
TRAMA DEL SOGNO E DECODIFICAZIONE
“E’ il mio primo sogno-terrore del 2019 e devo cercare di capire.”
Sarà così?
Di certo il “sogno-terrore” è un breve romanzo composito di scuola ermetica, un sogno che non ha niente di terribile e di terrificante, ma tanto di “numinoso” e di “noumenico”, di portentoso e di pensabile, di sacro e di profano, di erotico e di sessuale. E’ fuor di dubbio che il sognare assolve la fertilità della Fantasia di Sabina, la predilezione e l’autocompiacimento alla scrittura e a scrivere immancabilmente di sé.
Come potrebbe essere il contrario se al centro della nostra attenzione si impongono i nostri “fantasmi”?
Chi scrive dell’altro ha sempre un “sé” ben preciso che tiene dentro i polpastrelli mentre danzano sulla tastiera. E così, tra un sogno e un terrore, la stupefacente Sabina entra in pompa magna nell’anno nuovo con il preciso intento di capire quella “se stessa” truffaldina che di notte viaggia al massimo, incurante del risparmio energetico, nei suoi mari prediletti mostrando di prediligere all’Ulisse di Omero l’Ulisse di Joice. E navigando a vele spiegate Sabina vive la sua Odissea, un poema che si può leggere intero e si può capire a pezzi.
Va bene così.
Ah, dimenticavo!
Di certo, Sabina non poteva iniziare l’anno meglio di così. Chi arriverà alla fine, capirà.
“Guardo un film in bianco e nero, molto vecchio: attrici e attori americani, macchine lussuose. Inseguimento in strada tra due macchine piene di gente ricca; si inserisce una moto. Curva a sinistra, incidente. A questo punto sono nel sogno, che diventa a colori, e percorro un tratto di strada con un signore anziano ed elegante che fa parte della scena dell’incidente. Passa una carrozza con a bordo la regina Elisabetta II e lui saluta con un gesto militare.”
Sabina si guarda dentro nel tempo andato, regredisce al tempo della giovinezza e pensa al suo bisogno di nobiltà e di diversità, nonché alla sua vitalità sessuale e al suo spiccato erotismo, alle vesti indossate con un forte desiderio di apparire tra la gente mentre si accompagna a un padre a colori che ha l’eleganza di un re. Il fascino del padre ideale si sposa con l’omaggio devoto alla figlia e dovuto alla sua femminilità, il tutto sempre nei desideri allucinati di Sabina.
Sabina rievoca la figura ideale del padre e il suo desiderio di essere la sua principessa tra seduzione ed erotismo. Le scene oniriche si rincorrono e si mescolano con la stessa valenza intrigante: la ricerca di essere e di apparire, di esserci e di mostrarsi, di compromettersi e di godere, di esibire e di esibirsi. La sintesi è semplicemente affrescata da una professionista dell’amor proprio e del culto delle parole: Sabina. La simbologia sessuale è tanta e notevole come il passaggio dal bianco e nero ai colori. Ci si aspetta di meglio e si percepisce che il prosieguo del sogno non tradirà l’attesa e sarà anche di buon auspicio.
“Ci voltiamo per tornare indietro e la strada è diventata collinare, con salite e discese. Non è asfaltata. Davanti a noi vediamo del fumo che si alza dietro ad un dosso e ci avviciniamo per vedere: c’è un uomo a cavallo che emette fumo (non so se il cavallo o l’uomo). Scappa. Io scendo il pendio che mi separa da lui per raggiungerlo. Sono a piedi e mi muovo come se sciassi, freno mettendo i piedi di lato, quasi mettendomi in mostra per la mia maestria davanti all’uomo elegante, che è accanto a me.”
Nei suoi trascorsi Sabina trova la naturale altalena dell’umore e del desiderio, l’attrazione del maschio e il fascino della seduzione. Allontana la figura paterna per mettere in mostra le sue belle e preziose merci e si lascia andare al moto dei sensi dietro la rassicurazione della presenza di un uomo elegante come il padre. Sabina si sta costruendo “in nome del Padre”, partendo dal parallelo “padre e uomo” e ricercando il giusto mezzo. Il contrasto in riguardo alla vita affettiva e sessuale ha trovato un picco e una commistione e cerca una mediazione tra l’originalità e la contaminazione. Continua la sequenza erotica nel lasciarsi andare “sciando” e frenando con la “maestria” di una donna che gioca e giocando impara a essere con il maschio come la sua natura comanda. La simbologia della fuga e del rincorrersi, nonché del fumo e dell’eccitazione, viene costruita con parole “significanti” che sono un “tutto dire” per la gioia delle buone anime di Umberto Eco e di Andrea Zanzotto, un professore e un poeta mai adeguatamente compianti specialmente alla luce dei tempi. Sabina combina i “segni” del testo dentro un contesto che non appare ma si lascia intuire. Lunga vita ai “sensi” e riposino in pace i “significati”.
E se non credete, se giustamente diffidate, provate voi a spiegare gli arcani di questa donna enigmatica in apparenza e ricca nella sostanza.
