Anankè, mio caro Democrito? Dimmi orsù, o brutto cagnaccio materialista di Abdera, di questa eterna naturale Necessità che tende i rigogliosi atomi verso la vita del nostro Tutto e li combina in colossali e variate fusioni come uno chef vanaglorioso e volgare che insulta dagli schermi televisivi la memoria delle nostre gloriose madri con l’inciuciare il superfluo e il banale in un piatto di oscure tendenze e di incerte disposizioni. Dimmi orsù, o rude composto di morbida carne, di quest’anima materiale coesa, di questa materia animata intrippata e sempre in odore di universale santità. Dimmi, orsù e suvvia, di questo umano travagliato peregrinare che ottunde e disgrega il composto degli atomi con il peso degli anni e la malasorte dei borghesi politicanti e lo destina a quella Morte da cambiamento d’insieme come in un nuovo arredamento d’ambiente nel migliore showroom di Nervesa della Battaglia, quello propinquo al cimitero monumentale della vittoriosa guerra 15-18, la Guerra Granda, dove Pasquale Squillaci da Siracusa riposa con le sue ossa rotte e il baricentro sfondato da una crucca granata. Dimmi orsù, caro il mio filosofo materialista del cazzo, dell’angoscia del tempo che verrà in questa breve stagione di vita mortale che tarda a veder l’oblio del risveglio, che s’inarca nel cielo stellato delle tre sorelle, Cloto, Lachesi e Atropo, colei che fila, colei che intreccia, colei che taglia, le ineffabili Moire che abitano quel Cielo dove Orione pose li suoi riguardi e i suoi intrighi erotici luminosi: tre stelle in fila e sempre disposte. Dimmi orsù, o generoso benefattore della tua angoscia, dimmi dell’attesa del Nulla eterno e della malattia mortale di Epicuro e di Soeren, di Martin e di Jean Paul, della follia da fantasma di morte di Friedrich quando abbraccia in piazza Savoia il cavallo frustato dal nerboruto infame cocchiere, dimmi di coloro che hanno fatto senza viltà il gran rifiuto, come Cesare e Cesarina, come Michele e Michelina, come Luigi e Gabriella, come tutti quelli che l’animo schiudono alla buona novella al pensiero che gli atomi sono ciambelle con il buco. Dimmi soltanto se si tratta di nobili unità senza parti, uniche ed eccezionali, diverse per forma, posizione e ordine, come spiegò l’insigne Stagirita prima di essere eletto nell’agorà di Roma nella lista dei fancazzisti e dei crumiri, nella lista degli sposi e dei firmati, nella lista dei chirurgi estetici e degli esteti castrati dalle madri. Dimmi, o gran figlio di una mignotta, se il tuo Tutto inizia da una spruzzata di sangue mestruale e di merda infantile nell’ampio lenzuolo bianco che la Carmela da Calascibbetta ha steso sul suo letto verginale per dimostrare domani al mondo la sua verginità e la sua capacità di concepire bambini felici. Ma tu insisti e persisti nel dire che è tutta una questione di atomi e io non reggo più le prediche dei preti in quest’Italia garibaldina e a misura di talent scout. Io, intanto e per gradire, ascolto Quinto Orazio Flacco, l’epicureo romano de Venosa, il basilisco de Roma che fa il tifo per la società sportiva Lazio, il football club della via Prenestina, là dove i bambini e le bambine giocano con palle di ruvida pezza, con palle di gomma bianca e puzzolente. All’uopo e alla bisogna dice il suddetto: “aequa lege Necessitas sortitur insignis et imos, omne capax movet urna nomen. La Necessità con giusta Legge trae a sorte i grandi uomini e gli umili; l’urna capace agita ogni nome.” La Necessità è l’Anankè e l’Anankè non è il Fato, non è la Parola che è stata detta, profferita, sigillata, l’inequivocabile Verbo incarnato e imposto semplicemente perché è la sola e l’unica Verità. La Necessità è nei corpi che anelano quel divenire che conduce alla Morte: punto e basta! Dimmi allora dell’Uomo, del suo Verbo. Dimmi anche del gatto Coraggiosetti e del suo Verbo miagolato in moduli ironici o in caselle contrassegnate degnamente da Arcaplanet. Quali Parole e quale Anankè in noi miserabili umani che uccidiamo un povero rapinatore, anche due alla bisogna e all’americana, senza colpo ferire e inneggiando alla sacralità della proprietà privata? Quali Parole e quale Anankè nel gatto Pietro sempre in cerca di potta negli anfratti del suo podere di tre tummini e negli scaffali di Amazon & compagnia cantante? Ma tu non parli e sei sordo alla mia gioia, tu non parli e sei muto al mio cantare di uomo che sogna e sognando trascolora in attesa del sogno ultimo e dell’ultimo sogno, il Bardo.
