“E’
il mio primo sogno-terrore del 2019 e devo cercare di capire.”
Sarà
così?
Di
certo il “sogno-terrore” è un breve romanzo composito di scuola
ermetica, un sogno che non ha niente di terribile e di terrificante,
ma tanto di “numinoso” e di “noumenico”, di portentoso e di
pensabile, di sacro e di profano, di erotico e di sessuale. E’ fuor
di dubbio che il sognare assolve la fertilità della Fantasia di
Sabina, la predilezione e l’autocompiacimento alla scrittura e a
scrivere immancabilmente di sé.
Come
potrebbe essere il contrario se al centro della nostra attenzione si
impongono i nostri “fantasmi”?
Chi
scrive dell’altro ha sempre un “sé” ben preciso che tiene
dentro i polpastrelli mentre danzano sulla tastiera. E così, tra un
sogno e un terrore, la stupefacente Sabina entra in pompa magna
nell’anno nuovo con il preciso intento di capire quella “se
stessa” truffaldina che di notte viaggia al massimo, incurante del
risparmio energetico, nei suoi mari prediletti mostrando di
prediligere all’Ulisse di Omero l’Ulisse di Joice. E navigando a
vele spiegate Sabina vive la sua Odissea, un poema che si può
leggere intero e si può capire a pezzi.
Va
bene così.
Ah,
dimenticavo!
Di
certo, Sabina non poteva iniziare l’anno meglio di così. Chi
arriverà alla fine, capirà.
“Guardo
un film in bianco e nero, molto vecchio: attrici e attori americani,
macchine lussuose. Inseguimento in strada tra due macchine piene di
gente ricca; si inserisce una moto. Curva a sinistra, incidente. A
questo punto sono nel sogno, che diventa a colori, e percorro un
tratto di strada con un signore anziano ed elegante che fa parte
della scena dell’incidente. Passa una carrozza con a bordo la
regina Elisabetta II e lui saluta con un gesto militare.”
Sabina
si guarda dentro nel tempo andato, regredisce al tempo della
giovinezza e pensa al suo bisogno di nobiltà e di diversità, nonché
alla sua vitalità sessuale e al suo spiccato erotismo, alle vesti
indossate con un forte desiderio di apparire tra la gente mentre si
accompagna a un padre a colori che ha l’eleganza di un re. Il
fascino del padre ideale si sposa con l’omaggio devoto alla figlia
e dovuto alla sua femminilità, il tutto sempre nei desideri
allucinati di Sabina.
Sabina
rievoca la figura ideale del padre e il suo desiderio di essere la
sua principessa tra seduzione ed erotismo. Le scene oniriche si
rincorrono e si mescolano con la stessa valenza intrigante: la
ricerca di essere e di apparire, di esserci e di mostrarsi, di
compromettersi e di godere, di esibire e di esibirsi. La sintesi è
semplicemente affrescata da una professionista dell’amor proprio e
del culto delle parole: Sabina. La simbologia sessuale è tanta e
notevole come il passaggio dal bianco e nero ai colori. Ci si aspetta
di meglio e si percepisce che il prosieguo del sogno non tradirà
l’attesa e sarà anche di buon auspicio.
“Ci
voltiamo per tornare indietro e la strada è diventata collinare, con
salite e discese. Non è asfaltata. Davanti a noi vediamo del fumo
che si alza dietro ad un dosso e ci avviciniamo per vedere: c’è un
uomo a cavallo che emette fumo (non so se il cavallo o l’uomo).
Scappa. Io scendo il pendio che mi separa da lui per raggiungerlo.
Sono a piedi e mi muovo come se sciassi, freno mettendo i piedi di
lato, quasi mettendomi in mostra per la mia maestria davanti all’uomo
elegante, che è accanto a me.”
Nei
suoi trascorsi Sabina trova la naturale altalena dell’umore e del
desiderio, l’attrazione del maschio e il fascino della seduzione.
Allontana la figura paterna per mettere in mostra le sue belle e
preziose merci e si lascia andare al moto dei sensi dietro la
rassicurazione della presenza di un uomo elegante come il padre.
Sabina si sta costruendo “in nome del Padre”, partendo dal
parallelo “padre e uomo” e ricercando il giusto mezzo. Il
contrasto in riguardo alla vita affettiva e sessuale ha trovato un
picco e una commistione e cerca una mediazione tra l’originalità e
la contaminazione. Continua la sequenza erotica nel lasciarsi andare
“sciando” e frenando con la “maestria” di una donna che gioca
e giocando impara a essere con il maschio come la sua natura comanda.
La simbologia della fuga e del rincorrersi, nonché del fumo e
dell’eccitazione, viene costruita con parole “significanti” che
sono un “tutto dire” per la gioia delle buone anime di Umberto
Eco e di Andrea Zanzotto, un professore e un poeta mai adeguatamente
compianti specialmente alla luce dei tempi. Sabina combina i “segni”
del testo dentro un contesto che non appare ma si lascia intuire.
Lunga vita ai “sensi” e riposino in pace i “significati”.
E
se non credete, se giustamente diffidate, provate voi a spiegare gli
arcani di questa donna enigmatica in apparenza e ricca nella
sostanza.