“Improvvisamente, sono in un garage pieno di sabbia in terra; io so che è un garage, ma potrebbe essere un deserto di notte, con la sabbia non illuminata dal sole. C’è un tunnel sulla destra che porta ad una tomba egizia piena di tesori e capisco che i diversi gruppi di persone coinvolte nell’incidente vogliono avere l’esclusiva del tesoro ed eliminare gli altri.”
La competizione è tratto distintivo di una Sabina che, tornando indietro nei suoi ricordi e nei suoi vissuti, ritrova la sua “tomba egizia piena di tesori”, l’identità psicofisica e il narcisismo necessario per tante rivali. Si celebra il trionfo dell’individualismo nelle dimensioni profonde di Sabina e l’aridità del deserto affettivo si sposa con la coscienza obnubilata. Ogni donna cerca la sua identità di corpo e di mente, ma non tutte arrivano a scoprire i tesori dell’individualità emergente dal profondo psico-storico. Sabina opera in sogno lo scavo archeologico che non esige di essere capito, ma soltanto di essere eseguito nonostante l’ostacolo di reperire ciò che non è stato vissuto e tanto meno convissuto. Il deserto di notte è il luogo giusto per sorbire il tè tra la sabbia esotica dell’antico Egitto e il mistero del tunnel che porta sulla destra a una tomba piena di tesori. L’intraprendenza e l’ottimismo non mancano alla giovane Sabina che cerca nel suo futuro di godere dei suoi tesori nascosti: la sua fantasia erotica e la sua carica vitale. Ricordo che “il tè nel deserto” è un prezioso film di Bernardo Bertolucci che vale sempre la pena di avere in casa e di vedere quando si è in crisi semplicemente perché si è smarrita la Fantasia tra le pieghe di qualche lenzuolo in qualche albergo della periferia di Cefalù. Ribadisco che il quadro dipinto da Sabina con le parole sa di tinte dense e di profumi esotici, quelli della giovane età quando gli ormoni danzano e le idee seguono magicamente il ritmo. Non a caso ho introdotto la Pittura. Chi proseguirà, vedrà.
“Sono fisicamente diventata una donna anziana, l’iconografia dell’esploratrice-investigatrice dei romanzi di Agatha Christie. Mi dico che devo nascondermi per bene e approfittare di un momento di distrazione degli altri per entrare nel tunnel che porta al prezioso sepolcro. Improvvisamente sono dentro, ma mi trovo in un grande palazzo pieno di piani e scale, semi-buio e vuoto, sembra un ospedale abbandonato; è pulito e domina un colore arancio-ocra.”
La “regressione” temporale cessa e Sabina ritorna la donna di oggi, quella che mette insieme l’esperienza vissuta e la saggezza, la storia e la filosofia secondo il sommario scritto sulla sua pelle di donna che vanta l’antecedenza rispetto agli altri: una “donna anziana” che “sa di sé”, della sua luce e del suo buio, del suo pieno e del suo vuoto, dei suoi momenti “up” e dei suoi momenti “down”, del suo essere “in” e del suo essere “out”. Per questo motivo Sabina deve difendersi coprendo le sue nudità innocenti e le sue vulnerabilità latenti. Tutto il mondo fuori di lei non deve sapere che è una donna complessa nella sensibilità e ricca di sfaccettature che variano dall’umore allegro e disinibito alla pensosità solenne. Sabina è una donna che sa sublimare e che non disdegna la più concreta incarnazione del suo essere femminile. Ma i dolori non mancano nel ballo apparente di rose e fiori. Il colore “arancio-ocra” è pulito e dominante con le sue esigenze di buona vitalità e di sana gelosia del tempo andato con tutte le sue concessioni e le sue promesse. La solitudine è un piatto che va gustato caldo e non in compagnia di un freddo “fantasma di morte”, altrimenti non funziona e non vale.
“Io sono tornata me stessa, forse più giovane di come sono nella realtà, non so, non ho contezza del mio aspetto fisico in quel momento del sogno. Corro, corro tantissimo su è giù per le scale, sto scappando ed ho paura, l’adrenalina a mille. Qualcuno mi sta cercando e io non devo farmi trovare. Passo da un piano all’altro, la luce è molto fioca; faccio più gradini alla volta, sempre di corsa. Sono al settimo piano e mi dico che devo scendere al primo e corro fino ad arrivarci.”
Il presente si profila a Sabina, dopo l’apparente viaggio di andata e ritorno nel Tempo, nella forma di una donna in piena salute che sa del suo corpo in evoluzione, di un corpo che vive alla grande nella ricerca di ferine sensazioni e di forti emozioni, di orgasmi tra slanci e ritrosie, tra desideri e paure, con l’Es a mille e l’Io che tituba in questa altalena della vitalità e in questo trionfo della “libido”. Signori, l’orgasmo è servito e ci si può accomodare nella riflessione e nella paura dell’eccesso, nella titubanza di essersi lasciata troppo andare e nel recupero di una forma di consapevolezza possibile in tanto trambusto dei sensi. Tra la “sublimazione” dell’istinto e delle forze corrispondenti e la caduta nella materialità più istintiva Sabina vive bene il corpo e la mente, prediligendo la concretezza della realtà vissuta e di tutta quella che c’è da vivere, correndo su e giù tra una “sublimazione della libido” e un abbandono alla materia più sacra, navigando tra le seduzioni delle sirena e la poca ragione della marinaia. Sabina ha dipinto un quadro di scuola “fauvistica”. Più che mai adesso bisogna andare avanti per curiosità e per capire.
