A
fianco c’è un mio amico che dice che dobbiamo atterrare e indica una
piazza all’interno di una costruzione araba.
A
un certo punto sento di perdere quota e qualcuno mi dice : “Occhio
a non farti male”.
Capisco
che devo atterrare. Un senso di angoscia e di vuoto mi colpisce e mi
riporta alla luce le paure e le sensazioni di schiantarmi al suolo.
Cado
a terra e rimbalzo varie volte e vengo riportato verso l’alto per poi
schiantarmi ancora a terra rimbalzando nuovamente senza conseguenze
fisiche, ma con una grande angoscia.
Mi
sto preparando ad entrare in contatto con il suolo e ad essere
rimbalzato. Sta subentrando la sensazione d’angoscia, ma con grande
sorpresa riesco a fare un atterraggio perfetto in piedi senza cadere
e provando una grande gioia.
Ricordo
probabilmente che durante l’atterraggio ero appeso ad un grande
lenzuolo bianco che mi par di avere rilasciato durante
l’atterraggio.”
Questo
sogno è ascritto a un certo Darietto.
INTERPRETAZIONE
DEL SOGNO
“Volo
e passo attraverso le nuvole.”
Darietto
esordisce con la magica fantasia di librarsi nel cielo e di
volteggiare di nuvola in nuvola. La scena è tra le più semplici e
poetiche, appartiene al corredo dei desideri di libertà e di
leggerezza di ogni persona, possiede una notevole carica di
disimpegno e di autonomia psicofisica, è istruita a tutte le età e
si distribuisce nell’Immaginario collettivo come utopia fisica e
sociale, fisica perché è impossibile, sociale perché viviamo in
una mondo turbolento e a trazione anteriore. Darietto sogna la sua
difesa principale, il processo psichico della “sublimazione della
libido”, la sua tendenza a non coinvolgersi concretamente con i
suoi investimenti e di mettersi a disposizione degli altri con la sua
bontà e bonarietà. Darietto vive la sua carica erotica, la sua
ormonella per intenderci, trasferendola nelle azioni e nelle
disposizioni a vantaggio del prossimo sia per una paura della propria
“libido” e sia al fine di essere accettato e apprezzato dal
gruppo. Questo vantaggio secondario della “sublimazione” denota
un complesso di inferiorità e di inadeguatezza, una precisa
sensazione di essere soggetto di minor diritto e il figlio di un dio
minore. Questa è la traduzione dei simboli del “volare” e del
“passare attraverso le nuvole”. Darietto è un uomo poco
concentrato sul pezzo e poco concreto.
“A
fianco c’è un mio amico che dice che dobbiamo atterrare e indica una
piazza all’interno di una costruzione araba.”
“L’amico”
è il solito alleato psichico che Darietto si porta in sogno per
proiettare i suoi conflitti e i suoi “fantasmi”, per non
impattarsi direttamente con quelle parti problematiche di sé che
ancora non ha adeguatamente risolto. Inoltre l’amico caro serve per
continuare a dormire e a sognare. Si stempera l’angoscia e si rende
il materiale onirico gestibile per il sistema dinamico ed economico
della psiche. E’ un “amico” che ha le idee chiare e che detta i
tempi e le azioni, uno che comanda e non ci pensa due volte a essere
anche preciso: bisogna essere concreti, smetterla di sublimare,
bisogna incarnare la “libido” come natura comanda, bisogna
prendere coscienza della propria sensibilità e diversità, nonché
delle proprie difese dal coinvolgimento e dalla partecipazione.
L’amico di Darietto conosce bene la lezione e la recita in maniera
massimamente chiara a conferma che la pratica e la grammatica possono
essere in sintonia e viaggiare insieme senza particolari
idiosincrasie e pregiudizi. Il simbolo dell’atterraggio si risolve
nel processo psichico di difesa dall’angoscia della
“materializzazione”, il processo opposto della “sublimazione”.
Il primo indica il godimento della “libido” nella sua valenza
naturale e avulsa da coinvolgimenti sentimentali, il secondo è
permeato dall’amore verso il prossimo come vero servizio e
indirizzo. Darietto a un certo punto della sua esistenza decide di
vivere il suo corpo e il piacere collegato in prima persona e non per
riflesso della gioia altrui.
“A
un certo punto sento di perdere quota e qualcuno mi dice : “Occhio
a non farti male”.
Come
dicevo, Darietto nel cammin della sua vita prende coscienza che deve
anche pensare a se stesso e a soddisfare i suoi bisogni più genuini
e vitali senza ricorrere a surrogati psichici di compensazione
attraverso lo “spostamento” negli altri dei benefici delle sue
azioni. Il “perdere quota” è una vera psicoterapia e una
direzione esistenziale supportata dalla giusta filosofia di vita e
dal benefico amor proprio. Il “perdere quota” significa atterrare
e materializzare senza scadere in alcun volgare appagamento della
propria “libido”. A questo punto del sogno subentra l’istanza
psichica del “Super-Io” a limitare e a spegnere gli entusiasmi e
le intraprendenze di Darietto, si presenta un “qualcuno”
interiorizzato che minaccia e fa presente che il processo di
“materializzazione” può essere controproducente e può avere
effetti negativi. Si tratta degli insegnamenti morali e religiosi di
cui i bambini sin dalla tenera età sono bombardati fino al punto che
il loro animo si impregna di paure che possono nel tempo tralignare
in vere e proprie fobie. Questo “qualcuno” non è l’amico, ma è
il padre interiorizzato come divieto e dovere, limite e censura.
Darietto è in compagnia di se stesso, dell’amico- alleato e del
qualcuno-padre-Super-Io. In tanta solidarietà il sogno può
procedere con le sue turbolenze. In tre è meglio che in uno. Ma
quale danno può ricevere Darietto dall’esercizio del suo benessere
psicofisico e del suo amor proprio? E’ ovvio che si tratta delle
classiche paure di vivere il corpo e di affermarne i diritti, nonché
delle angosce di abbandono e di solitudine collegate alla delusione
indotta negli altri. Darietto conosce bene il processo di
“sublimazione della libido”, “volo e passo attraverso le
nuvole”, fa fatica a pensare al suo benessere come condizione dei
suoi slanci sociali anche benefici. Il proverbio antico professa che
se “sta bene la gallina, sta bene anche la vicina”. Procedere
nell’interpretazione del sogno diventa oltremodo interessante e
intrigante.
“Capisco
che devo atterrare. Un senso di angoscia e di vuoto mi colpisce e mi
riporta alla luce le paure e le sensazioni di schiantarmi al suolo.”
Darietto
ha preso coscienza della necessità, “devo”, di essere più
generoso con se stesso e con il motore vitale, la sua “libido”,
la sua energia, e che non può continuare a mettersi al servizio
degli altri e del loro benessere, ha ben capito che non deve sentirsi
inferiore e inadeguato rispetto agli altri. Darietto da creatura
angelica deve commutarsi in un corpo che sente e che vive, il suo
corpo, quel corpo che lo individua e lo sostiene con le mille
irripetibili caratteristiche che Darietto si trova addosso. Appena
l’Io indica la strada giusta, ecco che interviene l’Es e immette
nel circuito psicofisico “un senso di angoscia e di vuoto”, un
“fantasma” depressivo di perdita e di morte: “schiantarmi al
suolo”. Senza il servizio generoso e benevolo agli altri Darietto
non riesce a pensarsi e soprattutto non riesce a star bene, senza la
“sublimazione della libido” Darietto si sente vuoto e smarrito,
con la “materializzazione della libido” Darietto si sente privo
di vita e di vitalità, tutto il contrario delle leggi psicofisiche.