“Improvvisamente,
sono in un garage pieno di sabbia in terra; io so che è un garage,
ma potrebbe essere un deserto di notte, con la sabbia non illuminata
dal sole. C’è un tunnel sulla destra che porta ad una tomba egizia
piena di tesori e capisco che i diversi gruppi di persone coinvolte
nell’incidente vogliono avere l’esclusiva del tesoro ed eliminare
gli altri.”
La
competizione è tratto distintivo di una Sabina che, tornando
indietro nei suoi ricordi e nei suoi vissuti, ritrova la sua “tomba
egizia piena di tesori”, l’identità psicofisica e il narcisismo
necessario per tante rivali. Si celebra il trionfo
dell’individualismo nelle dimensioni profonde di Sabina e l’aridità
del deserto affettivo si sposa con la coscienza obnubilata. Ogni
donna cerca la sua identità di corpo e di mente, ma non tutte
arrivano a scoprire i tesori dell’individualità emergente dal
profondo psico-storico. Sabina opera in sogno lo scavo archeologico
che non esige di essere capito, ma soltanto di essere eseguito
nonostante l’ostacolo di reperire ciò che non è stato vissuto e
tanto meno convissuto. Il deserto di notte è il luogo giusto per
sorbire il tè tra la sabbia esotica dell’antico Egitto e il
mistero del tunnel che porta sulla destra a una tomba piena di
tesori. L’intraprendenza e l’ottimismo non mancano alla giovane
Sabina che cerca nel suo futuro di godere dei suoi tesori nascosti:
la sua fantasia erotica e la sua carica vitale. Ricordo che “il tè
nel deserto” è un prezioso film di Bernardo Bertolucci che vale
sempre la pena di avere in casa e di vedere quando si è in crisi
semplicemente perché si è smarrita la Fantasia tra le pieghe di
qualche lenzuolo in qualche albergo della periferia di Cefalù.
Ribadisco che il quadro dipinto da Sabina con le parole sa di tinte
dense e di profumi esotici, quelli della giovane età quando gli
ormoni danzano e le idee seguono magicamente il ritmo. Non a caso ho
introdotto la Pittura. Chi proseguirà, vedrà.
“Sono
fisicamente diventata una donna anziana, l’iconografia
dell’esploratrice-investigatrice dei romanzi di Agatha Christie. Mi
dico che devo nascondermi per bene e approfittare di un momento di
distrazione degli altri per entrare nel tunnel che porta al prezioso
sepolcro. Improvvisamente sono dentro, ma mi trovo in un grande
palazzo pieno di piani e scale, semi-buio e vuoto, sembra un ospedale
abbandonato; è pulito e domina un colore arancio-ocra.”
La
“regressione” temporale cessa e Sabina ritorna la donna di oggi,
quella che mette insieme l’esperienza vissuta e la saggezza, la
storia e la filosofia secondo il sommario scritto sulla sua pelle di
donna che vanta l’antecedenza rispetto agli altri: una “donna
anziana” che “sa di sé”, della sua luce e del suo buio, del
suo pieno e del suo vuoto, dei suoi momenti “up” e dei suoi
momenti “down”, del suo essere “in” e del suo essere “out”.
Per questo motivo Sabina deve difendersi coprendo le sue nudità
innocenti e le sue vulnerabilità latenti. Tutto il mondo fuori di
lei non deve sapere che è una donna complessa nella sensibilità e
ricca di sfaccettature che variano dall’umore allegro e disinibito
alla pensosità solenne. Sabina è una donna che sa sublimare e che
non disdegna la più concreta incarnazione del suo essere femminile.
Ma i dolori non mancano nel ballo apparente di rose e fiori. Il
colore “arancio-ocra” è pulito e dominante con le sue esigenze
di buona vitalità e di sana gelosia del tempo andato con tutte le
sue concessioni e le sue promesse. La solitudine è un piatto che va
gustato caldo e non in compagnia di un freddo “fantasma di morte”,
altrimenti non funziona e non vale.
“Io
sono tornata me stessa, forse più giovane di come sono nella realtà,
non so, non ho contezza del mio aspetto fisico in quel momento del
sogno. Corro, corro tantissimo su è giù per le scale, sto scappando
ed ho paura, l’adrenalina a mille. Qualcuno mi sta cercando e io non
devo farmi trovare. Passo da un piano all’altro, la luce è molto
fioca; faccio più gradini alla volta, sempre di corsa. Sono al
settimo piano e mi dico che devo scendere al primo e corro fino ad
arrivarci.”
Il
presente si profila a Sabina, dopo l’apparente viaggio di andata e
ritorno nel Tempo, nella forma di una donna in piena salute che sa
del suo corpo in evoluzione, di un corpo che vive alla grande nella
ricerca di ferine sensazioni e di forti emozioni, di orgasmi tra
slanci e ritrosie, tra desideri e paure, con l’Es a mille e l’Io
che tituba in questa altalena della vitalità e in questo trionfo
della “libido”. Signori, l’orgasmo è servito e ci si può
accomodare nella riflessione e nella paura dell’eccesso, nella
titubanza di essersi lasciata troppo andare e nel recupero di una
forma di consapevolezza possibile in tanto trambusto dei sensi. Tra
la “sublimazione” dell’istinto e delle forze corrispondenti e
la caduta nella materialità più istintiva Sabina vive bene il corpo
e la mente, prediligendo la concretezza della realtà vissuta e di
tutta quella che c’è da vivere, correndo su e giù tra una
“sublimazione della libido” e un abbandono alla materia più
sacra, navigando tra le seduzioni delle sirena e la poca ragione
della marinaia. Sabina ha dipinto un quadro di scuola “fauvistica”.