“Sono al primo piano, sento passi; cerco di muovermi senza farmi sentire, i passi si avvicinano. Corro in una stanza aperta sul corridoio e mi metto in un cantone dietro quella che doveva essere una porta, ma che non c’è più. Resto immobile, trattengo il respiro. Una persona avanza nella mia direzione, confido che non mi trovi. Invece entra e mi si para davanti. E’ mio fratello, è vestito da infermiere. Gli chiedo come ha fatto a capire che ero proprio in quel punto, nonostante il palazzo sia enorme e pieno di scale e stanze, e lui mi dice: “Ho sentito il tuo profumo”. Allora gli rispondo: “Che sciocca, sono così abituata a portarlo che non mi rendo mai conto di averlo”.
Sabina è tornata al presente psichico e tenta di occultare e di occultarsi di fronte al nuovo che avanza nelle relazioni. Si difende come una bambina timorosa dagli assalti e dalle minacce che vengono da dentro e da fuori. Le soluzioni sono più facili a essere pensate che a essere realizzate perché non sempre la donna di oggi è così spavalda e aggressiva come può sembrare a coloro che la insidiano nel cammino della vita. Si profila un uomo in questo gioco erotico che rievoca le tentazioni dell’infanzia e dell’adolescenza, il tempo in cui si desidera e si teme di essere scoperti mentre la carica vitale si distribuisce lungo i nervi e scende per la schiena secondo il freudiano “principio del piacere”. Sabina è braccata di fronte alla sua disposizione femminile di muovere e di commuovere, di sentire e di percepire, di vivere e di viversi. Dentro di lei scopre la presenza maieutica e l’immagine di una persona vicina e conosciuta, un alleato insperato che l’aiuta a conoscersi meglio e a viversi in maniera dignitosa. Sabina si è fatta scoprire nelle dimensioni semplici di madre Natura, nonostante le grandi complicazioni difensive che ha costruito dentro di sé per non esporsi agli altri con le sue debolezze e le sue fragilità. Il suo piccolo Dio le dice che ha sentito il suo odore di donna mentre si aggirava nel mercato dell’esistenza tra la gente con tutto quel patrimonio che si porta addosso. Sabina è costretta a ricredersi e a rivedere le sue portentose e mirabili sorti progressive. I talenti hanno prosperato i frutti desiderati e la “coscienza di sé” è ormai buona. La sorniona e la maliarda si è fatta scoprire dall’uomo che cercava, un animale misto di istinto e di talento. Le storie obsolete d’amore e di senso non fanno per lei. Sabina, la donna profumata che non sente il suo profumo, aspira e merita ben altro.
“Mi porta via, poi non è più mio fratello, è un infermiere sconosciuto; con me viene scortato un altro prigioniero. L’infermiere gli chiede: “dov’è finito il mio cioccolatino?” e lui risponde: “frugami pure, non ce l’ho”. Io dico all’infermiere che non può averlo rubato, perché anche il mio accendino è sparito, quindi deve essere caduto. Infatti, ci chiniamo entrambi e sul pavimento ci sono sia il mio accendino che un grande cioccolatino rettangolare. Lui lo prende e fa il gesto cortese di offrirmelo, ma io, sempre per cortesia, rifiuto.”
Le schermaglie seduttive di donna Sabina non sono finite, anzi stanno iniziando. Tra maschere carnevalesche e interposte persone si ritrova con l’uomo giusto a metà tra l’ostetrico, colui che aiuta a scoprirti, e il posseduto, colui che è preda del fascino femminile: un infermiere e un prigioniero. In queste sponde si esalta e scorre la femminilità di Sabina, tra una dolcezza erotica e una leggera consapevolezza, quella carezza e quella percezione che accende la sensualità e la sessualità. Il maschio è eccitato e pronto a essere ricevuto dalla mezza coscienza femminile che deve controllare soltanto quanto è bello essere desiderata e desiderare. Questo brano del sogno di Sabina tocca picchi di poesia erotica che nulla invidia alla magia dei versi simbolisti di Baudelaire. Il quadro marcato è, infatti, di scuola ermetica e simbolista, da post-Impressionismo, di quando i pittori, francesi e non, della nuda Realtà fotografica, segnata da macchie forti di grasso colore, passarono alla “proiezione” sulla tela delle emozioni e dei simboli classicamente umani. La trama elaborata del sogno di Sabina è da preferire al Realismo volgare di un qualsiasi poeta o pittore francese anche ispirato. Ripeto, quello che descrive Sabina è di qualità ermetica e simbolista, post-impressionista. Anche in questo tratto distintivo la donna conferma la sua complicazione totale rispetto alla parziale confusione maschile. L’allegoria creata da Sabina in sogno è da mondo iperuranio e Platone esulta di fronte a tanta combinazione di parole che descrivono tra le righe una donna seduttrice e un uomo vittima del femminile imbroglio. La seduzione si completa nel gran rifiuto opposto dalla donna alle offerte maschili di una prepotente eccitazione e di una degna reverenza. La cortesia del rifiuto è finalizzata non certo al pudore, ma al gioco del rafforzamento del narcisismo. Sabina non è innamorata, è soltanto tutta presa da sé.