All’orizzonte si addensano nuvole minacciose e una bufera di neve ci travolge. La tramontana sibila tra gli alberi e sopra il mare. Prenditi, o amico mio, tutto quello che la vita ti dà e, se ancora le forze decorosamente ti sostengono, non angosciarti al pensiero della vecchiaia. Versati un po’ di vino dell’anno in cui sono nato e non parlare d’altro. Forse, con il mutare della sorte, un dio volgerà tutto verso il meglio. Adesso non rimane che profumarci di essenze orientali e allontanare dal cuore con la musica l’angoscia del domani. Queste sono le parole di Chirone, il suo congedo per Achille: “Giovane invincibile, nato mortale da una dea, la terra di Assaraco, solcata dalle acque rapide e gelide del Simoenta e del torrente Xanto, ti attende. Ma con trama infallibile le Parche impediranno il tuo ritorno e neppure tua madre, azzurra come il mare, potrà ricondurti in patria. Laggiù ogni dolore dovrai consolare con il vino e con il canto, la fugace tenerezza di un conforto all’angoscia che ogni giorno ci sfigura.”
Ode I, 5
A Pirra
Chi è, o Pirra, quel giovane dal corpo elegante che ti stringe, umido di profumi, sopra il letto di rose della tua grotta? Per chi con grazia delicata intrecci
i tuoi biondi capelli? Quanto dovrà soffrire per la tua infedeltà? Quanto dovrà temere l’avversità degli dei? Per quanto tempo dovrà osservare stupito
le acque agitate da un vento oscuro, se ora, senza alcun sospetto, gode il tuo prezioso splendore e spera che tu sia sempre disponibile e degna di essere amata, ignaro dell’inganno che respira.
Sventurato colui a cui tu risplendi sconosciuta. Io ho attaccato a una parete sacra la tavola votiva per attestare che al potente dio del mare ho consegnato le mie vesti bagnate.
Ode I, 23
A Cloe, la timida cerbiatta…
Cloe, tu mi sfuggi come una timida cerbiatta che per monti impervi cerca impaurita la madre, temendo il fruscio degli alberi o il soffio del vento.
Una timida cerbiatta che trema nelle gambe e nel cuore quando arriva la primavera e ti desta un brivido se le foglie si muovono o se i ramarri scostano i rovi.
Ma io non sono un leone getulo o una tigre selvaggia e non ti inseguo per sbranarti. Lascia la protezione di tua madre: ormai sei una donna pronta per concedersi a un uomo.
Ode I, 11
Carpe diem
O Leuconoe, non chiedere anche tu agli dei quale destino hanno riservato alla nostra vita perché è impossibile saperlo e sarebbe come ricercare un senso logico nei calcoli astrali dei Caldei. Credimi, è meglio rassegnarsi, sia se Giove ci concede ancora molti inverni e sia se l’ultimo è proprio questo che infrange le onde del mar Tirreno contro l’argine delle scogliere. Pensaci bene! Versati un po’ di vino e soltanto per un breve tempo concediti l’illusione di una speranza. Mentre noi parliamo, il tempo impietosamente è diventato passato. Godi l’attimo e non affidarti assolutamente al domani.
Ode I, 9
Inverno
Guarda la neve che imbianca tutto il Soratte e gli alberi che gemono sotto il suo peso, guarda i fiumi rappresi nella morsa del gelo.
Sciogli questo freddo, Taliarco, e metti legna, tanta legna nel focolare; poi senza alcun calcolo versa il vino vecchio dall’anfora sabina.
Lascia il resto agli dei: quando placano sul mare in burrasca la furia dei venti, non trema più nemmeno un cipresso, un frassino cadente.
Smettila di chiederti cosa sarà domani e qualunque giorno la fortuna ti conceda, segnalo tra quelli utili. Se ancora lontana è la vecchiaia fastidiosa
dalla tua verde età, non disprezzare, o giovane, gli amori teneri e le danze. Ora ti chiamano l’arena, le piazze e i sussurri lievi di un convegno alla sera;
il riso soffocato che ti rivela l’angolo segreto dove si nasconde il tuo amore; il pegno strappato da un braccio o da un dito che ancora e resiste appena.