Più che mai adesso bisogna andare avanti per curiosità e per
capire.
“Sono
al primo piano, sento passi; cerco di muovermi senza farmi sentire, i
passi si avvicinano. Corro in una stanza aperta sul corridoio e mi
metto in un cantone dietro quella che doveva essere una porta, ma che
non c’è più. Resto immobile, trattengo il respiro. Una persona
avanza nella mia direzione, confido che non mi trovi. Invece entra e
mi si para davanti. E’ mio fratello, è vestito da infermiere. Gli
chiedo come ha fatto a capire che ero proprio in quel punto,
nonostante il palazzo sia enorme e pieno di scale e stanze, e lui mi
dice: “Ho sentito il tuo profumo”. Allora gli rispondo: “Che
sciocca, sono così abituata a portarlo che non mi rendo mai conto di
averlo”.
Sabina
è tornata al presente psichico e tenta di occultare e di occultarsi
di fronte al nuovo che avanza nelle relazioni. Si difende come una
bambina timorosa dagli assalti e dalle minacce che vengono da dentro
e da fuori. Le soluzioni sono più facili a essere pensate che a
essere realizzate perché non sempre la donna di oggi è così
spavalda e aggressiva come può sembrare a coloro che la insidiano
nel cammino della vita. Si profila un uomo in questo gioco erotico
che rievoca le tentazioni dell’infanzia e dell’adolescenza, il
tempo in cui si desidera e si teme di essere scoperti mentre la
carica vitale si distribuisce lungo i nervi e scende per la schiena
secondo il freudiano “principio del piacere”. Sabina è braccata
di fronte alla sua disposizione femminile di muovere e di commuovere,
di sentire e di percepire, di vivere e di viversi. Dentro di lei
scopre la presenza maieutica e l’immagine di una persona vicina e
conosciuta, un alleato insperato che l’aiuta a conoscersi meglio e
a viversi in maniera dignitosa. Sabina si è fatta scoprire nelle
dimensioni semplici di madre Natura, nonostante le grandi
complicazioni difensive che ha costruito dentro di sé per non
esporsi agli altri con le sue debolezze e le sue fragilità. Il suo
piccolo Dio le dice che ha sentito il suo odore di donna mentre si
aggirava nel mercato dell’esistenza tra la gente con tutto quel
patrimonio che si porta addosso. Sabina è costretta a ricredersi e a
rivedere le sue portentose e mirabili sorti progressive. I talenti
hanno prosperato i frutti desiderati e la “coscienza di sé” è
ormai buona. La sorniona e la maliarda si è fatta scoprire dall’uomo
che cercava, un animale misto di istinto e di talento. Le storie
obsolete d’amore e di senso non fanno per lei. Sabina, la donna
profumata che non sente il suo profumo, aspira e merita ben altro.
“Mi
porta via, poi non è più mio fratello, è un infermiere
sconosciuto; con me viene scortato un altro prigioniero. L’infermiere
gli chiede: “dov’è finito il mio cioccolatino?” e lui
risponde: “frugami pure, non ce l’ho”. Io dico all’infermiere
che non può averlo rubato, perché anche il mio accendino è
sparito, quindi deve essere caduto. Infatti, ci chiniamo entrambi e
sul pavimento ci sono sia il mio accendino che un grande cioccolatino
rettangolare. Lui lo prende e fa il gesto cortese di offrirmelo, ma
io, sempre per cortesia, rifiuto.”
Le
schermaglie seduttive di donna Sabina non sono finite, anzi
stanno iniziando. Tra
maschere carnevalesche e interposte persone si ritrova con l’uomo
giusto a metà tra l’ostetrico, colui che aiuta a scoprirti, e il
posseduto, colui che è preda del fascino femminile: un infermiere e
un prigioniero. In queste sponde si esalta e
scorre la femminilità di
Sabina, tra una dolcezza erotica e una leggera consapevolezza, quella
carezza e quella percezione che accende la sensualità e la
sessualità. Il
maschio è eccitato e pronto a essere ricevuto dalla mezza coscienza
femminile che deve controllare soltanto quanto è bello essere
desiderata e desiderare. Questo brano del sogno di Sabina tocca
picchi di poesia erotica che nulla invidia alla magia dei versi
simbolisti di
Baudelaire. Il quadro marcato
è, infatti, di
scuola ermetica e simbolista,
da post-Impressionismo, di
quando i pittori, francesi e non, della nuda Realtà fotografica,
segnata da macchie forti di grasso colore, passarono alla
“proiezione” sulla tela delle emozioni e dei simboli
classicamente umani. La trama elaborata del sogno di Sabina
è da preferire al Realismo
volgare di un qualsiasi
poeta o
pittore francese anche
ispirato. Ripeto, quello che
descrive Sabina è di qualità ermetica e simbolista,
post-impressionista.