In sogno rievoca le sue angosce primarie, quelle che ha elaborato nel
primo anno di vita, quel “fantasma di morte” destato dalla
possibilità che la madre non lo accudisse e non appagasse i suoi
istinti e i suoi bisogni vitali: angoscia del vuoto interiore e della
morte da abbandono, la perdita di se stesso e della preziosa e
provvida figura materna. Darietto “riporta alla luce” della
coscienza dell’Io questo materiale psichico profondo e
progressivamente rimosso e che ha condizionato la sua formazione
psichica. Il sogno di Darietto tocca una punta veramente drammatica.
Legittimo è chiedersi, a questo punto, quali pesci il nostro eroe
andrà a pigliare per risolvere la tremenda situazione in cui si è
messo.
“Cado
a terra e rimbalzo varie volte e vengo riportato
verso l’alto per poi schiantarmi ancora a terra
rimbalzando nuovamente senza conseguenze fisiche, ma con una
grande angoscia.”
L’angoscia,
di cui ancora Darietto parla e che definisce “grande” come la
prima guerra mondiale, si trasforma in una farsa degna di un
formidabile pagliaccio e in un senso di meraviglia degno di un grande
illusionista. L’ilarità drammatica è inventata da Darietto come
un nuovo genere letterario nel teatro psichico del sogno. L’ironia
domina questa scena in cui l’attore protagonista si incarna e si
sublima come fosse un Cicciobomba che rimbalza a ogni caduta e ricade
a ogni rimbalzo, come un pagliaccio che ride e piange con la stessa
indifferenza di un attore asettico. Darietto soffre d’angoscia
senza “conseguenze fisiche”. In tanto “tira e molla” resta la
versione psichica dell’incolumità onnipotente e non si contempla
la logica e consequenziale versione fisica del farsi tanto male. Il
corpo è preservato dal danno, la mente non riesce a liberarsi del
carico emotivo legato al conflitto tra l’andare verso l’alto e lo
scendere in basso, tra la “sublimazione” e la
“materializzazione”, tra la strategia esistenziale di vivere il
corpo in prima istanza e del mettersi al servizio degli altri come un
solerte cameriere. Questo conflitto persiste perché Darietto non
accetta del tutto sia il corpo e sia la mente, non vive bene qualche
caratteristica fisica e qualche tratto psichico. “Schiantarmi
ancora a terra” non è carico di morte, è un’esagerazione
retorica. Questo punto del sogno è stracarico di enfasi.
“Mi
sto preparando ad entrare in contatto con il suolo e ad
essere rimbalzato. Sta subentrando la sensazione
d’angoscia, ma con grande sorpresa riesco a fare un atterraggio
perfetto in piedi senza cadere e provando una grande gioia.”
Darietto
è consapevole del suo deficit materiale e del suo eccesso
spirituale, sa di sé in concreto e in astratto, conosce la sua
tendenza al grasso e al magro. Conferma questa incapacità a
scegliere il suo bene semplicemente perché sta abbastanza bene nelle
due versioni. Gli manca quel salto di qualità che può cambiare il
suo stile di vita, di viversi e di relazionarsi. Ed eccola
l’auspicata conversione! Giustamente Darietto propende per la sua
materia vivente e atterra perfettamente in piedi e senza
sfracellarsi: “riesco a fare un atterraggio perfetto in piedi senza
cadere e provando una grande gioia”. Manca ancora qualche dettaglio
per stare bene e manca il chiarimento su tanto pregresso malessere:
cosa bloccava Darietto tra il cielo e la terra?
“Ricordo
probabilmente che durante l’atterraggio ero appeso ad un grande
lenzuolo bianco che mi par di avere rilasciato durante
l’atterraggio.”
Meraviglia
delle meraviglie!
Il
sogno è auto-diagnosi e auto-terapia, come sostengono anche i
seguaci della Psicologia della Gestalt. Darietto conosce la causa del
suo conflitto e del suo disagio esistenziale e relazionale proprio
perché se la porta dietro durante la caduta e se ne libera prima di
atterrare: il cordone ombelicale della madre o la dipendenza dalla
madre o la madre sotto forma di legame vitale. Il simbolo del “grande
lenzuolo bianco” dice chiaramente di questa distorsione psichica
relazionale che Darietto si porta dietro in tutto e per tutto, anche
quando vola per il cielo azzurro e s’impatta con le nuvole
traforandole. Questa dipendenza dalla figura materna non è per
niente “edipica”, non è legata al conflitto
“padre-madre-figlio”, ma è una dipendenza primaria e preedipica.
Darietto ha avuto oltremodo bisogno della madre sin dalla tenerissima
età a causa di qualche malattia o disturbo la cui terapia ha
rafforzato la presenza benefica e tutrice di cotanta figura. La
relazione è diretta e privilegiata a causa del protrarsi della
frequenza e della funzione taumaturgica. Il “grande lenzuolo
bianco” a cui Darietto è appeso durante la tormentata e struggente
caduta è l’oggetto transferale del bambino che condensa
magicamente la madre assente, rappresenta la possibilità e la
necessità di abbandonare il paracadute del legame materno al fine di
risolvere il suo conflitto psichico tra le opposte tendenze a
“sublimare” o a “materializzare”. Il meccanismo onirico della
“figurabilità” offre a Darietto il destro per rappresentare la
madre nella forma intima di un lenzuolo a cui si aggrappa e da cui si
stacca, almeno così gli sembra: “mi par di aver rilasciato durante
l’atterraggio”. Darietto non mette in scena la figura paterna e
alla fine presenta il conto alla madre a suo vantaggio e in
risoluzione di una psicodinamica che ha toccato punte anche
drammatiche in riguardo al bisogno di essere tutelato e accudito da
cotanta figura, la Madre.
L’interpretazione
del sogno inquieto di Darietto si può ritenere abbondantemente
conclusa con questa chiosa finale di esaltazione della figura materna
provvida e provvidente come la cristiana Madonna e come lo Spirito
santo.
la ringrazio per il suo lavoro. Io tento di interpretare i miei sogni che ricordo quando ogni giorno mi sveglio. A volte mi sembra di non avere molti strumenti e mi sembra di voler far emergere sempre un significato ottimista, pur rendendomi conto che dovrei evitare un giudizio di valore e limitarmi a comprendere il significato di ciò che ho sognato.
TRAMA DEL SOGNO
“Stanotte ho sognato che ero nella casa dei miei genitori e volevo fare sesso con un uomo. Lo facevamo sul letto della mia camera di adolescente e io godevo e poi lui veniva.
Pulivo lo sperma e mi rendevo conto che c’erano molte macchie sulle coperte e sui cuscini colorati. Le pulivo e poi mettevo tutto in lavatrice, sicura di nascondere ciò che avevo fatto a mia madre che appariva in lontananza mentre scendevo le scale. Avevo la consapevolezza che quello sperma fosse di mio fratello.
Il sogno poi cambia contesto.
Sono con i miei colleghi di lavoro e stiamo organizzando degli eventi per il giorno di Natale cui devono partecipare tutti. Questi eventi si svolgono in un luogo a me sconosciuto. Io non ho altri impegni per Natale, ma a un certo punto mi voglio defilare.
Mi ritrovo in un cerchio di persone, (appartenenti all’organizzazione che non è la mia, ma che coordina il progetto per cui lavoro), passo del tempo con loro, poi mi sento fuori luogo e me ne vado.