“Non so come, ma mi ritrovo nuovamente a scappare, forse con mio fratello come alleato o forse con qualcun altro. Io scappo e corro a perdifiato (in questo sogno non faccio altro che correre) e alla mia destra si apre una porta e una donna non giovane mi afferra un lembo di una sciarpa di seta lilla che improvvisamente porto al collo e tira: mi sento strangolare, ma riesco a sciogliermi dalla sciarpa e scappo ancora. Altri mi avvinghiano uscendo da stanze lungo il corridoio, ma ho sempre la meglio e fuggo.”
Sabina è in fuga da sé, ha opposto all’altro il gran rifiuto del narcisismo, l’orgoglio della donna che se la tira, la superbia della donna che non si coinvolge per poi pentirsi di questo andar di qua e di là alla scoperta di un’America che si trova in casa, in se stessa, nel suo “habitat” psicofisico. Non le resta che correre e fuggire dalla sua donna attuale e dalla sua donna di ieri lasciando di stucco e di sasso tutti quelli che la desiderano e la seducono. Ma questo non è un “barbatrucco”. Manca sempre a Sabina l’ultimo pezzo del puzzle per completare l’opera. Nel suo futuro prossimo c’è una donna non giovane da accettare e da considerare dopo la scorribanda nell’età giovanile, una persona che tenta e tormenta con le infide promesse della buona e bella presenza del corpo e della mente. Gli istinti e le pulsioni escono allo scoperto a dire e ricordare che quel che non è stato vissuto non ritornerà, come il tempo andato. Lo psicodramma di Sabina tocca punte di sentimento struggente nel presentare il senso del Tempo che ti lascia vincere e che si presenta alla fine con il conto da pagare e come il solerte cameriere del ristorante alla moda in cui non volevi finire. Sabina avverte l’angoscia nel sentirsi strangolare, ma riesce a sciogliersi dal legame sensuale ed erotico, “la sciarpa”, per scappare ancora frastornando e frastornandosi. Lei non si era mai accorta del suo profumo e del suo odore di donna semplicemente perché ci era e ci è abituata a convivere. La nostalgia del “non vissuto” si fa sentire e il dolore si consola con tutto quello che ha vissuto prima di concludere concretamente l’avventura delle relazioni più contorte e avvincenti, quelle che si fanno ancora ricordare e che addolorano. Vediamo dove va parare una Sabina braccata dalle sue pulsioni desideranti.
“Intravedo luce e finalmente appare una donna a darmi una mano: è la stessa donna che ero io prima, quando mi vedevo anziana. Si chiama Fauve. La avverto di non mettersi il profumo, altrimenti si farà prendere. Lei è molto sicura di sé e mi dice di non preoccuparmi, sa badare a sé stessa e ce la farà, non ha alcuna intenzione di uscire da quel posto senza aver trovato quello che cerca. Mi fa andare verso l’uscita con un uomo.”
Come volevasi dimostrare. Ho anticipato tutto il quadro, ma mi è piaciuto tanto avere scoperto anzitempo i veli delle commedie di Sabina, quelle che non sono tralignate in farsa semplicemente perché la nostra eroina sa recuperare se stessa e i suoi rimpianti. La donna ragiona e ha la luce della consapevolezza dalla sua parte, ma si chiama Fauve, un nome bellissimo e da mitologia francese. Sabina ha una precisa identità psicofisica e non è un evanescente ectoplasma in cerca di reincarnazione, tutt’altro, è una donna selvaggia e ferina. Sabina è tornata la donna di sempre con qualche consapevolezza in più: “quant’eran belli i tempi in cui profumavo di donna e seminavo l’odore sulla mia scia. Allora evitavo e fuggivo, adesso rimpiango le occasioni mancate e negate al mio prestigio femminile. La sicurezza di oggi è stata pagata a caro prezzo e il trovare un degno compagno non mi esime dal rimpianto di andare verso l’uscita. L’archetipo del Tempo scuote fortemente il “fantasma del tempo” nella sua “parte buona”, l’evoluzione e il progresso, nella sua “parte cattiva”, l’andare verso la fine. Gli esistenzialisti sono stati serviti nel loro ottuso pessimismo, ma anche Orazio grida il suo “carpe diem” in sollievo a tanto sogno, a tanto viaggio di Sabina nel mare dei ricordi inscritti nel bastimento del suo corpo senziente e vitale.