Anche in questo tratto
distintivo la donna conferma
la sua complicazione totale rispetto alla parziale confusione
maschile. L’allegoria creata da Sabina in sogno è da mondo
iperuranio e Platone esulta di fronte a tanta combinazione di parole
che descrivono tra le righe una donna seduttrice e un uomo vittima
del femminile imbroglio. La
seduzione si completa nel gran rifiuto opposto dalla donna alle
offerte maschili
di una prepotente eccitazione e di una degna reverenza. La cortesia
del rifiuto è finalizzata non certo al pudore, ma al gioco del
rafforzamento del narcisismo. Sabina non è innamorata, è soltanto
tutta presa da sé.
“Non
so come, ma mi ritrovo nuovamente a scappare, forse con mio fratello
come alleato o forse con qualcun altro. Io scappo e corro a
perdifiato (in questo sogno non faccio altro che correre) e alla mia
destra si apre una porta e una donna non giovane mi afferra un lembo
di una sciarpa di seta lilla che improvvisamente porto al collo e
tira: mi sento strangolare, ma riesco a sciogliermi dalla sciarpa e
scappo ancora. Altri mi avvinghiano uscendo da stanze lungo il
corridoio, ma ho sempre la meglio e fuggo.”
Sabina
è in fuga da sé, ha opposto all’altro il gran rifiuto del
narcisismo, l’orgoglio della donna che se la tira, la superbia
della donna che non si coinvolge per poi pentirsi di questo andar di
qua e di là alla scoperta di un’America che si trova in casa, in
se stessa, nel suo “habitat” psicofisico. Non le resta che
correre e fuggire dalla sua donna attuale e dalla sua donna di ieri
lasciando di stucco e di sasso tutti quelli che la desiderano e la
seducono. Ma questo non è un “barbatrucco”. Manca sempre a
Sabina l’ultimo pezzo del puzzle per completare l’opera. Nel suo
futuro prossimo c’è una donna non giovane da accettare e da
considerare dopo la scorribanda nell’età giovanile, una persona
che tenta e tormenta con le infide promesse della buona e bella
presenza del corpo e della mente. Gli istinti e le pulsioni escono
allo scoperto a dire e ricordare che quel che non è stato vissuto
non ritornerà, come il tempo andato. Lo psicodramma di Sabina tocca
punte di sentimento struggente nel presentare il senso del Tempo che
ti lascia vincere e che si presenta alla fine con il conto da pagare
e come il solerte cameriere del ristorante alla moda in cui non
volevi finire. Sabina avverte l’angoscia nel sentirsi strangolare,
ma riesce a sciogliersi dal legame sensuale ed erotico, “la
sciarpa”, per scappare ancora frastornando e frastornandosi. Lei
non si era mai accorta del suo profumo e del suo odore di donna
semplicemente perché ci era e ci è abituata a convivere. La
nostalgia del “non vissuto” si fa sentire e il
dolore si consola con tutto
quello che ha
vissuto prima di concludere concretamente l’avventura delle
relazioni più contorte e avvincenti, quelle che si fanno ancora
ricordare e che
addolorano.
Vediamo dove va parare una
Sabina braccata dalle sue
pulsioni desideranti.
“Intravedo
luce e finalmente appare una donna a darmi una mano: è la stessa
donna che ero io prima, quando mi vedevo anziana. Si chiama Fauve. La
avverto di non mettersi il profumo, altrimenti si farà prendere. Lei
è molto sicura di sé e mi dice di non preoccuparmi, sa badare a sé
stessa e ce la farà, non ha alcuna intenzione di uscire da quel
posto senza aver trovato quello che cerca. Mi fa andare verso
l’uscita con un uomo.”
Come
volevasi dimostrare. Ho anticipato tutto il quadro, ma mi è piaciuto
tanto avere scoperto anzitempo i veli delle commedie di Sabina,
quelle che non sono tralignate in farsa semplicemente perché la
nostra eroina sa recuperare se stessa e i suoi rimpianti. La donna
ragiona e ha la luce della consapevolezza dalla sua parte, ma si
chiama Fauve, un nome bellissimo e da mitologia francese. Sabina ha
una precisa identità psicofisica e non è un evanescente ectoplasma
in cerca di reincarnazione, tutt’altro, è una donna selvaggia e
ferina. Sabina è tornata la donna di sempre con qualche
consapevolezza in più: “quant’eran belli i tempi in cui
profumavo di donna e seminavo l’odore sulla mia scia. Allora
evitavo e fuggivo, adesso rimpiango le occasioni mancate e negate al
mio prestigio femminile. La sicurezza di oggi è stata pagata a caro
prezzo e il trovare un degno compagno non mi esime dal rimpianto di
andare verso l’uscita. L’archetipo del Tempo scuote fortemente il
“fantasma del tempo” nella sua “parte buona”, l’evoluzione
e il progresso, nella sua “parte cattiva”, l’andare verso la
fine. Gli esistenzialisti sono stati serviti nel loro ottuso
pessimismo, ma anche Orazio grida il suo “carpe diem” in sollievo
a tanto sogno, a tanto viaggio di Sabina nel mare dei ricordi
inscritti nel bastimento del suo corpo senziente e vitale.