Nei giorni seguenti sono assegnata a un progetto coordinato da un mio collega (della mia organizzazione, che nella realtà è una persona ambigua, mi piace molto e mi sembra di essere ricambiata e che lui sia timido, ma non riesco bene a inquadrare che gioco faccia, sono diffidente), faccio un po’ di storie per alcune cose che non funzionano, ma poi sono soddisfatta della nostra collaborazione.
Scrivo alla mia azienda una mail con delle penne cancellabili rossa e blu (quelle che si usavano alle elementari, anche se è irreale scrivere una mail con la penna, le lettere e la scrittura in effetti sembrano appartenere ad un bambino), poi nell’aggiungere una seconda parte (questa volta scritta con la tastiera) la parte scritta a penna sparisce quasi tutta. Io continuo a scrivere la mail come se ci fosse quella parte, ma penso che forse è meglio che sia sparita.”
La ringrazio in anticipo.
Cari saluti da Luana
INTERPRETAZIONE DEL SOGNO
“Buongiorno,
la ringrazio per il suo lavoro. Io tento di interpretare i miei sogni che ricordo quando ogni giorno mi sveglio. A volte mi sembra di non avere molti strumenti e mi sembra di voler far emergere sempre un significato ottimista, pur rendendomi conto che dovrei evitare un giudizio di valore e limitarmi a comprendere il significato di ciò che ho sognato.”
Noi siamo i migliori interpreti dei nostri sogni quando abbiamo alle spalle una formazione e un allenamento psicoanalitici, quando ci diamo del tu con i simboli, quando sappiamo guardarci dentro senza censure e con spregiudicatezza. Comunque, preferiamo che sia un altro a cogliere il nucleo significativo del sogno, ma sappiamo all’ingrosso di che si tratta. Per capire l’arcano basta enucleare il simbolo portante, decodificarlo e coniugarlo con gli altri simboli. Il resto viene da sé e con l’aiuto della memoria. Chi ha tanto censurato la sua persona fa più fatica a ritrovarsi nei suoi prodotti psichici, ma chi ha dimestichezza con il suo mondo interiore riesce senza dubbio a percepirsi e a migliorarsi.
E per ovviare all’ignoranza dei simboli, consiglio di enuclearli e di scriverli nello spazio in alto a destra del blog, sezione “sogni interpretati”, e di leggere le interpretazioni dei sogni degli altri marinai che si sono prestati a essere filtrati e purificati dal lavoro gradevole e gratificante del sottoscritto.
“Stanotte ho sognato che ero nella casa dei miei genitori e volevo fare sesso con un uomo. Lo facevamo sul letto della mia camera di adolescente e io godevo e poi lui veniva.”
Quando l’uomo con cui si fa sesso non si vede in faccia, trattasi quasi sempre della figura paterna e della “posizione psichica edipica”. La “camera di adolescente” attesta di un desiderio sessuale del periodo adolescenziale di Luana che trova nel padre il partner naturale e fascinoso. L’attrazione edipica è forte, così come forte è la “posizione genitale”, “io godevo e poi lui veniva”. La ragazzina ha sviluppato la conflittualità psichica, naturale e formativa, con i genitori, per evolversi a livello psicofisico mettendo insieme le pulsioni narcisistiche con le trasgressioni edipiche e con la sua vocazione di donna senza inibizioni e particolarmente facile all’eccitazione e al piacere. Riepilogo: desideri sessuali e pulsioni edipiche trovano il loro compimento naturale senza censure morali e sociali. Luana cresce e cresce bene, almeno per questo primo capoverso del sogno.
“Pulivo lo sperma e mi rendevo conto che c’erano molte macchie sulle coperte e sui cuscini colorati. Le pulivo e poi mettevo tutto in lavatrice, sicura di nascondere ciò che avevo fatto a mia madre che appariva in lontananza mentre scendevo le scale. Avevo la consapevolezza che quello sperma fosse di mio fratello.”
Si sa che la norma evolutiva esige limiti e inibizioni per non cadere nell’onnipotenza del “fratturando”, (persona che tende a farsi male), per cui i sensi di colpa di Luana ci stanno benissimo e non come i cavoli a merenda. Le “molte macchie sulle coperte e sui cuscini colorati” rappresentano simbolicamente i sensi di colpa legati alla vitalità sessuale e alle fantasie erotiche. “Lo sperma” condensa la sessualità “genitale” e donativa, generosa verso se stessi e verso gli altri, il dono di madrenatura funzionale al piacere, la “libido” vissuta in relazione all’altro. “Pulivo” è il classico atto di “catarsi”, purificazione, del senso di colpa. Luana assolve il suo erotismo e la sua sessualità adolescenziale riferita al desiderio dell’altro e non vissuta in maniera solipsistica e narcisistica. La “madre” rappresenta la “censura” della vitalità erotica e sessuale, l’inibitrice della libido, ma in effetti è il “Super-Io” di Luana che impone limiti e censure nel vivere il proprio corpo e i suoi bisogni, le pulsioni e gli istinti. “Scendevo le scale” simboleggia la “materializzazione” e la fine della “sublimazione” sempre della “libido”. Luana è cresciuta e può gestire le sue “lavatrici” sia nelle fantasie, nei pensieri e nelle opere. “Avevo la consapevolezza” attesta della presa di coscienza e della “razionalizzazione” sempre della vita sessuale e della vitalità erotica. Luana è soggetto di diritto sessuale a tutti gli effetti e la sua sessualità è “genitale”, rivolta all’altro e investita sull’oggetto maschile, il “fratello”.
“Il sogno poi cambia contesto.”
Può darsi, ma non sempre è così. Il sogno cambia simboli, “contesto”, pur sviluppando la stessa psicodinamica. Vediamo se questa regola vale anche per il sogno di Luana.
“Sono con i miei colleghi di lavoro e stiamo organizzando degli eventi per il giorno di Natale cui devono partecipare tutti. Questi eventi si svolgono in un luogo a me sconosciuto. Io non ho altri impegni per Natale, ma a un certo punto mi voglio defilare.”
Luana ha le sue predilezioni per quanto riguarda gli uomini e le situazioni sociali, le persone e le relazioni. “Evento” sa di happening, sa di costruzione di una psicodinamica amorosa che esclude la folla e i convenevoli formali. “Natale” rappresenta la festa della famiglia e degli affetti collegati. Luana ha superato questa fase della sua esistenza e convivenza, è adulta e aspira a ben altre situazioni e combinazioni. “I colleghi di lavoro” rappresentano persone poco importanti e stimolanti per una donna in vena di vivere la sua libido e la sua sessualità con un uomo. Anche se in apparenza il “luogo è sconosciuto” e se “non ha altri impegni”, Luana si vuole defilare dall’anonimato per andare alla ricerca dell’eccitante e del proibito.
“Mi ritrovo in un cerchio di persone, (appartenenti all’organizzazione che non è la mia, ma che coordina il progetto per cui lavoro), passo del tempo con loro, poi mi sento fuori luogo e me ne vado.”
Quante volte a Natale si pranza con i nostri cari e poi, espletato il rito o il dovere, si va a trovare l’amico o l’amica, la persona che ci intrippa e rende la giornata più intrigante ed eccitante. “Cerchio di persone”, “organizzazione che non è la mia, ma che coordina il progetto per cui lavoro” sono chiaramente la famiglia di provenienza da cui si esula al tempo giusto e di cui non si condivide tutto per poter essere anche innovatori. Devo andare, faccio gli auguri e vado a trovare la persona giusta per me: così dice Luana a se stessa in sogno e nella veglia. Dopo il dovere si passa al piacere.
