La radio con spaventosa casualità e precisione trasmetteva una canzone interpretata superlativamente da Gabriella Ferri con la sua inconfondibile rauca voce e nel suo stile a metà cabarettistico e a metà popolare. La canzone in questione era napoletana, del secondo dopoguerra e s’intitolava “tammuriata nera”. Le firme erano di E.A.Mario per la musica e di Edoardo Nicolardi per i versi.
Era opportuno decodificare immediatamente, era necessario tradurre in simultanea dal colorito dialetto napoletano nella sbiadita lingua nazionale.
Gabriella Ferri continuava impietosamente a ricordare che “chillo, o ninno, è niro niro, niro niro cumm’a cchè”.
Il ritornante motivo di fondo e il martellante ritornello sapevano a metà di presuntuoso sarcasmo e a metà di giusto bisogno di ricercare una strana verità.
Il testo mi sembrava molto poetico, perché accanto a un meraviglioso cantabile, esaltato dalla musicalità intrinseca e dalla musica incorporata, metteva un blocco fonetico e semantico di grande fascino che destava una emozione semplice che coglieva impreparate le resistenze a lasciarsi andare.
Infatti “Tammuriata nera” è la classica canzone antica che ti rilassa e ti dispone allo stato psichico del rispetto del passato. Per questo motivo abbassa le difese e s’incunea tra le pieghe dell’anima per inerire a emozioni altrettanto semplici ed antiche.
Diventava vitale per la mia mente tradurre quel testo misterioso a me stesso, eppure così noto e perfettamente memorizzato.
Pensavo ai topi d’archivio, alle talpe delle biblioteche che cercano, ricercano fuori per poi trovare dentro e, magari, per farci un film.
Io ero archivio e topo, biblioteca e talpa, film e regista a me stesso mentre scorreva come in video l’omogenea pianura veneta, solcata da poca e non chiara acqua, chiamata fiume Piave e per giunta sacra alla patria.
Rilevai tutti gli estremi del sacrilegio più blasfemo.
Spirito magico, flussi ed effluvi, energie simpatiche convogliate sull’oggetto del desiderio e della paura da occulti poteri dati in prestito dalla natura a sedicenti sacerdoti chiamati maghi, o a laide femmine disprezzate streghe. Il tutto in onta al libero pensiero pensante e in atto ed alla “ananche razionale dell’ergo e del quia” ( la necessità logica del dunque e del perché).
Non tutto si può spiegare,
non tutto si può capire.
Non capisco.
Eppur tante volte succede
perché non si vuol prestar fede a ciò che accade,
non si vuol prestar fede a ciò che si vede,
perché viene contestata l’evidenza sensoriale
e non si crede più a ciò che si vede.
La verità impedita e il fatto in questione sono i seguenti, signor giudice.
In un quartiere di Napoli
e nell’anno del Signore 1945
è nato un bambino di pelle nera da una donna bianca.
L’Italia era invasa da truppe inglesi
e da truppe americane degli States,
uomini di tutte le razze,
negra inclusa.
E’ nato un bambino negro,
tanto nero
e la madre,
bianca e ostinata,
osa chiamarlo Ciro.
Sì, cari signori ed eccellenza del signor giudice,
lo ha chiamato Ciro:
proprio così!
Ma raccontala bene,
o donna,
raccontala ancora meglio.
Proprio così!
Raccontala ancora meglio,
raccontala bene.
Proprio così!
Tanto,
se lo chiami Francesco o Antonio,
tanto,
se lo chiami Giuseppe o Ciro,
quel bambino è negro,
come realtà di fatto è negro,
negro di un colore nero unico
che io non ti so dire.
E allora?
Puoi chiamarlo Francesco, Antonio, Giuseppe o Ciro,
ma quel bambino è veramente nero,
credimi,
è veramente nero.
E’ stato consultato il Sofista,
è stato sentito il filosofo,
è stato ascoltato il parolaio.
Tutti hanno invitato alla discussione sul fatto,
tutti sostengono che,
soltanto se ragioniamo sull’evento,
possiamo spiegarlo.
All’uopo e alla bisogna hanno addotto la seguente metafora.
Dove semini il grano,
cresce grano.
Sia che la semina riesca
e sia che la semina non riesca,
viene fuori sempre grano
in onore alla teoria della fissità della specie
e in culo all’evoluzionismo.
“Non procedit natura per saltus”.
Ma tu,
dai,
raccontalo a tutti,
raccontalo pure a me.
Tanto,
cosa vuoi,
se lo chiami Francesco o Antonio,
tanto,
cosa vuoi,
se lo chiami Giuseppe o Ciro,
purtroppo il bambino,
te lo ripeto ancora,
come sua realtà di fatto è negro,
ma negro di un colore nero unico
che io non ti so dire e non ti so descrivere.
Le comari,
donne di popolo,
raccontano,
spiegano
e giustificano questa questione
dicendo che questi casi non sono rari
e, quindi, niente meraviglia e niente maldicenze.
Di questi casi se ne contano mille e altri mille,
per cui la verità è questa,
è la seguente:
é bastato uno sguardo,
intenso quanto vogliamo,
su una donna facile alla suggestione,
perché questa donna,
a causa dello choc,
sia rimasta fortemente impressionata
con un risvolto psicosomatico del tipo gravidanza.
O meglio,
qualora questa donna fosse già in gravidanza,
la forte reazione emotiva
alla vista delle fattezze della razza negra
ha portato l’assimilazione nel feto di quei tratti somatici
per botta,
per colpo,
per stangata.
Questo dicono le donne.
E, se lo dicono le donne,
è così
e più non dimandare.
Ma dai!
Semplicemente uno sguardo,
per quanto intenso?
Dai,
ma dai!
Una suggestione carica di emotività,
un imprinting?
Dai!
Piuttosto,
vai a cercare quel negro
a cui tutto il contesto è andato bene,
perché purtroppo il bambino è e resta negro,
negro,
ma di un colore nero unico
che non ti so dire,
che non ti so descrivere.
La cultura popolare intramontabile s’insinua nelle pieghe della memoria come lo sperma del pene amputato di Urano sulla superficie delle onde del mare Ionio, ma questa volta non nasce l’erotica Afrodite ma un lungo respiro più vicino alla delusione che alla rassegnazione.
Respiravo meglio adesso che il diaframma aveva partorito la sua tensione, ma vivide nella scena della mia mente saltavano e danzavano con espressione dionisiaca le figure del parolaio, delle comari, della madre.
Di poi, maestosa appariva la figura della donna protagonista del caso, maestosa nella sua gravidanza intrisa di colori razziali da fare invidia al pubblicitario della industria delle lane e dei flati alla moda, maestosa nella sua gravidanza come la Sfinge nel suo enigma, maestosa nella sua gravidanza come una modella popolana di Michelangelo, maestosa nella sua gravidanza frutto di un amplesso consumato con gioia e rabbia dopo un bombardamento in un quartiere popolare di Napoli, maestosa nel suo lasciarsi fecondare in antropologica e genetica complicazione, maestosa nel suo finto orgasmo a pagamento.
Quale migliore fotogramma pubblicitario del complesso edipico di quello che raffigura una donna bianca con un bambino negro, a testimonianza che, nonostante le discriminazioni razziali del momento storico, quello che si disse in congresso a Vienna nel 1815 valeva in universale e per tutti gli uomini.
Pensavo a Gabriella Ferri sempre vuota nel suo pieno di artista e che finalmente aveva riempito il suo vuoto di donna lanciandosi dalla finestra della sua casa.
Salvatore Vallone
in Pieve di Soligo (TV), nel mese di Giugno dell’anno 2010