Ma
come non tirare in ballo Beaudelaire?
“Pedro,
adelante cum judicio.”
“Non
ricordo altro. Mi sono svegliata con un’angoscia tale che non sono
riuscita ad addormentarmi per più di un’ora. Era notte fonda ed
ero terrorizzata. Allora ho cercato di andare incontro allo spavento,
di guardarlo in faccia, e mi sono calata nel peggio dei pensieri
possibili per scatenare una reazione, anche se di panico, ma dalla
mia mente cosciente nessuna scintilla ha acceso la miccia di emozioni
incontrollabili. Avevo solo un senso di angoscia.”
Ci
mancherebbe che Sabina, dopo aver scritto in un’ora di sonno la sua
Odissea seduttiva ed erotica, dopo aver descritto il viaggio della
sua “libido” tra Scilla e Cariddi e tra gli scogli delle Sirene,
avesse ancora qualcosa da aggiungere e da rivivere. L’angoscia è
eccitazione, perché la trama del sogno di Sabina è la descrizione
dell’itinerario sensuale sulla mappa nautica del Corpo ed è la
rievocazione dei marinai che hanno tentato di avventurarsi in quel
mare e che ci hanno lasciato le penne per essere nostalgicamente
ricordati come gli eroi che hanno compiaciuto donna Sabina. Questo
stato di eccitazione era il massimo e niente poteva scalfirlo o
superarlo. Sabina ha dato il meglio di sé e della storia avventurosa
della sua crescita umana, quella contraddistinta oggi dal ricordo di
un orgasmo che tarda a venire. La coscienza della mentenon accende nessuna scintillae la miccia delle
emozioni incontrollabili è pronta a non tralignare nell’angoscia
del tempo perduto e del tempo vissuto. Ecco in conclusione
l’allegoria dell’orgasmo secondo il vangelo di Sabina: “scatenare
una reazione, anche se di panico, ma dalla mia mente cosciente
nessuna scintilla ha acceso la miccia di emozioni incontrollabili.”
“Nota:
mentre correvo non sentivo alcuna fatica fisica.”
Come
quando eri ragazzina e correndo sentivi il piacere del tuo essere
femminile. Il non sentire fatica equivale al piacere di una emozione
che cresce e accende la miccia. Classica è la simbologia erotica e
sessuale del “correre” e dell’anestesia della fatica.
“Grazie,
caro Maestro
Sabina”
Appena
ricevuto il malloppo, mi sono smarrito nei meandri psichici delle
parole e dei concetti. Ne sono venuto fuori in maniera originale e
trovando un’altra strada rispetto a quella convenzionale.
Ti
sono in debito, cara Sabina, di un gallo da sacrificare a Esculapio,
il dio della Medicina che i Greci onoravano per le guarigioni
ricevute: gli “ex voto” di pagana memoria. Sono guarito
dall’indolenza e dall’accidia di fronte a tanta roba, nonché
dalla scarsa stima in riguardo alla creatività.
Grazie
a te e…
che un
buon demone mi assista
sempre !
PSICODINAMICA
Il
lungo sogno di Sabina rievoca in maniera altamente personale
l’insieme del tempo vissuto tra eccitanti viaggi di andata e
dolorose nostalgie di ritorni. Può essere definito l’Elogio del
Tempo e della Libido, la dimensione bio- astronomica e l’energia
vitale che scorrono sempre tra le parole, i sensi e i significati
della originale trama tessuta da Sabina. Tra flussi di coscienza che
richiamano l’Ulisse di Joice e ricerche nostalgiche alla Omero di
una ricomposizione del “Tutto” turbato, il linguaggio di Sabina
denota una spiccata capacità di cogliere i valori del
“significante”, quello che la parola significa per lei, il suo
simbolo, quello personale elaborato nel corso del vivere quotidiano e
tenuto dentro nel divenire delle stagioni. Se l’Ulisse
contemporaneo nella visione di Joice si smarrisce nei meandri delle
parole e dei flussi di coscienza alla ricerca di un senso da dare
alla vita, Sabina si rivolge al suo passato per trarre gli auspici
del presente senza alcuna vena disfattista e con quella leggera e
sottile nostalgia che aiuta a ricordare e a rafforzare il presente
quotidiano e a ridurre il dolore delle truffe del Tempo. Ma quello
che impressiona in questo sogno abilmente composto da Sabina è il
nome della donna nel finale: Fauve. Il richiamo al movimento
pittorico del “Fauvismo” nella Francia del 1905, iniziato
casualmente da Matisse e oscillante tra Impressionismo ed
Espressionismo, non è casuale. Sabina esegue nel suo sogno anche un
ritorno alla Natura con il colore puro e non mischiato, possibilmente
spruzzato a tocchi sulla tela onirica per intendere l’istinto, il
selvaggio, il ferino, il bestiale, l’Es freudiano, i tuffi
nell’Inconscio al di là dei sentimenti, della Filosofia e della
Cultura. Sabina lascia spazio al ritorno alla purezza dei suoi
colori, ma non trascura la “proiezione” dei simboli e la ricerca
della consapevolezza.