“Nei giorni seguenti sono assegnata a un progetto coordinato da un mio collega (della mia organizzazione, che nella realtà è una persona ambigua, mi piace molto e mi sembra di essere ricambiata e che lui sia timido, ma non riesco bene a inquadrare che gioco faccia, sono diffidente), faccio un po’ di storie per alcune cose che non funzionano, ma poi sono soddisfatta della nostra collaborazione.”
La “persona ambigua” è la stessa “parte” di Luana che trama per il godimento della sua persona e delle sue relazioni affettive, erotiche e sessuali. Luana seduce se stessa e traduce in sogno le sue arti magiche di conquista. Questo capoverso è un breve inno al narcisismo della protagonista, una donna complessa ma non complicata, una buona e brava attrice di se stessa e del suo copione preferito: la seduzione e i preamboli erotici. Si piace, è una falsa timida, è diffidente, le piace menare il gioco facendo finta di non capire.
Brava Luana!
“Scrivo alla mia azienda una mail con delle penne cancellabili rossa e blu (quelle che si usavano alle elementari, anche se è irreale scrivere una mail con la penna, le lettere e la scrittura in effetti sembrano appartenere ad un bambino), poi nell’aggiungere una seconda parte (questa volta scritta con la tastiera) la parte scritta a penna sparisce quasi tutta. Io continuo a scrivere la mail come se ci fosse quella parte, ma penso che forse è meglio che sia sparita.”
Luana è adolescente e giovane donna allo stesso tempo. La simultaneità è permessa dalla psicodinamica onirica e dai meccanismi del sogno. E’ alle scuole elementari ed è davanti al suo computer di donna in carriera nell’azienda in cui lavora con tanto di colleghi e di intrallazzi erotici e amorosi, come si usa nei migliori Group del globo terracqueo. Ma Luana è cresciuta anche se mantiene dentro la sua adolescenza con tutte le ricchezze e i tormenti di quell’età. Nell’età adulta noi siamo il migliore precipitato psicofisico di quella avventura titanica, una psiche da bambina in un corpo di donna. A questo punto è meglio che Luana si ricomponga nella persona adulta che ama e cura la sua bambina dentro, che non disdegna e non dimentica, che sa oscillare nel tempo con la grazia e la delicatezza di una mail scritta con la “penna cancellabile rossa e blu”.
L’interpretazione è finita e si può essere fieri di questo vitale travaglio.
“Ho sognato di iscrivermi a una scuola di arte per artisti che usano la tecnica del morso per produrre le proprie opere.
Nel cortile della scuola c’era la scultura di un grande albero di marmo morsicato da una artista famosa del morso. Lì, sotto l’albero, gli insegnanti ci facevano un test d’ingresso di gruppo in cui dovevamo morsicare una maglietta semplice di un bellissimo tessuto viola chiaro e farne un capo artistico.
Allora tutti davamo dei morsi e notavo che il tessuto sotto i miei denti si tagliava facilmente come fossero forbici. Alla fine, aggiustando gli angolini del morso più volte, facevo una mezzaluna non perfetta ma con una bella forma. Intanto sentivo dire da una insegnante che era normale dover morsicare più volte per fare un buon lavoro e che per chi aveva una dentatura perfettamente dritta era più facile.
Alla fine tutti presentavamo il progetto agli insegnanti e venivamo ammessi a pieni voti.
Subito iniziavano le lezioni in cui ci esercitavamo a produrre mordendo diversi materiali come il legno, il marmo, il mio preferito era il marmo.
Ad un certo punto mi prendo il tempo di fare un bel disegno a mano di due donne che lavorano con delle reti su una barca nel mare di notte.
Ad un certo punto mi prendo il tempo di fare un bel disegno a mano di due donne che lavorano con delle reti su una barca nel mare di notte.
Mi diverto molto nella scuola e sono molto brava, tutti apprezzano tanto la mia arte, in particolare un professore ciccione che però un giorno mi chiude in un frigorifero perché davo fastidio e disturbavo la classe. Comunque nel frigorifero non ci stavo e continuava ad aprirsi così io uscivo.
Alla fine del sogno c’era una scena strana. In un salotto c’era seduto su una poltrona un vecchio miserabile con lo sguardo perso e su un’altra poltrona di fronte un bambino che diceva: “non potete impedire al nonno di mettere le sue palline in faccia alla nonna”.
Poi mi sono svegliata.”
Questo originale sogno è opera di Koncetta.
INTERPRETAZIONE DEL SOGNO
“Ho sognato di iscrivermi a una scuola di arte per artisti che usano la tecnica del morso per produrre le proprie opere.”
La creatività umana non ha limiti e censure. La Bellezza si eleva anche dalla bocca e trova nei denti lo strumento idoneo: questo è il “novum organon” imprevisto e imprevedibile dell’Estetica contemporanea e d’avanguardia.
Al meglio e al nuovo, per fortuna, non c’è mai fine e ostacolo.
Koncetta c’è, Koncetta esiste, Koncetta sta insieme agli altri e alla grande. Ha bisogno di esprimere la sua vena artistica, sente la Bellezza dentro e la vuole comunicare in una forma originale: l’aggressività maturata durante la “posizione psichica anale”.
Koncetta è una donna che non te le manda a dire le cose, Koncetta è una donna che fa le cose e le fa in maniera decisa e affermativa, quasi come se venisse fuori da una storia di costrizione e di forzata passività, da uno stato di inedia e d’inferiorità, da una coazione all’immobilismo psicofisico, da una serie di complessi di inferiorità e di blocchi psichici, da un carcere del corpo e della mente.
Koncetta vuole riscattarsi da cotanta disgrazia fisica e soprattutto psichica, assumendo sulle sue spalle quel giusto e degno “amor fati”, amore del proprio destino, e ha scelto il veicolo estetico per manifestare il suo mondo profondo. La sua epifania interiore esige una buona dose di aggressività.
Mettiamola come vogliamo, ma abbiamo a che fare con la “posizione psichica anale” e con le pulsioni sadomasochistiche che la contraddistinguono.
“Nel cortile della scuola c’era la scultura di un grande albero di marmo morsicato da una artista famosa del morso. Lì, sotto l’albero, gli insegnanti ci facevano un test d’ingresso di gruppo in cui dovevamo morsicare una maglietta semplice di un bellissimo tessuto viola chiaro e farne un capo artistico.”
Koncetta ha dentro i suoi modelli e i suoi maestri, pardon la sua maestra, “una artista famosa del morso”, che addirittura morde il marmo con i suoi denti umani e di pura dentina. “La scultura di un grande albero di marmo” è il simbolo un padre anaffettivo e freddo o di una persona altrettanto anaffettiva e fredda. “Nel cortile della scuola” ci sono i bambini e le bambine, c’è la futura artista che diventerà famosa nella tecnica del morso: una bambina veramente aggressiva verso un padre fortemente anaffettivo oppure c’è una bambina che vede se stessa in questa drastica dimensione psichica di freddezza affettiva. Si tratta sicuramente di una “proiezione” nel marmo di parti psichiche della nostra protagonista, di Koncetta per l’appunto. E proprio e ancora per l’appunto sotto l’albero compaiono tanti genitori nella veste di insegnanti per propinare un test d’ingresso nel gruppo familiare con l’attributo affettivo di una “maglietta semplice” da mordere “per farne” un capolavoro di bellezza, “per farne un capo artistico”. Koncetta coniuga la sfera affettiva con la sfera estetica, i sentimenti d’amore con l’aggressività ferina del morso. Insomma, è oltremodo evidente che Koncetta sublima con la Bellezza e l’Arte la sua aggressività spostandola sull’oggetto grezzo da elaborare secondo i canoni della tecnica in voga. “Il bellissimo tessuto viola chiaro” sa tanto di sacro, come il morso sa tanto di sacrilego. Koncetta sta riesumando in sogno la lezione sull’affettività che ha ricevuto in famiglia e la descrive, meccanismo onirico della “figurabilità”, ammantata di bellezza, “sublimazione”, senza trascurare la forte carica aggressiva che è implicita nella formazione psichica maturata in famiglia.