Ma come non tirare in ballo Beaudelaire?
“Pedro, adelante cum judicio.”
“Non ricordo altro. Mi sono svegliata con un’angoscia tale che non sono riuscita ad addormentarmi per più di un’ora. Era notte fonda ed ero terrorizzata. Allora ho cercato di andare incontro allo spavento, di guardarlo in faccia, e mi sono calata nel peggio dei pensieri possibili per scatenare una reazione, anche se di panico, ma dalla mia mente cosciente nessuna scintilla ha acceso la miccia di emozioni incontrollabili. Avevo solo un senso di angoscia.”
Ci mancherebbe che Sabina, dopo aver scritto in un’ora di sonno la sua Odissea seduttiva ed erotica, dopo aver descritto il viaggio della sua “libido” tra Scilla e Cariddi e tra gli scogli delle Sirene, avesse ancora qualcosa da aggiungere e da rivivere. L’angoscia è eccitazione, perché la trama del sogno di Sabina è la descrizione dell’itinerario sensuale sulla mappa nautica del Corpo ed è la rievocazione dei marinai che hanno tentato di avventurarsi in quel mare e che ci hanno lasciato le penne per essere nostalgicamente ricordati come gli eroi che hanno compiaciuto donna Sabina. Questo stato di eccitazione era il massimo e niente poteva scalfirlo o superarlo. Sabina ha dato il meglio di sé e della storia avventurosa della sua crescita umana, quella contraddistinta oggi dal ricordo di un orgasmo che tarda a venire. La coscienza della mentenon accende nessuna scintillae la miccia delle emozioni incontrollabili è pronta a non tralignare nell’angoscia del tempo perduto e del tempo vissuto. Ecco in conclusione l’allegoria dell’orgasmo secondo il vangelo di Sabina: “scatenare una reazione, anche se di panico, ma dalla mia mente cosciente nessuna scintilla ha acceso la miccia di emozioni incontrollabili.”
“Nota: mentre correvo non sentivo alcuna fatica fisica.”
Come quando eri ragazzina e correndo sentivi il piacere del tuo essere femminile. Il non sentire fatica equivale al piacere di una emozione che cresce e accende la miccia. Classica è la simbologia erotica e sessuale del “correre” e dell’anestesia della fatica.
“Grazie, caro Maestro
Sabina”
Appena ricevuto il malloppo, mi sono smarrito nei meandri psichici delle parole e dei concetti. Ne sono venuto fuori in maniera originale e trovando un’altra strada rispetto a quella convenzionale.
Ti sono in debito, cara Sabina, di un gallo da sacrificare a Esculapio, il dio della Medicina che i Greci onoravano per le guarigioni ricevute: gli “ex voto” di pagana memoria. Sono guarito dall’indolenza e dall’accidia di fronte a tanta roba, nonché dalla scarsa stima in riguardo alla creatività.
Grazie a te e… che un buon demone mi assista sempre !
PSICODINAMICA
Il lungo sogno di Sabina rievoca in maniera altamente personale l’insieme del tempo vissuto tra eccitanti viaggi di andata e dolorose nostalgie di ritorni. Può essere definito l’Elogio del Tempo e della Libido, la dimensione bio- astronomica e l’energia vitale che scorrono sempre tra le parole, i sensi e i significati della originale trama tessuta da Sabina. Tra flussi di coscienza che richiamano l’Ulisse di Joice e ricerche nostalgiche alla Omero di una ricomposizione del “Tutto” turbato, il linguaggio di Sabina denota una spiccata capacità di cogliere i valori del “significante”, quello che la parola significa per lei, il suo simbolo, quello personale elaborato nel corso del vivere quotidiano e tenuto dentro nel divenire delle stagioni. Se l’Ulisse contemporaneo nella visione di Joice si smarrisce nei meandri delle parole e dei flussi di coscienza alla ricerca di un senso da dare alla vita, Sabina si rivolge al suo passato per trarre gli auspici del presente senza alcuna vena disfattista e con quella leggera e sottile nostalgia che aiuta a ricordare e a rafforzare il presente quotidiano e a ridurre il dolore delle truffe del Tempo. Ma quello che impressiona in questo sogno abilmente composto da Sabina è il nome della donna nel finale: Fauve. Il richiamo al movimento pittorico del “Fauvismo” nella Francia del 1905, iniziato casualmente da Matisse e oscillante tra Impressionismo ed Espressionismo, non è casuale. Sabina esegue nel suo sogno anche un ritorno alla Natura con il colore puro e non mischiato, possibilmente spruzzato a tocchi sulla tela onirica per intendere l’istinto, il selvaggio, il ferino, il bestiale, l’Es freudiano, i tuffi nell’Inconscio al di là dei sentimenti, della Filosofia e della Cultura. Sabina lascia spazio al ritorno alla purezza dei suoi colori, ma non trascura la “proiezione” dei simboli e la ricerca della consapevolezza.