Mi
si chiederà cosa c’entra il sogno di Sabina con la corrente
pittorica, oltretutto transitoria, del Fauvismo?
Io
rispondo che c’entra, perché Sabina nel suo sogno richiama con il
nome femminile Fauve le pennellate della sua “libido” a tinte
massicce e alle prese con la seduzione e l’avventura dei sensi
senza limiti e in espansione. E quando torna in sé, decora la sua
tela con il ricordo delle “scintille che non accendono la miccia di
emozioni incontrollabili”. E’ un senso doloroso legato all’aver
tanto vissuto e il cui ricordo oggi piacevolmente resta di fronte
all’incalzare inesorabile del Tempo.
Ecco
la traduzione poetica di due brani del sogno di Sabina. La
manipolazione è mia.
ALLEGORIA
DEL COITO
“Quell’uomo
mi porta via,
ma
non è mio fratello,
è
un infermiere sconosciuto,
è
un altro prigioniero.
“Dov’è
finito il mio cioccolatino?”
“Frugami
pure, io non ce l’ho”.
Anche
il mio accendino è sparito.
Chiniamoci
sul pavimento
alla
ricerca del mio fuoco e del tuo cioccolatino.
Sii
gentile e generoso!
Offrimelo,
anche
se io per cortesia potrei rifiutare.
ALLEGORIA DELL’ORGASMO
“Non
so come,
ma
mi ritrovo a scappare
con
un uomo alleato
o
forse con un altro nemico.
Io
scappo e corro a perdifiato.
Corro,
corro
a più non posso
come
sa fare una donna
e
nessuno mi acchiapperà.
Alla
mia destra si apre una porta
e
qualcuno mi afferra il lembo
di
una sciarpa di seta lilla
che
improvvisamente scende dal collo
e
tutta mi avvince.
E
tira,
tira
a più non posso.
Mi
sento strangolare.
Non
riesco a sciogliermi dalla sciarpa
perché
non voglio sciogliermi
e
scappo ancora.
Altri
mi avvinghiano
uscendo
da buie stanze lungo il corridoio.
Sono
i prigionieri,
ma
io non so far altro che fuggire.
Non
è finita.
Come
avvinto dalla cultura francese, il sogno di Sabina si può
tranquillamente associare allo scrivere versi di Baudelaire, ai
“Fiori del male”, per restare in sintonia con l’erotismo e la
“libido” in libera associazione con il Tempo, la costante e la
variabile di Sabina.
I
vibranti dolori, come al centro di un bersaglio,
presto
si pianteranno nel tuo cuore riempito di sgomento;
il
vaporoso piacere sfuggirà nell’orizzonte
come
silfide in fondo al palcoscenico;
ti
divora ogni istante un po’ di quella delizia
che
ad ogni uomo fu accordata per il suo tempo.
Mormora
tremila seicento volte, ad ogni ora, il Secondo:
Ricordati!
– L’Adesso, con la voce
d’insetto,
dice rapido: Io sono l’Allora,
ed
ho succhiato con l’immondo pungiglione la tua vita.
Remenber!
Souviens toi, prodigo! Esto memor!
(La
mia gola metallica ogni lingua parla).
I
minuti sono sabbie, o allegro mortale,
che
non possono lasciarsi senza estrarne un po’ d’oro!
Souviens
toi che il Tempo è un giocatore avido
che
vince senza barare, ad ogni colpo. E’ legge.
Scema
il giorno e già la notte cresce; ricorda!
Il
baratro ha una sete perenne; la clessidra ormai si svuota.
Suonerà
quanto prima l’ora in cui il divin Caso,
l’augusta
Virtù,la tua sposa ancor vergine,
lo
stesso Pentimento (ahimè, l’ultimo rifugio!),
ed
ogni cosa, ti diranno: Muori, vecchio vigliacco, è troppo tardi
ormai!”
Ma
ancora non basta.
In
questo esaltante prodotto culturale di Sabina, a metà tra la prosa e
la poesia, elaborato nel mezzo e passa del cammin di nostra vita, si
associa e va di pari passo lungo la via Sacra il buon Quinto Orazio
Flacco con il suo immarcescibile “Carpe diem”, con la sua
saggezza stoica ed epicurea, con la ricercatezza dei suoi versi. Il
tema è sempre il Tempo.
ODE
I, 11
Tu
ne quesieris…
Tu
ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi
finem
di dederint, Leuconoe, nec Babilonios
temptaris
numeros. Ut melius, quidquid erit, pati!
Seu
plures hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,
quae
nunc oppositis debilitat pumicibus mare
Tyrrhenum,
sapias, vina liques et spatio brevi
spem
longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida
aetas:
carpe diem, quam minimum credula postero.
VERSIONE
LETTERALE
Tu
non cercare…
Tu
non cercare, il sapere non è lecito, quale a me, quale a te
fine
gli dei hanno dato, o Leuconoe, non provare
i
calcoli babilonesi. Al meglio, qualunque cosa accadrà, sopporta!
Sia
che Giove ha dato parecchi inverni o come ultimo
questo
che ora affatica il mar Tirreno tra le opposte scogliere,
sii
saggia, mesci i vini e in uno spazio breve
taglia
una lunga speranza. Mentre parliamo, sarà fuggito il tempo
invidioso:
cogli il momento, quanto minimamente fidente nel futuro.