“Allora tutti davamo dei morsi e notavo che il tessuto sotto i miei denti si tagliava facilmente come fossero forbici. Alla fine, aggiustando gli angolini del morso più volte, facevo una mezzaluna non perfetta ma con una bella forma. Intanto sentivo dire da una insegnante che era normale dover morsicare più volte per fare un buon lavoro e che per chi aveva una dentatura perfettamente dritta era più facile.”
“Oralità” e “analità” si sposano senza stridore nel sogno di Koncetta. Affettività e aggressività vanno a braccetto in questo quadro che sublima sempre più la situazione psichica e lo status esistenziale di Koncetta. I morsi, il tessuto, le forbici, la mezzaluna, l’insegnante che dice a tutti quelli che in un modo o nell’altro scatenavano la loro aggressività sublimando il sadomasochismo in “un buon lavoro” artistico.
Quanta aggressività si purifica nell’Arte, nella Religione, nella Morale, nell’Etica!
Quanta aggressività si sublima nella Guerra e nella Politica!
Koncetta sta sognando la sua dimensione psichica affettiva e sadomasochistica, “posizione orale e anale”, sublimandole nella Bellezza di un capolavoro estetico. Nella realtà corrente Koncetta sta rievocando la sua famiglia, la sua vita affettiva, la sua infanzia, la sua aggressività e, nel comporre umanamente tanto materiale vissuto, si serve del processo psichico della “sublimazione” dell’istinto nella Bellezza, nella dimensione estetica, nell’Arte. La “mezzaluna non perfetta” ricorda le origini etniche della nostra protagonista che è sempre più combattuta tra l’accettazione il rifiuto, tra la comprensione e il rigetto. Alla fine trova nella categoria della Bellezza la conciliazione etica dei suoi vissuti infantili: la sua affettività, la sua aggressività, la sua soccombenza, la sua rabbia trovano finalmente la giusta soluzione di convivenza. In tutto questo materiale composto inerisce “una insegnante”, mater et magistra, che spiega e induce all’uso dei denti nel migliore dei modi e secondo l’effetto estetico più “dritto”.
“Alla fine tutti presentavamo il progetto agli insegnanti e venivamo ammessi a pieni voti.”
In questo modo Koncetta è cresciuta e si è evoluta in un contesto familiare e sociale dove l’aggressività è stata sublimata con la Bellezza e giustificata eticamente con la stessa moneta estetica. Il “progetto” è quello di vita, un buttarsi avanti antidepressivo e vitale. Non c’è spazio per la passività in questo universo onirico di Koncetta, così come ci sono sempre figure che insegnano e gratificano, esigono e riconoscono. Siamo all’interno di una comunità islamica dove il sacro si mescola e si coniuga con il rigore e non ha il sapore dell’acqua di rosa.
“Subito iniziavano le lezioni in cui ci esercitavamo a produrre mordendo diversi materiali come il legno, il marmo, il mio preferito era il marmo.”
La vita è dura e l’esercizio del vivere è arduo semplicemente perché devi difenderti dalle insidie sociali, dalle minacce della gente, dai pregiudizi e da tutto quel materiale culturale e ideologico che rende travagliata la convivenza. Koncetta ha imparato a “mordere la vita” nelle sue varie sfaccettature e qualità, ma soprattutto si è istruita, suo malgrado, a sublimare le relazioni affettive più dure, “il marmo”, è stata costretta a dare forma ai bisogni umani di solidarietà e alle emozioni sottili di condivisione. Tutto il quadro resta dentro una cornice di magnifica “sublimazione” dell’aggressività. E così la vita va e la nave può attraversare l’oceano o il mare mediterraneo.
“Ad un certo punto mi prendo il tempo di fare un bel disegno a mano di due donne che lavorano con delle reti su una barca nel mare di notte.”
Come dicevo in precedenza, Koncetta non è estranea ad avventure di sopravvivenza esistenziale psicofisica, ha dovuto affrontare pericoli insieme a un’altra donna “su una barca nel mare di notte”, ha dovuto duplicarsi e raddoppiarsi e scindersi per essere più forte, ha sublimato con “un bel disegno a mano” la complicazione dei suoi pensieri e dei suoi vissuti nelle circostanze in cui l’hanno vista protagonista di situazioni oltremodo complesse e complicate. Koncetta non si è persa d’animo anche nelle solitudine affettiva perché ha trovato dentro di lei la disposizione a usare il processo della “sublimazione” degli affetti e delle angosce collegate nella Bellezza, nel versante estetico a lei congeniale, non per studi effettuati all’università del Cairo, ma semplicemente per sua sensibilità evoluta e acquisita. Le “reti” sono il complesso dei ragionamenti che Koncetta ha elaborato sempre secondo canoni di accettazione e sopportazione che trovano nella Bellezza il giusto accomodamento umano ed esistenziale.
“Mi diverto molto nella scuola e sono molto brava, tutti apprezzano tanto la mia arte, in particolare un professore ciccione che però un giorno mi chiude in un frigorifero perché davo fastidio e disturbavo la classe. Comunque nel frigorifero non ci stavo e continuava ad aprirsi così io uscivo.”
Koncetta è abituata all’aggressività sublimata e alla freddezza affettiva, è “molto brava” perché è cresciuta in contesti familiari di quel calibro e ha vissuto le esperienze sociali di quella qualità. Da questi ricoveri così problematici si è sempre difesa con la “sublimazione” dell’aggressività e la “conversione” estetica della sua rabbia, la Bellezza e le sue cariche. Il “professore ciccione” condensa una figura maschile anaffettiva dalle cui mire Koncetta ha saputo districarsi e sulla quale ha saputo esercitare ironia e distacco. Koncetta non è fatta di quella pasta e sa stare nella sua famiglia e nella sua società anche non condividendola. Appare sempre nel sogno una grande capacità di adattamento e un desiderio di fuga da quegli ambiti angusti e da quei contesti competitivi. Koncetta ha accettato le sue fredde radici e se ne è voluta staccare con l’ironia della “sublimazione”: “nel frigorifero non ci stavo e continuava ad aprirsi così io uscivo”. Attenzione al “professore ciccione” che può essere anche la “condensazione” di una madre fredda.
“Alla fine del sogno c’era una scena strana. In un salotto c’era seduto su una poltrona un vecchio miserabile con lo sguardo perso e su un’altra poltrona di fronte un bambino che diceva: “non potete impedire al nonno di mettere le sue palline in faccia alla nonna”.
Arriva “alla fine del sogno la scena strana”, quella che funge da chiave di volta per la comprensione del prodotto psichico di Koncetta. Si tratta della “scena primaria” del coito tra i genitori immaginato dalla figlia e si tratta anche del trauma di aver assistito al rapporto sessuale dei genitori. Koncetta ha elaborato e subito queste scene senza avere gli strumenti razionali per comprenderle e giustificarle, per sistemarsele dentro: “non potete impedire”. Il “vecchio miserabile con lo sguardo perso” è la versione negativa della figura paterna e maschile in generale nella disposizione sessuale e deprivata d’affetto. Potevo intitolare il sogno di Koncetta “le palline del nonno in faccia alla nonna”, ma ho preferito mettere in risalto la “sublimazione” a cui è stata costretta dalla sua sensibilità di bambina che assiste a scene di ordinaria violenza in certi contesti familiari e sociali particolarmente anaffettivi.
