TRAMA DEL SOGNO – CONTENUTO MANIFESTO
“Procedevo in macchina a una velocità moderata.
Nel percorso vedevo un paio di passaggi a livello aperti.
Poco prima del primo ho bruscamente frenato perché sulle strisce pedonali un gruppetto di donne e di bambini erano a lato della strada e attendevano di attraversare.
Mi sono fermata proprio a filo.”
Questo sogno porta la firma Marina.
DECODIFICAZIONE E CONTENUTO LATENTE
CONSIDERAZIONI
Ho titolato il sogno di Marina “i figli so’ figli”, secondo il dialetto napoletano e secondo il vangelo drammatico di Eduardo De Filippo in “Filumena Marturano”, perché ritengo che non si è mai scritto abbastanza e degnamente sull’amore materno. La maternità viene spesso offerta come l’evoluzione psicobiologica naturale dell’universo femminile, un investimento di “libido” che non merita di essere approfondito, tanto meno esaltato, proprio per il suo naturale decorrere a favore del “Genio della Specie”, scientificamente la “filogenesi” o la pulsione sessuale alla procreazione. L’amore materno si ritiene, di conseguenza, la “sublimazione” dell’istinto procreativo e della “libido genitale”, una pulsione dell’Es che da un lato appaga la donna nella sua realizzazione personale e dall’altro ubbidisce al “Genio della “Specie” senza alcun concorso personale di vissuto e di finalità da parte delle protagoniste, le donne che diventano mamme. La procreazione è stimata in prima istanza nel suo versante biologico, di poi, è visitata nei suoi aspetti culturali, filosofici, religiosi ed estetici. Schopenhauer riteneva l’amore e l’innamoramento il trionfo traslato del Genio della Specie” privilegiando la valenza meccanicistica e legava la maternità alla metafisica “Volontà di vivere”, la “filogenesi” collegata alla pulsione sessuale come ultimo inganno della maligna Madre Natura. La Psicologia e la Psicoanalisi hanno dedicato alla maternità studi di grande interesse e profondità, ma, a mio giudizio, i migliori inni alla psicodinamica della Madre sono da attribuire alla letteratura e all’arte.
E allora come non ricordare Eduardo De Filippo e la sua “Filumena Marturano”?
Un uomo ha messo per iscritto in una pregiata, quanto drammatica, commedia l’amore di una madre per i suoi figli al di là della paternità.
Perché un uomo?
Forse perché non ha mai partorito e, di conseguenza, non ha potuto appagare un istinto che, purtuttavia, possiede e può realizzare soltanto per via traslata, l’arte e la sua carica di bellezza.
Ed ecco la preziosa commedia partorita dal grande Eduardo!
Anche il sogno di Marina è un piccolo sintetico capolavoro legato all’esaltazione semplice e non sofisticata dell’amore materno.
Il sogno, oltre che evidenziare la realtà psichica in atto, ha anche questa funzione poetica e creativa per tutti e al di là della formazione scolastica, dal momento che ci fa vivere e dire nel suo linguaggio e nei suoi termini quello che viviamo e il come lo viviamo.
Avanti Marina!
SIMBOLI – ARCHETIPI – FANTASMI – INTERAZIONE ANALITICA
“Procedevo in macchina a una velocità moderata.”
La “macchina” è il classico simbolo della sessualità e della vita pulsionale intima: il mondo dell’istanza psichica “Es”. La “velocità moderata” attesta di una ricerca matura dell’orgasmo e del gusto di godere le potenzialità erotiche del corpo in maniera naturale e senza implicazioni culturali e blocchi psichici. Marina si gode il suo corpo e le sue valenze erotiche come una donna matura nell’esercizio e nella ricerca evolutiva del piacere. Il controllo esercitato dall’istanza “Io” non inficia lo scorrere delle pulsioni dell’istanza “Es”: “procedevo”, l’”Io” delibera e dispone di vivere il piacere come il dio Eros comanda. Tecnicamente si tratta dell’appagamento della “libido fallico-narcisistica”.
“Nel percorso vedevo un paio di passaggi a livello aperti.”