Mi si chiederà cosa c’entra il sogno di Sabina con la corrente pittorica, oltretutto transitoria, del Fauvismo?
Io rispondo che c’entra, perché Sabina nel suo sogno richiama con il nome femminile Fauve le pennellate della sua “libido” a tinte massicce e alle prese con la seduzione e l’avventura dei sensi senza limiti e in espansione. E quando torna in sé, decora la sua tela con il ricordo delle “scintille che non accendono la miccia di emozioni incontrollabili”. E’ un senso doloroso legato all’aver tanto vissuto e il cui ricordo oggi piacevolmente resta di fronte all’incalzare inesorabile del Tempo.
Ecco la traduzione poetica di due brani del sogno di Sabina. La manipolazione è mia.
ALLEGORIA DEL COITO
“Quell’uomo mi porta via,
ma non è mio fratello,
è un infermiere sconosciuto,
è un altro prigioniero.
“Dov’è finito il mio cioccolatino?”
“Frugami pure, io non ce l’ho”.
Anche il mio accendino è sparito.
Chiniamoci sul pavimento
alla ricerca del mio fuoco e del tuo cioccolatino.
Sii gentile e generoso!
Offrimelo,
anche se io per cortesia potrei rifiutare.
ALLEGORIA DELL’ORGASMO
“Non so come,
ma mi ritrovo a scappare
con un uomo alleato
o forse con un altro nemico.
Io scappo e corro a perdifiato.
Corro,
corro a più non posso
come sa fare una donna
e nessuno mi acchiapperà.
Alla mia destra si apre una porta
e qualcuno mi afferra il lembo
di una sciarpa di seta lilla
che improvvisamente scende dal collo
e tutta mi avvince.
E tira,
tira a più non posso.
Mi sento strangolare.
Non riesco a sciogliermi dalla sciarpa
perché non voglio sciogliermi
e scappo ancora.
Altri mi avvinghiano
uscendo da buie stanze lungo il corridoio.
Sono i prigionieri,
ma io non so far altro che fuggire.
Non è finita.
Come avvinto dalla cultura francese, il sogno di Sabina si può tranquillamente associare allo scrivere versi di Baudelaire, ai “Fiori del male”, per restare in sintonia con l’erotismo e la “libido” in libera associazione con il Tempo, la costante e la variabile di Sabina.
L’OROLOGIO
di Charles Beaudelaire
Orologio, sinistro iddio, impassibile, spaventoso,
il cui dito ci minaccia e ci dice: “Ricordati!
I vibranti dolori, come al centro di un bersaglio,
presto si pianteranno nel tuo cuore riempito di sgomento;
il vaporoso piacere sfuggirà nell’orizzonte
come silfide in fondo al palcoscenico;
ti divora ogni istante un po’ di quella delizia
che ad ogni uomo fu accordata per il suo tempo.
Mormora tremila seicento volte, ad ogni ora, il Secondo:
Ricordati! – L’Adesso, con la voce
d’insetto, dice rapido: Io sono l’Allora,
ed ho succhiato con l’immondo pungiglione la tua vita.
Remenber! Souviens toi, prodigo! Esto memor!
(La mia gola metallica ogni lingua parla).
I minuti sono sabbie, o allegro mortale,
che non possono lasciarsi senza estrarne un po’ d’oro!
Souviens toi che il Tempo è un giocatore avido
che vince senza barare, ad ogni colpo. E’ legge.
Scema il giorno e già la notte cresce; ricorda!
Il baratro ha una sete perenne; la clessidra ormai si svuota.
Suonerà quanto prima l’ora in cui il divin Caso,
l’augusta Virtù,la tua sposa ancor vergine,
lo stesso Pentimento (ahimè, l’ultimo rifugio!),
ed ogni cosa, ti diranno: Muori, vecchio vigliacco, è troppo tardi ormai!”
Ma ancora non basta.
In questo esaltante prodotto culturale di Sabina, a metà tra la prosa e la poesia, elaborato nel mezzo e passa del cammin di nostra vita, si associa e va di pari passo lungo la via Sacra il buon Quinto Orazio Flacco con il suo immarcescibile “Carpe diem”, con la sua saggezza stoica ed epicurea, con la ricercatezza dei suoi versi. Il tema è sempre il Tempo.
ODE I, 11
Tu ne quesieris…
Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi
finem di dederint, Leuconoe, nec Babilonios
temptaris numeros. Ut melius, quidquid erit, pati!
Seu plures hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,
quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare
Tyrrhenum, sapias, vina liques et spatio brevi
spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida
aetas: carpe diem, quam minimum credula postero.
VERSIONE LETTERALE
Tu non cercare…
Tu non cercare, il sapere non è lecito, quale a me, quale a te
fine gli dei hanno dato, o Leuconoe, non provare
i calcoli babilonesi. Al meglio, qualunque cosa accadrà, sopporta!
Sia che Giove ha dato parecchi inverni o come ultimo
questo che ora affatica il mar Tirreno tra le opposte scogliere,
sii saggia, mesci i vini e in uno spazio breve
taglia una lunga speranza. Mentre parliamo, sarà fuggito il tempo
invidioso: cogli il momento, quanto minimamente fidente nel futuro.