Questo è in abbondanza quanto dovuto al sogno di Koncetta.
L’universo psicofisico femminile incorre nella sua evoluzione in un drammatico processo di perdita della fertilità e matura naturalmente una crisi, sempre evolutiva, riesumando quel “fantasma depressivo” elaborato e incamerato sin dal primo anno di vita e rinforzato nel corso della formazione psichica in base alle modalità originali di viversi e di vivere le varie esperienze. Essendo un processo biologico, importante anche nella sua drasticità, la Psiche femminile è costretta a reagire in maniera altrettanto decisa e istruisce i “meccanismi di difesa” atti alla risoluzione della crisi psicofisica scegliendoli naturalmente tra quelli più idonei e secondo la “organizzazione psichica reattiva” maturata: struttura psichica in atto e sempre in evoluzione. La “razionalizzazione” e la “sublimazione” sono i meccanismi psichici di difesa dall’angoscia più ricorrenti e meno dolorosi. La perdita del potere femminile di procreare, madre, esige una compensazione psicofisica adeguata e una riformulazione della vita erotica e sessuale, femmina. Paradossalmente la donna acquista una migliore “coscienza di sé” in questo momento di crisi. Liquidato definitivamente il lutto delle mestruazioni, la donna si colloca nei riguardi del maschio in maniera autonoma e competitiva, tirando fuori schemi mentali e valori culturali, virtù e tendenze, tratti e profili che in passato erano rimossi o abbozzati. Costretta all’evoluzione la donna si rivolge al maschio con la giusta pulsione aggressiva, ritenendolo anche la causa della sua parziale realizzazione in altri ambiti e della sua relegazione in settori socio-culturali ristretti. Esemplifico i meccanismi di difesa della menopausa. Il “fantasma di perdita” è depressivo e l’angoscia intrinseca si può risolvere secondo i seguenti processi e meccanismi. La “rimozione” non funziona bene dal momento che l’evidenza della perdita della fertilità vince sulla parziale dimenticanza. La “regressione” e la “fissazione”, il passaggio da uno stadio evoluto e in atto a uno stadio precedente (orale, anale, fallico-narcisistico, edipico e genitale), è spesso usato ed è pericoloso. “L’isolamento”, scissione dell’angoscia di perdita dalla consapevolezza, è ricorrente ed è pericoloso. La “razionalizzazione” del carico emotivo, è auspicabile e completa l’opera di consapevolezza in base al “principio di realtà”. La “razionalizzazione” patologica, “intellettualizzazione”, formare un delirio paranoico, è pericolosa e rara.
“L’annullamento”, convertire l’angoscia in maniera accettabile tramite un rito o una sequela di azioni, è possibile. Il “volgersi contro il sé”, vivere la perdita come espiazione di un senso di colpa, è frequente. Lo “spostamento”, traslare l’angoscia dalla menopausa ad altro oggetto, è frequente. La “formazione reattiva”, convertire l’angoscia in un sentimento positivo, è possibile e ricorrente. La “messa in atto”, reagire all’angoscia con l’azione, è frequente. La “sessualizzazione”, reagire all’angoscia con un investimento di libido ossia accrescere la vita sessuale, è possibile. La “sublimazione”, conversione benefica e socialmente utile dell’angoscia, è frequente. Questa sintesi meriterebbe un approfondimento e mi riprometto di tornare su questo delicato argomento. Bisogna ribadire che alla menopausa le donne reagiscono soprattutto in base alle “organizzazioni psichiche reattive” che hanno evolutivamente maturato. La “orale” tende all’isteria, converte l’angoscia di perdita secondo l’ordine affettivo ed emotivo. La “anale” tende al sadomasochismo e converte l’angoscia di perdita in un danno da infliggere e in una colpa da espiare. La “fallico-narcisistica” tende all’auto-gratificazione e converte l’angoscia di perdita in una forma di potere e di privilegio. La “edipica” tende alla conflittualità e oscilla tra l’accettazione della perdita e la ribellione a un evento vissuto come ingiusto. La “genitale” tende all’accettazione realistica e converte l’angoscia nella consapevolezza e nell’utilità che la situazione biologica comporta.
“Ero su un sentiero vicino a casa mia con mia mamma.
Ad un certo punto è iniziata la salita. Mia mamma si arrampicava senza problemi. Io ero titubante, non lo avevo mai fatto.
Inizio a fare presa sulla roccia e vedo che è morbida. Era molto scura. Inizio ad arrampicarmi seguendo mia mamma.
La rupe finiva nella sala che ho al piano di sopra. Non riuscivo a tenermi bene, mi aggrappavo a mia mamma.
Poi sono riuscita a salire. Mi ricordo che a casa c’erano mio papà e mio fratello maggiore.
Vedevo tutto nero guardando giù dalla rupe, era altissima. Ho pensato mi ammazzo, la faccio finita.
Mi sono svegliata con un’angoscia mentale”.
Rebecca
INTERPRETAZIONE DEL SOGNO
“Ero su un sentiero vicino a casa mia con mia mamma.”
Il sogno si apre con la diade “madre-figlia”. Niente di male, purché non sia una simbiosi. Il sogno si apre con “un sentiero”. Niente di male, purché non sia il sentiero della mamma. Il sogno si apre con “vicino a casa mia”. Niente di male, purché non sia la casa della mamma adattata dalla figlia, purché ci sia la giusta “identificazione” e non l’errata commistione che fomenta soccombenza e dipendenza dalla figura materna. Rebecca si sta dicendo in sogno di essere molto legata alla madre e di percorrere un tratto di vita al suo fianco e in sua compagnia. Rebecca esalta la voce latina “mater et magistra”.
“Ad un certo punto è iniziata la salita. Mia mamma si arrampicava senza problemi. Io ero titubante, non lo avevo mai fatto.”
Il sogno precisa la psicodinamica “madre-figlia” e afferma che in questa situazione esistenziale è in atto il processo psichico di difesa dall’angoscia della “sublimazione della libido”, della nobilitazione degli investimenti erotici e sessuali, delle energie psicofisiche in generale, da parte della figlia. Questa modalità viene “proiettata” da Rebecca nella madre, per rassicurare se stessa con la compagnia e con l’uso dello stesso processo psichico di difesa. Madre e figlia condividono il modo di procedere lungo il sentiero della vita e di risolvere le energie vitalistiche, le pulsioni erotiche e sessuali. La mamma si arrampicava meglio nei vissuti della figlia in grazie al suo essere una donna navigata e con le esperienze giuste alle spalle per poter contenere le spinte e le contro-spinte psicofisiche. Giustamente ancora Rebecca, giovane donna, ha qualche perplessità organica, più che mentale, a usare lo stesso processo di “sublimazione della libido”, semplicemente perché gli ormoni non sono acqua fresca alla sua età. Rebecca deve fare molta attenzione a non usare processi e meccanismi psichici di difesa incongrui. Meglio vivere quel che si deve vivere al momento giusto, meglio conoscersi, piuttosto che rimandare nel tempo le esperienze a forte carico formativo.
“Inizio a fare presa sulla roccia e vedo che è morbida. Era molto scura. Inizio ad arrampicarmi seguendo mia mamma.”