Avviata nella sua erotica esperienza, “percorso”, adeguatamente controllata proprio per migliorarne il gusto, Marina s’imbatte nel suo “Super-Io” e nei suoi morali comandamenti, limiti e censure. Del resto, la sessualità e il suo esercizio con i vissuti annessi sono facilmente colpevolizzati in una cultura formalmente sessuofobica e religiosa. A questa inibizione sociale aggiungiamo le varie paranoie al riguardo e sul tema che individualmente intercorrono e che abilmente ogni persona costruisce sotto i dettami dell’istinto e delle pulsioni sessuali: sensi di colpa e paranoie, disagi vari e variopinti. Ed ecco che si profilano nel sogno di Marina i famigerati “passaggi a livello”, i simboli del “Super-Io” di cui si diceva in precedenza, e i vari divieti che Marina, sia pur adulta e navigata, conosce bene e proprio per questa “coscienza di sé” e per questa consapevolezza lascia in sogno “i passaggi a livello aperti”.
L’apertura significa che i divieti e le norme morali sono di facile gestione da parte della protagonista, dal momento che sa dove andare e dove fermarsi. Marina conosce se stessa a livello sessuale e sa quello che vuole e quello che non vuole, quello che è lecito e quello che è da ritenere tabù e tabuico.
“Poco prima del primo ho bruscamente frenato perché alle strisce pedonali un gruppetto di donne e di bambini erano a lato della strada e attendevano di attraversare.”
Meravigliosa nella sua semplicità estetica è l’espressione “un gruppetto di donne e di bambini”. Marina vede se stessa e i suoi figli nelle donne e nei bambini “a lato della strada” che “attendevano di attraversare”. Il meccanismo della “proiezione” è usato dal sogno in maniera ineccepibile. Ecco l’amore verso la madre e verso i figli, verso la donna e verso i bambini!
“I figli so’ figli” gridava donna Filumena al povero malcapitato Domenico Soriano e vanno protetti tutti dalla madre al di là della paternità. Del resto, l’amore della madre è molto diverso da quello del padre, come si diceva in precedenza. “Bruscamente” frenare contrasta con la tranquillità di prima e le “strisce pedonali” sono i limiti del “Super-Io” per una maternità responsabile. La “libido genitale” è servita in un piatto d’oro e in evoluzione naturale dalla “libido fallico-narcisistica” senza nulla perdere ma tutto conservando e portando in fausta evoluzione.
“Mi sono fermata proprio a filo.”
Dietro le mille tentazioni della vita e dell’amor proprio che può tralignare nell’egoismo, Marina si è “fermata” senza sacrificarsi e senza snaturarsi, “proprio a filo”, proprio in linea con la legge dell’archetipo “Madre”, quella “libido genitale” che supporta l’istinto procreativo e si sublima nell’amore materno. Questa è la preistoria psichica e culturale della “Madre” che sa cogliere e sa dare, sa prevedere e provvedere per sé e per i suoi figli. Degna di nota e a conferma di quanto affermato è l’assenza di qualsiasi figura maschile o paterna.
PSICODINAMICA
Il sogno di Marina esprime ed esalta degnamente il sentimento dell’amore materno fatto di donazione e di limiti amorevolmente accettati e introiettati. La psicodinamica segna il naturale trapasso dalla “libido fallico-narcisistica” alla “libido genitale”, “posizioni psichiche evolutive” universali.
ISTANZE E POSIZIONI PSICHICHE
Nel sogno di Marina sono presenti le istanze “Io”, “Es” e “Super-Io. L’Io si esprime in “procedevo”, “vedevo”. L’Es si condensa in “macchina” e “velocità moderata”. Il “Super-Io” si manifesta in “passaggi a livello” e “strisce pedonali”. Le posizioni psichiche implicite sono la “fallico-narcisistica” in “procedevo in macchina a una velocità moderata.” e la “genitale” in “mi sono fermata proprio a filo” e in “un gruppetto di donne e di bambini”.
MECCANSIMI E PROCESSI PSICHICI DI DIFESA
I meccanismi psichici di difesa coinvolti sono la “proiezione” in “un gruppetto di donne e bambini”, la “condensazione” in “macchina” e altro, lo “spostamento” in “passaggi a livello” e altro, la “drammatizzazione” in “ho frenato bruscamente”. Il processo psichico di difesa della “sublimazione” è sottinteso in “ho bruscamente frenato” e in “un gruppetto di donne e di bambini”. La “regressione” si lascia indovinare nella possibilità di esercitare la “libido fallico-narcisistica”.