Ode II, 3
La morte è spietata
Ricordati di conservare serena la mente nel dolore e lontana da un’allegria sfrenata nella fortuna: ricordati, Dellio, che verrà la morte.
Che tu viva sempre nella tristezza o che in ogni giorno festivo, sdraiato in un campo solitario, tu goda del vino più vecchio.
E un pino smisurato, un pioppo bianco s’ingegnano a intrecciare l’ombra accogliente dei rami? E l’acqua scorre fuggendo irrequieta in un ruscello tortuoso?
Vedi che ti portino i vini, i profumi, il fiore elegante e troppo effimero della rosa, se la sorte, l’età e il filo oscuro delle tre sorelle lo concedono.
Dovrai lasciare ciò che possiedi: i pascoli, la villa che il Tevere biondo lambisce, la casa, tutto. L’erede si godrà ogni ricchezza che hai accumulato.
Che tu sia nato ricco da famiglia reale o povero da gente oscura e senza un rifugio, non importa. La morte è spietata.
Siamo destinati tutti a un luogo, tutti il destino, che si agita nell’urna, ci attende un giorno sulla barca per l’esilio eterno.
Ode II, 14
Rapidi fuggono gli anni
Ahimè, o Postumo, rapidi fuggono gli anni e non c’è preghiera che ti eviti l’aggressione delle rughe, gli insulti della vecchiaia, il confronto con la morte. Anche se t’illudessi per tutta la vita, o amico mio, di strappare una lacrima a Plutone con infinite e continue offerte, ricordati che fra le sue onde di tenebra incatena esseri incredibili come Gerione e Tizio, quelle onde che chiunque viva su questa terra, dal più povero al più potente, è destinato a navigare. Non serve evitare i rischi della guerra, le scogliere dove s’infrange il rumore del mare; non serve difendersi ogni autunno dai venti che corrodono le ossa. Credimi! Conosceremo il fiume della morte, il suo vagare inerte e opaco, conosceremo le figlie maledette di Danao e Sisifo incatenato per sempre alla sua pena. Lasceremo i campi, la casa, la donna che amiamo e degli alberi che ora coltivi nessuno, se non questo cipresso odioso, seguirà un padrone così effimero. Il tuo erede, meno sciocco, si berrà il Cecubo che difendi con cento chiavi e di quel vino generoso, più che nelle cene dei pontefici, bagnerà la terra.
Ode III, 1
Odio il volgo profano
Odio il volgo profano e lo respingo. Tacete! Io, sacerdote delle Muse, canto alle vergini e ai giovinetti carmi mai prima uditi. E’ proprio dei re terribili il potere sui loro popoli, ma è proprio di Giove il potere sugli stessi re, Giove famoso per la vittoria sui Giganti, che muove tutte le cose con le sopracciglia. E’ come un uomo che dispone le sue viti nei solchi per un tratto più vasto rispetto a un altro uomo, è come che uno scenda in campo come candidato più nobile e migliore per i costumi a contendere questa sua forza con la moltitudine dei clienti. La Necessità con giusta Legge trae a sorte i grandi uomini e gli umili; l’urna capace agita ogni nome. A colui al quale pende sull’empio capo la spada sguainata non daranno dolce sapore le vivande siciliane, né il canto degli uccelli e della cetra riporteranno il sonno: il sonno placido degli uomini agresti non disdegna le umili case e l’ombrosa riva, né la valle di Tempe agitata dagli zefiri. Chi desidera solo quanto gli basta non è reso ansioso né dal mare tempestoso, né dalla furia selvaggia di Arturo quando tramonta o dei Capretti quando sorgono, né dal podere bugiardo della vigna colpita dalla grandine, mentre gli alberi danno la colpa alla pioggia o agli astri o agli inverni rigidi che bruciano i frutti. I pesci sentono restringersi le distese marine per i macigni gettati in mare: ora l’imprenditore fa calare pietrame dagli schiavi come se fosse il signore superbo della terra. Ma il Timore, le Minacce seguono nello stesso modo il signore, né si allontana il nero Affanno dalla trireme ornata di bronzo, ma siede in groppa dietro di lui. A chi è dolente, né il marmo frigio, né l’uso di porpore più splendenti delle stelle solleva la sua angoscia, né la vite Falerna o l’unguento orientale degli Achemenidi. Perché dovrei costruirmi un alto palazzo dagli stipiti degni di invidia o secondo la nuova moda? Perché dovrei cambiare la valle sabina, la casa, con le ricchezze che sono causa di maggiori fatiche?