Rebecca elabora in sogno attraverso i suoi simboli il lungo processo di “identificazione” al femminile nella figura materna, al fine di acquisire nei termini definiti ma non rigidi la sua “identità” psichica di donna con le dovute distinzioni dalla madre. La “sublimazione della libido” non trova la “roccia” dura come quella della madre, la sua roccia “è morbida” e Rebecca ne ha consapevolezza, “vedo”. La solidarietà con la madre non viene meno, così come la sua “identificazione”, Rebecca rileva la consistenza della “libido” nel corpo, un corpo “scuro” a testimonianza della sua sanguigna vitalità e della forza che circola. Il problema subentra nella scelta del processo psichico della “sublimazione della libido” che, alla sua età e per quanto detto dallo stesso sogno, non va bene. E’ preferibile vivere il corpo, piuttosto che mandarlo in bianco, stornare le energie ad altro uso e consumo, debellare la carica erotica e sessuale per destinarla a fini di solidarietà e di passioni socialmente consentite, come lo sport o il volontariato. Seguire la mamma è importante, ma è determinate lasciarla andare per maturare la propria autonomia psicofisica. La simbiosi c’è stata e in primo luogo era organica, di poi è stata psichica, adesso deve essere di riconoscimento non soltanto della madre, ma anche del padre per quel che riguarda l’eredità della “parte psichica maschile”. “Seguendo la mamma” va commutato in “riconoscendo la mamma”.
“La rupe finiva nella sala che ho al piano di sopra. Non riuscivo a tenermi bene, mi aggrappavo a mia mamma.”
Rebecca non era andata tanto lontano se era arrivata appena al primo piano della sua casa, nella sala, nel luogo degli incontri e delle relazioni, nel reparto dei convegni familiari e delle solidarietà, nella piazza dove si celebra l’unità democratica della famiglia. Il luogo è relativamente alto, ma in ogni caso è un luogo sublimato, sacro per l’appunto. Rebecca ha una buona dipendenza psichica dalla figura materna, se ancora sente il bisogno di stare sul groppone della madre, di tornare nel grembo, di procedere in una simbiosi regressiva che annulla l’autonomia ed esalta la dipendenza psicofisica. Rebecca in crisi “non riusciva a tenersi bene” alla rupe e si aggrappava alla madre, non riusciva a vivere la sua autonomia e aveva bisogno dell’ausilio e dell’appoggio di questa figura così importante e determinante per tutti i figli. Per fortuna che la famiglia non è fatta di sola madre. La Provvidenza dispone per l’emancipazione psicofisica di Rebecca da cotanta madre.
“Poi sono riuscita a salire. Mi ricordo che a casa c’erano mio papà e mio fratello maggiore.”
La famiglia classica è al completo: il padre, la madre, la figlia e il figlio. Meglio di così non si può. Ci sono tutte le combinazioni democratiche nella divisione del potere e nello scambio delle idee, nel confronto e nella dialettica. Ci sono tutti gli stimoli per socializzare e per essere anche dei buoni cittadini. Rebecca è in una botte di ferro, la sua evoluzione psichica ha tutte le componenti atte a una crescita omogenea ed equipollente. Eppure, rovesciando la medaglia, ci si imbatte nel “sentimento della rivalità fraterna” e nella conflittualità della “posizione edipica” che è critica quando non viene risolta e liquidata nei tempi giusti, quando il padre e la madre non vengono riconosciuti come i simboli concreti delle proprie origini appena chiusa l’adolescenza. E forse su questo punto Rebecca accusa una falla. La dipendenza dalla madre è uno strascico della “posizione edipica” e questo attaccamento si legge come un’alleanza con il nemico che le consente di non vivere apertamente la conflittualità e i sensi di colpa collegati al sentimento di avversione nei confronti della madre. Rebecca persiste nel suo processo di “sublimazione della libido”, “sono riuscita a salire”, e considera distrattamente la presenza di due persone che sono i poli di altri conflitti, la ragione di questo attaccamento morboso alla madre: il padre per la persistenza della conflittualità “edipica” e il fratello maggiore per lo struggimento del “sentimento della rivalità”. Così come per “par condicio” si deve ricordare il sentimento di quest’ultimo che si è visto capitare tra capo e collo una sorella con cui dividere, più che condividere, l’amore dei genitori. Rebecca in sogno ha ricomposto la famiglia e si attende uno sbocco chiarificatore, se non risolutivo.
“Vedevo tutto nero guardando giù dalla rupe, era altissima. Ho pensato mi ammazzo, la faccio finita.”
La situazione psichica di Rebecca sembrava in via di risoluzione grazie alla definizione composta anche se affettivamente distaccata che aveva dato del resto della famiglia. L’averli riconosciuti lasciava sperare in una buona “presa di coscienza” e dava adito a una dialettica emotiva con la madre in via di raffreddamento. Invece, il quadro onirico finale diventa “nero”, non nel senso di luttuoso, ma “nero” nel senso della perdita affettiva, nel senso dell’angoscia della perdita affettiva. La rupe “altissima” comporta un drammatico distacco affettivo dalla madre, il “guardando giù” si traduce nella coscienza della perdita, il “vedevo tutto nero” condensa una consapevolezza del forte legame e della dipendenza. Rebecca può giustamente riflettere e pensare, non di suicidarsi buttandosi giù dalla rupe altissima, ma di cosa comporta il distacco dalla madre, la morte psichica, la depressione e la solitudine: ah, se non ci fosse la mamma, sarei una donna morta! “La faccio finita” è l’equivalente del concetto di “compimento delle sacre Scritture”, dalla massima consapevolezza si può procedere ad abbracciare la fede giusta del lungo cammino verso l’autonomia e la realizzazione del tanto temuto distacco. Rebecca può iniziare la sua crescita personale. Questo punto risolutivo comporta il rivivere l’angoscia depressiva di perdita, il nucleo psichico del primario “fantasma di morte” proprio legato alla figura materna. Rebecca conferma le teorie al proposito e la psicodinamica del suo sogno non fa una grinza alle teorie di Melanie Klein sul mondo psichico infantile.
“Mi sono svegliata con un’angoscia mentale”.
Ed ecco la conferma all’interpretazione del sogno, un prodotto che nella formulazione è più drammatico rispetto al contenuto. Rebecca sembrava destinata al suicidio con questo suo volersi buttare giù dalla rupe e farla finita e invece il dottor Vallone dice che Rebecca non è candidata a niente di tragico semplicemente perché scrive lei stessa che si tratta di “un’angoscia mentale”. Quella che viveva al risveglio non era angoscia allo stato puro, ma un fortissimo dolore per l’eventuale perdita della madre e per la sua solitudine. L’angoscia non ha un oggetto di cui il soggetto è consapevole. Questo dato caratteristico è essenziale. Rebecca chiama la sua consapevole paura angoscia. Proprio perché la paura è un fatto mentale ed emotivo, proprio questa definizione di Rebecca conforta nell’asserire che la paura anche se fortissima è il punto di partenza per la strada della crescita e dell’emancipazione. Siamo in un ambito psiconevrotico con qualche punta borderline, ma siamo nel dominio della coscienza e delle attività dell’Io. La diatriba, eventualmente, bisogna buttarla dalla parte nevrotica e non dalla parte psicotica. Del resto, Rebecca ha evidenziato una “organizzazione psichica reattiva” nettamente “orale” e un “nucleo” collegato di stampo depressivo. Ma questo è un “nucleo” e non è la “depressione” maligna e severa. La prognosi è fausta, così come il lavoro di crescita personale al fine di incarnare la migliore possibile “coscienza di sé”.