ORGANIZZAZIONE PSICHICA REATTIVA
Il sogno di Marina presenta un forte tratto psichico “genitale” all’interno di una cornice “fallico-narcisistica”, una buona autostima che si coniuga con il senso del dovere e dell’etica.
FIGURE RETORICHE
Le figure retoriche coinvolte nel sogno di Marina sono la “metonimia” in “macchina”, “passaggio a livello” e “strisce pedonali”, la “enfasi” in “bruscamente frenato”.
DIAGNOSI
Il sogno di Marina tratta l’evoluzione della “posizione fallico-narcisistica” nella “posizione genitale” sempre in riferimento all’energia vitale definita “libido”. Marina parte dalla sua dimensione sessuale narcisistica per approdare senza traumi alla sua dimensione di donna e di madre.
PROGNOSI
La prognosi impone a Marina di rafforzare questo equilibrio psicofisico e questa “coscienza di sé” per accrescere la sua sensibilità e il suo autocontrollo senza nulla perdere e tanto meno disperdere delle sue pulsioni e della sua “libido” “fallico-narcisistica” e “genitale”, sia come donna e sia come madre.
RISCHIO PSICOPATOLOGICO
Il rischio psicopatologico si attesta in un conflitto nevrotico legato alla disfunzione tra l’essere donna e l’essere madre, tra la scissione oppositiva tra la “libido fallico-narcisistica” e la “libido genitale”.
GRADO DI PUREZZA ONIRICA
In base a quanto affermato nella decodificazione e in base al contenuto dei “simboli” e dei “fantasmi”, il grado di “purezza onirica” del sogno di Marina è “3” secondo la scala che vuole “1” il massimo dell’ibridismo, “processo secondario>processo primario”, e “5” il massimo della purezza, “processo primario>processo secondario”.
RESTO DIURNO
Il “resto diurno” del “resto notturno”, la causa scatenante del sogno di Marina si attesta in un’esperienza di donna o di madre vissuta nel pomeriggio antecedente il sogno. Del resto, esistono tantissimi stimoli di questo tipo nella giornata delle donne e delle madri.
QUALITA’ ONIRICA
La qualità del sogno di Marina è discorsiva e maieutica: la protagonista procede oniricamente con lucidità e consapevolezza in grazie alla sua sensibilità acquisita nell’esercizio della “coscienza di sé” e del suo quotidiano pensare e fare.
RIFLESSIONI METODOLOGICHE
Niente di meglio di un “Viaggio a Napoli” per onorare la “libido genitale” femminile, le donne, le madri e la dea Madre. Il testo tratta di vita vissuta, tutta natura e tutta cultura, senza niente di astratto e tanto meno di artefatto, la storia traumatica di una donna e di una madre offesa, la psicodinamica del suo corpo e della sua psiche che trova fortunatamente in determinate condizioni la benefica “coscienza di sé”.
Buona lettura a uomini e donne, a madri e padri!
VIAGGIO A NAPOLI
“I figli sò figli!”
Sentivo questa semplice e profonda verità
perché era scritta a fuoco sulla mia carne di donna
come il marchio del ranch sulla pelle delle mucche argentine.
Questa semplice e profonda verità era cresciuta calda
nella prepotente femminilità del mio corpo.
Ma questa semplice e profonda verità non la conoscevo
e non l’avevo mai sentita dalla bocca di una passionale attrice napoletana,
verace come la pummarola di San Marzano,
la pummarola in coppa a pizza.
Che sia stata Titina De Filippo o Regina Bianchi,
Pupella Maggio o Lina Sastri,
poco importa.
Sono tutte brave
perché il loro malandrino recitare si sublima sempre in un doloroso partorire.
Napoli mi ha dato orecchie per sentire e coraggio per sapere,
il tutto condito dalla naturale cadenza di un dialetto
sciorinato tra arabo e spagnolo.
Napoli ha guarito l’insulto conficcato nella mia carne e nella mia persona
con la bonaria filosofia di una schietta verità.
“I figli sò figli!”