Ode IV, 7
Pulvis et umbra sumus
Le nevi si sciolgono, i campi ritornano verdi, le chiome degli alberi rifioriscono; muta volto la terra, i fiumi rientrano negli argini. La Grazia con le Ninfe e le sorelle gemine ardisce nuda condurre a danza il coro. Non sperare in eterno, ti dice, l’anno e l’ora che il giorno rapisce. Il vento di Zefiro è mite; l’estate, che dovrà pure morire, calpesta la primavera; e appena l’autunno ha versato i suoi frutti, ricorre la bruma, inerte. Ma le fasi lunari veloci riparano i danni del cielo: e noi, una volta scesi giù dove stanno il padre Enea ed Anco e Tullo ricco, polvere siamo e ombra. E’ ignoto se gli dei aggiungano il domani ai tuoi giorni. Tutto quello che avrai negato al tuo animo cadrà nelle mani avide dell’erede. Scomparso che tu sia ed abbia udito il decreto solenne di Minosse, non potrà la facondia, o Torquato, non la tua origine, né la tua religione ridonarti alla vita. Diana non può liberare dall’ombra il casto Ippolito, e Teseo tenta invano di spezzare all’amico Piritoo le catene di Lete.
Ode III, 30
Io non morirò del tutto…
Ho innalzato un monumento più resistente del bronzo, più alto della regale mole delle piramidi e non potranno mai demolirlo la pioggia battente o la furia del vento Aquilone o la lunga serie degli anni o il trascorrere fugace delle stagioni. Io non morirò del tutto, ma molta parte di me sfuggirà a Proserpina. Nella lode dei posteri io crescerò sempre di nuova vita, finché il pontefice salirà al Campidoglio accompagnato dalla silenziosa vergine. Là dove ancora l’Ofanto strepita con violenza, là dove Dauno ha regnato su terre aride e su genti agresti, di me si dirà che mi sono riscattato da umili natali nobilitandomi e che per primo ho adattato ai versi italici il carme eolico. Fai tua, o Melpomene, la superbia del merito e incorona la mia fronte con l’alloro di Delfi.
“Questa notte ho sognato una collega che era incinta ed aveva già 8 figli e questi figli erano frutto, i primi tre di un ex marito e gli altri di rapporti con uomini con i quali si era prostituita.
Inoltre, ho sognato un collega (nella realtà deceduto a febbraio) che vendeva gioielli, tra i quali, però, non avevo trovato nulla di mio gradimento da acquistare.”
Nancy
DAL SOGNO ALLA POESIA
“Questa notte ho sognato una collega che era incinta ed aveva già 8 figli e questi figli erano frutto, i primi tre di un ex marito e gli altri di rapporti con uomini con i quali si era prostituita.”
Quanti figli ho desiderato sin da bambina!
Quanti figli ho avuto nella mia quasi consapevolezza!
Ho iniziato con Lui,
il primo uomo della mia vita,
mio padre,
e sono andata avanti fino a contarne otto,
otto di tanti e tanti di otto.
Chissà quanti,
ma tutti figli degni di tanta madre!
A volte ero io,
a volte era lei,
a volte con te,
a volte senza di te,
a volte con tutti otto
e più qualcuno che non c’è.
Così funziona il sogno
anche se non vi pare.
Quanti amori ho vissuto!
Quanti figli ho desiderato da te,
da lui,
da lei,
dall’altro,
dall’altra,
dall’altro e dall’altra ancora,
dalle rose di maggio gialle e scarlatte,
dalle mille movenze sinuose dell’anima monella,
dalle mille volute voluttuose del corpo birichino.
Ma i figli sono figli,
sono sempre e soltanto delle Madri,
quelle che hanno la gatta dentro e sempre in moderato calore,
in andamento lento e adelante cum judicio,
quelle che a Napoli gridano in teatro e nei vicoli “i figli sò figli”,
quelle dell’equazione esistenziale di Edoardo e Titina,
i De Filippo,
quelli del quartiere Chiaia negli anni quaranta,
quelle prostitute del tempio come donna Filumena,
la Marturano di via san Liborio nel quartiere di Montecalvario,
le Madri della bambina dentro che chiede di essere accudita,
quelle bambine madri che credono ancora nelle favole antiche,
nella favola bella del fiore di cavolfiore,
del fagotto della cicogna,
della stella caduta dal cielo,
della stella cometa con la coda ritorta,
di tutto quello che illude,
o Nancy,
di tutto quello che incanta,
o Nancy,
mia cara Nancy.