VERSIONE LETTERARIA
Carpe diem
O Leuconoe, non chiedere anche tu agli dei
quale destino hanno riservato alla nostra vita
perché è impossibile saperlo
e sarebbe come ricercare un senso logico
nei calcoli astrali dei Caldei.
Credimi, è meglio rassegnarsi,
sia se Giove ci concede ancora molti inverni
e sia se l’ultimo è proprio questo
che infrange le onde del mar Tirreno
contro l’argine delle scogliere.
Pensaci bene! Versati un po’ di vino
e soltanto per un breve tempo
concediti l’illusione di una speranza.
Mentre noi parliamo, il tempo impietosamente è diventato passato.
Godi l’attimo e non affidarti assolutamente al domani.
COMMENTO
Celebre e celebrata l’ode del “carpe diem” è stimata il capolavoro della poesia di Orazio; in essa i temi dominanti dell’Etica epicurea sono espressi in maniera lucida e sobria, essenziale e incisiva.
Il testo è dedicato a Leuconoe, la donna “dall’animo candido” o “dai pensieri ingenui”, in ogni caso una fanciulla preoccupata del domani a cui il saggio e maturo Orazio non lesina i suggerimenti più obsoleti e ricorrenti nella letteratura greca: Alceo, Saffo, Anacreonte, Bacchilide, Simonide, Mimnermo, Euripide, Epicuro. Di questi illustri antenati darò in seguito le prove.
Il poeta dissuade Leuconoe dall’interrogare gli astrologi babilonesi sul futuro che l’attende e le suggerisce la soluzione migliore di carpire alla fuga e alla rapina del Tempo la giornata presente, senza sperare in quell’ovvio domani che resta sempre affidato agli dei e depositato nel loro grembo.
Lo scenario più naturale dell’ode appartiene alla stagione invernale: il mare in tempesta e le onde che si infrangono sugli scogli a simboleggiare senza equivoci le ineffabili sofferenze della vita umana e l’ineffabile imprevedibilità di un destino situato tra scienza e magia.
In una formidabile sintesi poetica Orazio include molti temi: la fanciulla ingenua, la volontà degli dei, l’inesorabile scorrere del Tempo, l’ineffabile destino umano, la vita e la morte, la saggezza dell’uomo maturo, la ricerca di un’impossibile coscienza di sé, il tabù della conoscenza, la mitica astrologia, la volgare superstizione, la necessaria rassegnazione, la passiva accettazione del progetto degli dei, la cosciente illusione delle speranze, la benefica panacea del vino, l’angosciante fugacità del Tempo e la provvida soluzione del “carpe diem”.
L’ode muove da una circostanza immaginaria dal momento che non contiene indizi cronologici precisi che consentano una collocazione temporale plausibile; del resto, l’angosciante tema della rapina del Tempo appartiene alla “coscienza collettiva” insieme alle riflessioni logiche opportune e alle forti emozioni implicite, un tema che rientra nello “Immaginario collettivo” con tutto il corredo dei “fantasmi” psichici collegati all’angoscia della morte.
La concezione epicurea sulla felicità, la “atarassia” per l’appunto, ingiunge al comune e saggio mortale di vivere intensamente l’attimo e il Tempo presente per eliminare le angosce del futuro e della fine. In quest’ode Orazio affida a otto intensi e concisi versi un messaggio atavico e obsoleto a testimonianza della sua capacità di elaborare e riproporre in poesia i classici temi filosofici intorno alla situazione esistenziale e ispirati alla morale corrente.
Nell’approfondire la fugacità della vita umana Orazio non esorta a vivere banalmente la quotidianità, ma a essere padroni di se stessi, estimatori delle gioie consentite agli uomini e consapevoli dei propri limiti. Questi temi ricorrono nella sua poesia come se fossero radicati nella dimensione psichica profonda del poeta e fossero stati oggetto nella sua adolescenza di una drastica e difensiva introiezione.
L’autocontrollo del poeta appare manifesto dentro un coerente e adeguato modello espressivo, un testo denso e privo di ridondanza. Il procedere colloquiale, il tono e l’indeterminatezza, l’elegante musicalità del ritmo creano un fascino autentico e fanno del “carpe diem” un gioiello della Lirica di ogni tempo.
A proposito di Tempo sono questi i frammenti delle poesie greche sul tema, a ulteriore conferma che l’originalità umana è un’araba fenice che risorge sempre sulle sue ceneri.
Anacreonte, 44 D, sulla morte
“Le mie tempie son canute,
la mia testa è tutta bianca:
la gentile gioventù
è svanita, ho i denti vecchi:
poco tempo mi rimane
della bella vita ormai.
Così spesso mi lamento,
nel terrore di laggiù.
E’ terribile l’abisso
della morte, il passo è amaro.
Perché questa è verità,
che chi scende non risale.