VERSIONE
LETTERARIA
Carpe
diem
O
Leuconoe, non chiedere anche tu agli dei
quale
destino hanno riservato alla nostra vita
perché
è impossibile saperlo
e
sarebbe come ricercare un senso logico
nei
calcoli astrali dei Caldei.
Credimi,
è meglio rassegnarsi,
sia
se Giove ci concede ancora molti inverni
e
sia se l’ultimo è proprio questo
che
infrange le onde del mar Tirreno
contro
l’argine delle scogliere.
Pensaci
bene! Versati un po’ di vino
e
soltanto per un breve tempo
concediti
l’illusione di una speranza.
Mentre
noi parliamo, il tempo impietosamente è diventato passato.
Godi
l’attimo e non affidarti assolutamente al domani.
COMMENTO
Celebre
e celebrata l’ode del “carpe diem” è stimata il capolavoro
della poesia di Orazio; in essa i temi dominanti dell’Etica
epicurea sono espressi in maniera lucida e sobria, essenziale e
incisiva.
Il
testo è dedicato a Leuconoe, la donna “dall’animo candido” o
“dai pensieri ingenui”, in ogni caso una fanciulla preoccupata
del domani a cui il saggio e maturo Orazio non lesina i suggerimenti
più obsoleti e ricorrenti nella letteratura greca: Alceo, Saffo,
Anacreonte, Bacchilide, Simonide, Mimnermo, Euripide, Epicuro. Di
questi illustri antenati darò in seguito le prove.
Il
poeta dissuade Leuconoe dall’interrogare gli astrologi babilonesi
sul futuro che l’attende e le suggerisce la soluzione migliore di
carpire alla fuga e alla rapina del Tempo la giornata presente, senza
sperare in quell’ovvio domani che resta sempre affidato agli dei e
depositato nel loro grembo.
Lo
scenario più naturale dell’ode appartiene alla stagione invernale:
il mare in tempesta e le onde che si infrangono sugli scogli a
simboleggiare senza equivoci le ineffabili sofferenze della vita
umana e l’ineffabile imprevedibilità di un destino situato tra
scienza e magia.
In
una formidabile sintesi poetica Orazio include molti temi: la
fanciulla ingenua, la volontà degli dei, l’inesorabile scorrere
del Tempo, l’ineffabile destino umano, la vita e la morte, la
saggezza dell’uomo maturo, la ricerca di un’impossibile coscienza
di sé, il tabù della conoscenza, la mitica astrologia, la volgare
superstizione, la necessaria rassegnazione, la passiva accettazione
del progetto degli dei, la cosciente illusione delle speranze, la
benefica panacea del vino, l’angosciante fugacità del Tempo e la
provvida soluzione del “carpe diem”.
L’ode
muove da una circostanza immaginaria dal momento che non contiene
indizi cronologici precisi che consentano una collocazione temporale
plausibile; del resto, l’angosciante tema della rapina del Tempo
appartiene alla “coscienza collettiva” insieme alle riflessioni
logiche opportune e alle forti emozioni implicite, un tema che
rientra nello “Immaginario collettivo” con tutto il corredo dei
“fantasmi” psichici collegati all’angoscia della morte.
La
concezione epicurea sulla felicità, la “atarassia” per
l’appunto, ingiunge al comune e saggio mortale di vivere
intensamente l’attimo e il Tempo presente per eliminare le angosce
del futuro e della fine. In quest’ode Orazio affida a otto intensi
e concisi versi un messaggio atavico e obsoleto a testimonianza della
sua capacità di elaborare e riproporre in poesia i classici temi
filosofici intorno alla situazione esistenziale e ispirati alla
morale corrente.
Nell’approfondire
la fugacità della vita umana Orazio non esorta a vivere banalmente
la quotidianità, ma a essere padroni di se stessi, estimatori delle
gioie consentite agli uomini e consapevoli dei propri limiti. Questi
temi ricorrono nella sua poesia come se fossero radicati nella
dimensione psichica profonda del poeta e fossero stati oggetto nella
sua adolescenza di una drastica e difensiva introiezione.
L’autocontrollo
del poeta appare manifesto dentro un coerente e adeguato modello
espressivo, un testo denso e privo di ridondanza. Il procedere
colloquiale, il tono e l’indeterminatezza, l’elegante musicalità
del ritmo creano un fascino autentico e fanno del “carpe diem” un
gioiello della Lirica di ogni tempo.
A
proposito di Tempo sono questi i frammenti delle poesie greche sul
tema, a ulteriore conferma che l’originalità umana è un’araba
fenice che risorge sempre sulle sue ceneri.
Anacreonte,
44 D, sulla morte
“Le
mie tempie son canute,
la
mia testa è tutta bianca:
la
gentile gioventù
è
svanita, ho i denti vecchi:
poco
tempo mi rimane
della
bella vita ormai.
Così
spesso mi lamento,
nel
terrore di laggiù.
E’
terribile l’abisso
della
morte, il passo è amaro.
Perché
questa è verità,
che
chi scende non risale.
