché ha una nuova consapevolezza di se stesso. I figli sono lo strumento del padre per rivivere se stesso e le scelte importanti a cui non aveva riservato grande impegno riflessivo, a cui non aveva dato grande importanza tutto preso dallo sbarcare alla grande il lunario mercantile. Adesso li guarda con gli occhi puntati sulla fine di un’epoca “organica” e sull’inizio di un’epoca “critica” dettata dalla Morte e ispirata dalla pandemia. Adesso comincia a viverli non come una sua proprietà, ma come persone a cui non deve far mancare la libertà di decidere delle loro esistenze. Ma quale dramma sta vivendo veramente Maurizio? Quale parte sta recitando sulla scena del “coronavirus”? Quale nucleo si è mosso beneficamente nel suo animo tormentato dalla crisi economica? Questa è la chiave psichica elaborata da Maurizio in persona e finalmente per se stesso.
“Non è la morte che mi spaventa, il Caos è la mia paura più grande.”
Maurizio sa e non vuol capire, ha tirato fuori la sua verità da solo e adesso sposta l’argomento dicendo che lo spaventa di cadere nell’indeterminato, tira fuori dal cilindro una tesi filosofica che fa capo al grande Anassimandro del quinto secolo prima del Signore. Maurizio non sa che il Caos greco è la Cosa più ordinata che l’uomo abbia mai concepito e non è quell’entropia che tutti si aspettano dal vocabolario andante e gergale. Maurizio ha una sacra paura dell’Indeterminato psichico, della perdita depressiva non del suo Avere, ma del suo Essere, parodiando Fromm. Maurizio non teme il contagio e la clausura monastica dei frati trappisti che da cistercensi erano diventati stanziali in attesa di morire con minor fatica. Maurizio è sorpreso da quello che emerge in lui, è frastornato dal nuovo vissuto che si profila nei riguardi dei figli. E come se li avesse guardato e vissuto con gli occhi dell’imprenditore e adesso di fronte al rischio di ammalarsi e di morire si converte e si regala una nuova visuale e una nuova prospettiva. La sua realtà di uomo si è finalmente evoluta nella sua realtà di padre attraverso il dolore. La sua morte si riscatta nella sopravvivenza dei figli e finalmente li vive con le sensazioni acerbe, finalmente prova dolore per l’altro. Finalmente sa di non averli goduti nella maniera giusta e si rammarica con se stesso mischiando nel crogiolo emotivo e sentimentale la felicità di essersi ritrovato ritrovandoli. Meno male che ancora siamo tutti in vita per poterne parlare e per poter riparare i fili della maglia che si erano diradati.
IN MEMORIA DI DIEGO NAPOLITANI
La conclusione è di scuola psicoanalitica, meglio gruppo-analitica, ed è dedicata al ricordo del mio docente degli anni ottanta, quell’uomo che, quando parlava, affascinava semplicemente perché raggiungeva le profondità marine inimmaginabili, come il mio amico di giovinezza Enzo Maiorca nel mitico mare di Ortigia. Diego Napolitani era nato a Napoli e della sua città aveva mantenuto la vena creativa e l’ironia di chi tra arabo e spagnolo capisce che ci vuole il dialetto milanese. A Milano fu medico ed endocrinologo, specialista in malattie nervose e mentali, psicoanalista e professore, caposcuola. Approfondì temi della Psicoanalisi freudiana e junghiana, abbracciò la Gruppoanalisi di Foulkes ed apportò il suo valido contributo di approfondimento e di novità.
La diagnosi finale dice che Maurizio, tramite l’evento reale, ha destato il suo “fantasma di morte”, il suo nucleo psichico depressivo, nella forma della perdita del potere economico per poi approdare alla risoluzione del vissuto traumatico attraverso la “pietas” paterna, il riattraversamento e la riattualizzazione del suo essere stato figlio, la comprensione e la partecipazione alla realtà psichica dei figli.
La psico-dialettica si snoda attraverso la triade delle posizioni e dei binomi seguenti: “potere e angoscia di morte”. “sapere e dolore per il non nato di sé”, “fare simbolico e morire della morte”.
Quando Maurizio vive il potere economico, s’imbatte nella possibilità di perderlo e vive l’angoscia depressiva.
Quando Maurizio ha la consapevolezza di sé e dei suoi vissuti legati alle scelte effettuate, avverte il dolore delle possibili e mancate esperienze che poteva vivere, il dolore per tutto quello che voleva nascere in lui e che non ha visto la luce.
Quando Maurizio si accorge dei suoi figli e della loro futura sorte, riconosce che non sono un suo possesso e che hanno una loro autonomia psicofisica. In questo modo si accorge che deve viverli come simboli, i suoi simboli, le sue rappresentazioni emotive e sentimentali che si sublimano nell’amore paterno e nel morire della morte.
Adesso, come Ivan Il’ic di Tolstoj, Maurizio può morire. Adesso Maurizio può inneggiare alla vita perché la morte è morta.