Anacreonte, frammento 69D
Ho desinato con un pezzettino
Smilzo smilzo di focaccia;
ma di vino
ne ho tracannato un orcio fino in fondo;
e ora con la cetra
faccio la serenata alla mia bella.
Simonide, frammento 6 D
“Uomo qual sei, non dire mai quel che domani sarà
né se vedi uomo felice, quanto durerà.
Di una mosca dalle lunghe ali
non è così veloce il volo.
Frammento 9 D
“Degli uomini scarso è il potere,
sono gli affanni vani;
dolore su dolore è la breve vita.
Su tutti uguale pende l’inevitabile morte:
i vili e i forti ugualmente l’hanno in sorte.
Saffo, frammento 58 D
Morta tu giacerai,
ne più memoria sarà di te,
né rimpianto; ché non cogliesti
le rose della Pieria:
e ombra ignota anche nell’Ade
ti aggirerai,
tra scure ombre di morti
sperduta.
Bacchilide, Epinicio V 151 162
“Per un istante è ancora la dolce vita,
sentii venir meno le forze, oh misero,
dando l’ultimo respiro
piansi lasciando la bella giovinezza.”
Soltanto allora, come narrano,
l’impavido figlio di Anfitrione
bagnò gli occhi di pianto
lamentando la sorte dell’eroe infelice
e rispondendogli disse:
“Meglio per l’uomo non essere nato
E non vedere la luce del sole.”
Alceo, 39 D
Bisogna ubriacarsi ora, bere anche
se non si vuole, perché è morto Morsilo.
Frammento 90 D
Zeus manda pioggia. Un grande inverno
Dal cielo. Sono ghiacciati i corsi d’acqua…
E ammazzalo l’inverno. Butta fuoco,
mesci senza risparmio vino buono,
gira la lana morbida sul capo
Frammento 91 D
Non devi ai mali concedere l’anima.
a nulla giova soffrire e piangere,
o Bucchi. Far portare il vino
ed inebriarsi è il solo rimedio.
Frammento 104 D
sì, il vino è per gli uomini uno specchio.
Frammento 94 D
Gonfiati di vino: già l’astro
che segna la grave stagione,
dal giro celeste ritorna,
e ogni cosa è arsa di sete.
e l’aria fumiga per la calura.
Acuta tra le foglie degli alberi
la dolce cicala di sotto leali,
fitto vibra il suo canto, quando
il sole a picco sgretola la terra.
Solo il cardo è in fiore:
le femmine hanno avido il sesso,
i maschi poco vigore, ora che Sirio
il capo dissecca e le ginocchia.
Frammento 96 D
Beviamo. Le lucerne
perché attendiamo? Il giorno è solo un attimo.
Prendi, amor mio, le grandi,
le bellissime coppe variopinte.
Il vino, oblio dei mali,
diede il figlio di Semele e di Zeus,
ai mortali. Due parti
mescola d’acqua, una di vino; riempi
fin all’orlo il cratere.
Ed una coppa spinga l’altra giù.
Frammento 73 D
Bevi, bevi ed ubriacati,
Melanippo, con me. Credi tu forse,
quando varcato avrai
Acheronte, il gran fiume vorticoso,
credi tu che vedrai
la luce pura splendere del sole
un’altra volta? Amico,
non vagheggiare cose grandi mai.
Ma, pur saggio come era,
due volte, per volere della sorte,
il fiume vorticoso,
l’Acheronte, varcò; dolori immensi
il re figlio di Crono
laggiù gli diede da soffrire, sotto
la nera terra. Ma i pensieri tristi
scacciamo, finché giovani
siamo. Bisogna questa volta ancora
bere, e soffrire il male
che ancora voglia il dio farci soffrire.
Mimnermo, frammento 2 D
Noi siamo come foglie, che la bella stagione
di primavera genera, quando del sole ai raggi
crescono: brevi istanti, come foglie godiamo
di giovinezza il fiore, né dagli dei sappiamo
il bene e il male. Intorno stanno le nere dee:
reca l’una la sorte della triste vecchiaia,
l’altra di morte. Tanto dura di giovinezza
il frutto quanto in terra spande la luce il sole.
Ma, quando questa breve stagione è dileguata,
allora, anzi che vivere, è più dolce morire.
In tanta mirabile compagnia ci sta bene un prodotto culturale, giovane e leggero di musica, che tratta il tema del Tempo passato e tesse le lodi del Tempo andato tra un amore che non può ritornare e il Tempo che lo ha rubato e non te lo può restituire. Qualcuno dirà che ho associato il sacro e il profano in questo sogno di Sabina e che ho fatto i salti mortali per fare quadrare il Tutto.
Ha perfettamente ragione, ma non potevo fare diversamente di fronte a un sogno veramente originale e tanto ricco al punto di sembrare anomalo. La canzone scelta è degli anni sessanta e si titola “Quelli erano giorni” e ho scelto l’interpretazione di Mary Hopkin rispetto alle altre e specialmente rispetto a quella di Dalida anche per alleggerire il quadro.
Grazie & grazie e alla prossima !