E ancora, “I figli sò figli!”
Le parole sono pompate dalla cassa toracica di una brava attrice
dai grossi seni di madre
ed escono dalle sue carnose labbra
rimbalzando sulle vecchie tavole del rozzo palcoscenico.
Queste parole echeggiano nell’aria dell’anonimo teatro di periferia
per sconquassare il mio animo indifferente
e annichilito dalle trame della depressione,
il cosiddetto male oscuro,
che non è, di certo, un bene luminoso.
“Lei é malata, cara signora.
Lei non è normale
e la sua guarigione comincerà dalla consapevolezza di essere malata.”
La diagnosi dei grandi professori della mente sentenziava unanimemente
da Milano a Trieste, da Roma a Bologna,
“stato limite fobico depressivo”.
Di questo non ero sicura,
ma ero sicura che il dramma era stato scritto sotto forma di commedia
da un uomo, un grande uomo: Eduardo De Filippo.
Il titolo?
“Filumena Maturano”!
L’altro titolo?
“Ieri, oggi e domani”!
“Risposta esatta”, ribadirebbe il sempre verde Mike Bongiorno
dal trespolo del solito programma televisivo a quiz,
distribuendo i soldi dei poveri italiani che pagano il canone.
Per i napoletani, da veneta verace, avevo tanti pregiudizi e poche simpatie.
Non capivo il dialetto e m’infastidiva la cadenza marcata.
Sono stata costretta a ricredermi,
a sposare la vena creativa e l’aria sorniona dei meridionali
che ti fanno sentire importante e affascinante nella gioia e nel dolore.
In quest’ultimo mi ero imbattuta e fortunatamente non arenata.
Quant’acqua è passata
e passa sotto i miei ponti sul Piave tra Vidor e Susegana.
Nelle stagioni piovose é tutta torbida e piena di anguille in calore
che inevitabilmente si intrecciano nelle reti dei pescatori di frodo.
La mia vita si ripulisce a Napoli
in mezzo alle strette viuzze ribollenti di colorati panni stesi al sole
da una finestra al balcone dirimpettaio
e in mezzo al clamore di cantilene esasperate dalla paura
di trovarsi in un mondo dilatato in fretta
e da un desiderio ricorrente di scendere
alla fermata successiva di un bus frequentato da portoghesi.
Ma tu perché mi hai portato a Posillipo, se non mi vuoi più bene?
“Che m’hai purtato a ‘ffà ‘ncopp’a Pusillepe, si nun mme vò cchiù bene?”,
canta il vecchio posteggiatore abusivo
con la chitarra scordata in una voce mielata
e sempre solerte ad attrarre gli indifesi turisti
verso i diritti di un sentimento represso
e dimenticato nelle pieghe di un logoro passato.
“Devo andare a Napoli per affari.
I terroni come al solito non pagano i debiti.
Vuoi venire con me?”
E tu, proprio tu, trovi il coraggio d’invitarmi a Napoli con la stessa flemma
con cui mi hai parcheggiata nell’ospedale di Montegrotto terme.
“Ma io ti amo, ti ho sempre amato.
Tu sei la sola donna della mia vita.
Senza di te non riesco a pensarmi e non saprei vivere.”
Le parole sono interessanti e suggestive,
degne di un retore greco e dettate da un enorme senso di colpa
opportunamente rimosso negli scaffali più reconditi del tuo polveroso sgabuzzino.
Il lutto!
Il lutto lega più delle corde di nylon di Giovanni Soldini
attorno all’albero maestro di un catamarano.
Un lutto occulto e inconfessato.
Quale lutto?
Godiamo ottima salute
e la morte non bussa da decenni alla porta di casa nostra.
Un lutto bianco, anzi un lutto rosa,
consumato tra le ruvide lenzuola di un reparto ginecologico
in un anonimo ospedale del laborioso Veneto,
la regione che non trova più l’acume
e il tempo per concepire le gravidanze puttane,
quelle inaspettate e perpetrate tra un’eiaculazione precoce
e un coito malamente interrotto.
“Mi sentivo venire e volevo che la mia donna godesse.”
Un attimo,
soltanto un attimo galeotto ha interferito malignamente
sulla sintonia dei nostri sensi.