Anacreonte,
frammento 69D
Ho
desinato con un pezzettino
Smilzo
smilzo di focaccia;
ma
di vino
ne
ho tracannato un orcio fino in fondo;
e
ora con la cetra
faccio
la serenata alla mia bella.
Simonide,
frammento 6 D
“Uomo
qual sei, non dire mai quel che domani sarà
né
se vedi uomo felice, quanto durerà.
Di
una mosca dalle lunghe ali
non
è così veloce il volo.
Frammento
9 D
“Degli
uomini scarso è il potere,
sono
gli affanni vani;
dolore
su dolore è la breve vita.
Su
tutti uguale pende l’inevitabile morte:
i
vili e i forti ugualmente l’hanno in sorte.
Saffo,
frammento 58 D
Morta
tu giacerai,
ne
più memoria sarà di te,
né
rimpianto; ché non cogliesti
le
rose della Pieria:
e
ombra ignota anche nell’Ade
ti
aggirerai,
tra
scure ombre di morti
sperduta.
Bacchilide,
Epinicio V 151 162
“Per
un istante è ancora la dolce vita,
sentii
venir meno le forze, oh misero,
dando
l’ultimo respiro
piansi
lasciando la bella giovinezza.”
Soltanto
allora, come narrano,
l’impavido
figlio di Anfitrione
bagnò
gli occhi di pianto
lamentando
la sorte dell’eroe infelice
e
rispondendogli disse:
“Meglio
per l’uomo non essere nato
E
non vedere la luce del sole.”
Alceo,
39 D
Bisogna
ubriacarsi ora, bere anche
se
non si vuole, perché è morto Morsilo.
Frammento
90 D
Zeus
manda pioggia. Un grande inverno
Dal
cielo. Sono ghiacciati i corsi d’acqua…
E
ammazzalo l’inverno. Butta fuoco,
mesci
senza risparmio vino buono,
gira
la lana morbida sul capo
Frammento
91 D
Non
devi ai mali concedere l’anima.
a
nulla giova soffrire e piangere,
o
Bucchi. Far portare il vino
ed
inebriarsi è il solo rimedio.
Frammento
104 D
sì,
il vino è per gli uomini uno specchio.
Frammento
94 D
Gonfiati
di vino: già l’astro
che
segna la grave stagione,
dal
giro celeste ritorna,
e
ogni cosa è arsa di sete.
e
l’aria fumiga per la calura.
Acuta
tra le foglie degli alberi
la
dolce cicala di sotto leali,
fitto
vibra il suo canto, quando
il
sole a picco sgretola la terra.
Solo
il cardo è in fiore:
le
femmine hanno avido il sesso,
i
maschi poco vigore, ora che Sirio
il
capo dissecca e le ginocchia.
Frammento
96 D
Beviamo.
Le lucerne
perché
attendiamo? Il giorno è solo un attimo.
Prendi,
amor mio, le grandi,
le
bellissime coppe variopinte.
Il
vino, oblio dei mali,
diede
il figlio di Semele e di Zeus,
ai
mortali. Due parti
mescola
d’acqua, una di vino; riempi
fin
all’orlo il cratere.
Ed
una coppa spinga l’altra giù.
Frammento
73 D
Bevi,
bevi ed ubriacati,
Melanippo,
con me. Credi tu forse,
quando
varcato avrai
Acheronte,
il gran fiume vorticoso,
credi
tu che vedrai
la
luce pura splendere del sole
un’altra
volta? Amico,
non
vagheggiare cose grandi mai.
Ma,
pur saggio come era,
due
volte, per volere della sorte,
il
fiume vorticoso,
l’Acheronte,
varcò; dolori immensi
il
re figlio di Crono
laggiù
gli diede da soffrire, sotto
la
nera terra. Ma i pensieri tristi
scacciamo,
finché giovani
siamo.
Bisogna questa volta ancora
bere,
e soffrire il male
che
ancora voglia il dio farci soffrire.
Mimnermo,
frammento 2 D
Noi
siamo come foglie, che la bella stagione
di
primavera genera, quando del sole ai raggi
crescono:
brevi istanti, come foglie godiamo
di
giovinezza il fiore, né dagli dei sappiamo
il
bene e il male. Intorno stanno le nere dee:
reca
l’una la sorte della triste vecchiaia,
l’altra
di morte. Tanto dura di giovinezza
il
frutto quanto in terra spande la luce il sole.
Ma,
quando questa breve stagione è dileguata,
allora,
anzi che vivere, è più dolce morire.
In
tanta mirabile compagnia ci sta bene un prodotto culturale, giovane e
leggero di musica, che tratta il tema del Tempo passato e tesse le
lodi del Tempo andato tra un amore che non può ritornare e il Tempo
che lo ha rubato e non te lo può restituire. Qualcuno dirà che ho
associato il sacro e il profano in questo sogno di Sabina e che ho
fatto i salti mortali per fare quadrare il Tutto.
Ha
perfettamente ragione, ma non potevo fare diversamente di fronte a un
sogno veramente originale e tanto ricco al punto di sembrare anomalo.
La canzone scelta è degli anni sessanta e si titola “Quelli erano
giorni” e ho scelto l’interpretazione di Mary Hopkin rispetto
alle altre e specialmente rispetto a quella di Dalida anche per
alleggerire il quadro.