L’amore di una madre si fa per amore,
per un giglio rosso e vermiglio destinato alla croce,
per un figlio dolce e giocondo
con un nastrino azzurro per l’uccellino,
per una figlia dolce e graziosa
con un nastrino rosa per il fiorellino,
per un figlio o una figlia dolci e preziosi
con un nastrino arcobaleno.
Ma i figli sono e restano delle Madri.
E’ proprio vero
che ogni scarafone è bello a mamma soia,
è proprio vero
che in qualsiasi latitudine della nostra palla di vetro infranto
le signore della Vita e della Morte filano,
ricamano,
recidono.
Il tuo è un desiderio d’amore di mamma,
di grande mamma,
mia cara.
Ci vuole un rapporto con un uomo che non significat,
ci vuole un fiore o un cavolo nell’orto del vicino,
ci vuole una cicogna che viene da lontano
e placida si posa
sui tralicci dell’alta tensione per fare il nido
lungo l’autostrada che da Sirakaos porta a Catania e viceversa,
sui desideri delle stelle sospese nel cielo di sempre,
sui bianchi pensieri che l’anima schiudono novella,
sulla favola bella che ieri t’illuse,
che oggi t’illude,
oh Nancy.
“Inoltre, ho sognato un collega (nella realtà deceduto a febbraio) che vendeva gioielli, tra i quali, però, non avevo trovato nulla di mio gradimento da acquistare.”
Hanno ammazzato Ouranos.
Gea ha ucciso Ouranos.
La Terra si è liberata del Cielo stellato.
Era stanca di essere ingravidata di bello e di brutto,
di giorno e di notte,
di essere avvolta nell’ambiguo cellophane di un amplesso,
di essere indotta nell’ambiguo malanno
di uno scarno “parecete femina che te dopere”.
I Padri sono morti.
Le Madri hanno ucciso i Padri.
Vendevano gioielli alle bambine
e seducevano le donne procaci nel fiore della giovinezza
con la promessa di una lauta ricompensa.
Le donne di Dioniso hanno sbranato Narciso,
hanno fatto a pezzi Orfeo,
si sono messe in un corteo osceno e moderno,
hanno bevuto e cantato per tutta la notte insieme a Lilith,
non sono mai arrivate a Samarcanda,
hanno gridato a squarciagola “vieni avanti Satana”.
Al primo sorgere del sole,
all’alba,
quando il cielo s’imbianca,
quando l’aere è terso,
hanno divorato le misere e vane membra dei maschi
che altre donne avevano a suo tempo ben impastato
con zucchero e cannella,
con petali di rose e fragole di giardino.
Che stranezza è l’amore!
Che balorda è la vita!
Ma io sono e rimango Nancy.
Io basto a me stessa.
Non vado al mercato del mercoledì in Oderzo
a comprare le pulci che saltano,
a spulciare il cimelio antico e ammuffito di nonna Matilde,
a odorare il gambero surgelato e asettico delle Marianne.
Io non voglio una notte di luna piena
per abbandonarmi a un povero uomo,
neanche il venticello sottile
che da ponente spira sulla pelle accaldata d’estate e d’inverno,
io non sono affaticata da Eros
per il bisogno di sopravvivere insieme all’umano gregge.
Io non ho studiato Darwin,
io non voglio un uomo,
io basto a me stessa
e alla compagnia cantante di musicanti
che ancora affascina e turba i miei congedi diurni
e le mie sortite notturne
con le litania arabe,
con l’oppio dei popoli afgani,
con le chimere del tempo che fu,
con le chiappe al silicone e al vento del tempo che è.
Io ho viaggiato dentro e fuori,
ho saputo di me,
ho saputo degli altri,
ho intessuto i miei sogni uno ad uno in un drappo di Damasco,
sono cresciuta dentro e fuori,
al sole e al vento.
Ora so della bambina che mi vive dentro,
della donna che ha bisogno di cure e premure,
di grazie e bellezze,
di arte e creanza.
Je m’en fous degli effimeri gioielli che pendono,
che pendono come la torre di Pisa,
gingilli destinati a cadere al primo vento di scirocco.