Un atto d’amore, credimi!
E’ stato un atto d’amore
a mettere in moto uno spermatozoo nella tua vagina al posto dell’orgasmo.
Ma tutto questo non basta!
E’ sempre un’incompiuta,
ha tutti i crismi dell’incompiuta
e tu non sei Bach o Beethoven.
Improvvido nella funzione e perfetto nella natura
quel fottuto microbo ha fatto il suo dovere
e si è infiltrato fino a risalire alla sorgente della vita.
Ha fatto il suo dovere,
era stato chiamato in causa e si é fatto onore.
Adesso perché mi porti a Napoli,
al Politeama e nella pizzeria del solito Gennaro?
Questa sera non si recita a soggetto
e l’avanspettacolo è un triste retaggio della guerra.
Questa sera si recita il dramma di una donna,
Filumena Marturano,
scritto da un uomo, Eduardo De Filippo.
Perché un uomo deve essere attore e autore del dramma di una donna?
Virginia Woolf ha potuto scrivere la sua follia e Saffo la sua diversità.
Grazia Deledda?
Non la conosco e me ne dispiaccio.
In un panorama letterario così parco di donne
l’ignoranza diventa un baratro per aspiranti suicidi.
Perché l’universo femminile si è sempre appagato della sua maternità
e non ha sentito il bisogno profondo di partorire
in maniera traslata i suoi ineffabili abissi.
“I figli so’ figli !
Queste parole apparentemente uscite dalla bocca di donna Filumena,
la puttana del casino riscattata dall’amore dei suoi figli,
sono volate dalle tavole del palcoscenico del Politeama
e si sono impresse nel mio ventre come un bisturi nella carne.
Il suono proveniva dall’utero e il senso vibrava nella pelle.
Quel semplice significato da scuola elementare io l’ho subito
e capito perché era fissata a fuoco nelle mie viscere
come il solito marchio sulla solita pelle
delle solite povere mucche del solito ranch argentino.
Sembrava tutto sepolto e dimenticato,
un lugubre fatto senza linguaggio,
un doloroso evento affidato a un “no comment”
e talmente grande da essere relegato nell’oblio dell’inferno dei sensi,
un lutto sconosciuto che il corpo aveva registrato nei suoi nervi,
un episodio casuale che, quando meno te l’aspetti, ti parla
con il suo semplice linguaggio,
chiaro soltanto a chi sa capire o vuole intendere.
La legge degli uomini si esprime in parole scritte,
la legge della natura si esprime nel corpo.
Si gode,
si soffre,
si sente,
si mangia,
si dorme,
ma non ci si dimentica mai di se stessi
e non esiste farmaco
che ti fa dimenticare un solo istante la tua identità,
chi sei e cosa hai fatto.
Il mio corpo aveva, di volta in volta e in “escalation”, conosciuto l’Ansiolin,
il Valium,
il Tegretol
e il Serenase
per guarire il male oscuro dell’angoscia
e da un ospedale pubblico a una clinica privata avevo trasportato un corpo,
il mio corpo affetto da un male ignoto anche a me stessa.
E i luminari?
I grandi professori pagavano con i miei soldi
le rate della lussuosa barca ancorata a Caorle o a Portofino,
sempre più sdegnati della mia resistenza a guarire
che offendeva la loro superba scienza e la loro potente chimica.
Non ero neanche un caso da letteratura o da congresso
perché irrisolto
e nessuno aveva il coraggio di portare in giro i suoi fallimenti professionali.
Di umanità non se ne parla.
Anche l’elettrochoc, da film “Qualcuno volò sul nido del cuculo”,
ho subito sulle mie meningi e su tutto il mio corpo.
Sai che mossa!
Come nei peggiori cabaret della bassa Napoli.
Nessuno mi aveva chiesto la cosa giusta che io avevo dimenticato.
Dovevo andare a Napoli in un teatro di periferia
per iniziare a guarire,
per iniziare a conoscermi
e per andare finalmente in culo a quella scienza effimera
che ignora la persona e la sua storia.
Il resto l’ho portato a termine con il mio angelo custode
tra strani affanni e calde lacrime,
finalmente i miei e le mie.
Salvatore Vallone
Pieve di Soligo, mese di maggio dell’anno 1992