“Il
luogo era un insieme della casa in campagna di mia nonna, di
un monastero Zen
e di un
campeggio per artisti di strada in cui si allenavano con i numeri di
giocoleria e costruivano amache e altre cose da vendere.
Lì
viveva una comunità folta e l’atmosfera che dominava era di serenità
e di grande equilibrio. Io ero arrivata da poco e abbastanza
inaspettatamente e sentivo quel posto come la mia vera casa.
Erano
i giorni attorno al mio compleanno. Lì c’era mia madre che
sorseggiava una tisana e mi teneva la mano, contenta per il fatto che
avrei passato il mio compleanno insieme a lei.
C’era
anche una donna di cui sono stata innamorata nella vita lucida, che
vive in Brasile e che non vedo da due anni, e io ero curiosa di cosa
avrei provato a passare il giorno del mio compleanno insieme a lei.
Lei
era molto sorridente e amorevole, come tutti là, ed era felice che
fossi là. I sorrisi non erano mai espressione di un’allegria
frizzante o esplosiva, ma come di una calma interiore,
un’amorevolezza profonda e gratitudine.
Io
e mia madre guardavamo la foto dei miei due fratelli maschi: erano
seduti su un tronco e guardavano davanti a loro verso l’orizzonte con
lo sguardo assorto, erano seri nel volto ma sereni, assolutamente
presenti nei loro corpi.”
Io
sono Lucia.
INTERPRETAZIONE
DEL SOGNO
“Il
luogo era un insieme della casa in campagna di mia nonna, di
un monastero Zen
e di un
campeggio per artisti di strada in cui si allenavano con i numeri di
giocoleria e costruivano amache e altre cose da vendere.”
Lucia
parla di sé in maniera gentile e garbata, come si conviene a una
donna giovane che si trova sul cammino della sua vita a percorrere le
strade che portano alla riflessione sulle proprie
radici,
sulla spiritualità elevata
al Buddismo Zen e
sull’arte dei
giocolieri e dei “vocumprà”. Questi
sono i tre pilastri su cui poggia l’esistenza in
atto di
Lucia, tre
colonne su cui poggia anche la Sicilia nella tradizione popolare di
Colapesce.
La
“nonna” è stata una figura importante per la formazione psichica
di Lucia. Da lei ha mutuato lo slancio verso l’originalità o la
tendenza a non massificarsi, nonché un buon pragmatismo e una
altrettanto buona manualità. Arte e spiritualità attestano della
“sublimazione della libido” da
parte di Lucia come
difesa dall’angoscia di vivere e
il processo difensivo si riversa sulle spalle e sulla
pelle delle
proprie pulsioni erotiche e sessuali. La “casa di campagna” della
nonna rievoca Cappuccetto rosso e le sue arcinote traversie, ma
non mi dilungo in questo riferimento.
Lucia
è in preparazione di un evento da celebrare in questo luogo e
insieme a questa gente, un luogo dell’anima nonostante le apparenze
materiali, un luogo Zen, un monastero dello
Spirito con i dintorni artistici e creativi tanto forieri della
Bellezza e dell’Armonia. Anche attraverso il gioco e la
“giocoleria” si arriva nelle sfere alte dei cieli e nei
luoghi delle
reincarnazioni. Ognuno ha il destino che si è scelto a
suo tempo,
come Lucia, la nonna, i monaci, i giocolieri, gli artisti di strada.
Tutti abbiamo anche
un’amaca
su cui distenderci per la meditazione e su
cui dondolarci
in
armonia con
le oscillazioni dell’intero
universo.
Lucia
esordisce con le sue complessità psichiche e decodificandole si
corre il rischio di banalizzarle. Comunque sorridere non guasta mai e
soprattutto se si sa sorridere nel vero senso della parola e non
lasciandosi suggestionare da temi antichi e moderni come la cocaina o
l’oppio dei popoli.
“Lì
viveva una comunità folta e l’atmosfera che dominava era di serenità
e di grande
equilibrio. Io ero arrivata da poco e abbastanza inaspettatamente e
sentivo quel posto come la mia vera casa.”
Dopo
i trambusti formativi Lucia ha trovato un equilibrio psicofisico
mettendo insieme il meglio delle sue esperienze vissute nel privato e
nel sociale. “Quella serenità e quell’equilibrio” sono
decisamente aspirazioni di una donna che è venuta appena fuori da
una tempesta dei sensi e da un trambusto delle emozioni. Lucia si è
acquietata e adesso ama stare in mezzo alla gente della sua pasta,
persone creative e dalle forti tendenze a “sublimare” nell’Arte
il corpo e i suoi annessi e connessi. Lucia “era arrivata da poco”,
Lucia ha conosciuto altre turbolenze per poter affermare che quel
posto era la sua “vera casa”. Lei stessa si meraviglia di questo
approdo inaspettato in una comunità pneumatica dove domina
“serenità” e “grande equilibrio”, tutto il contrario di
quello che Lucia ha vissuto in precedenza e che volentieri vuole
lasciarsi alle spalle. E’ evidente che Lucia si trova sulla strada
di Damasco, la strada delle turbolenze magnetiche e psichiche, quella
che volge all’incontrario tutto quello che l’attraversa, viventi
e uomini compresi. Dopo una vita spericolata e vissuta alla grande
Lucia sente il bisogno di convertirsi, volgersi nel contrario, di
fare una conversione nell’opposto, dalla materia allo spirito,
dall’esaltazione della prima all’esaltazione del secondo, dal
processo psichico di difesa della “materializzazione” al processo
psichico di difesa della “sublimazione”, difese sempre
dall’angoscia esistenziale collettiva e dall’angoscia depressiva
personale. Il sogno di Lucia si snoda per eccessi e non contempla una
linea mediana su cui scorrere senza scompensi e salti mortali senza
rete. Si presenta un “Io” pienamente consapevole del suo
misticismo e di usare la “sublimazione della libido” come l’unica
panacea della brutta esistenza e dei peccatori carnali. In ogni caso
Lucia “sente quel posto come la sua vera casa” e allora non resta
che visitarla con reverenza e con rispetto, visto che si tratta di
una dimora ad alto tasso di celeste essenza.
“Erano
i giorni attorno al mio compleanno. Lì
c’era mia madre che sorseggiava una tisana e mi teneva la mano,
contenta per il fatto che avrei passato il mio compleanno insieme a
lei.”
Continua
la rassegna delle presenze psichiche di Lucia, delle persone
particolarmente significative da ammettere alla sua visione e al
mistico consesso. Le radici chiamano e chiedono la soluzione del
tributo. Il giorno genetliaco di Lucia si festeggia insieme alla
“madre”, la diretta responsabile di tanto travaglio e di tanta
figlia. In precedenza era stata chiamata in causa la “nonna”
nella sua “casa di campagna” per allietare questo sogno nel segno
del Femminile e del lieto evento. Sono presenti tre donne, due mamme
e una figlia; di uomini neanche l’ombra, almeno fino adesso. Una
“madre” che “sorseggia una tisana” e tiene la mano alla
figlia è una scena idilliaca e orientale, così come la “nonna”
nel contesto bucolico risulta più casereccia del pane di casa e più
concreta della bottegaia che vende il baccalà presso il mercato del
popolo. Lucia costruisce in sogno atmosfere rarefatte e rilassamenti
da nirvana o da fumatori di oppio. Manca la verve energetica in
maniera direttamente proporzionale all’intensità delle energie
investite nella precedente vita, meglio nel precedente modo di
pensare e di vivere di Lucia. La fusione con la madre attraverso un
cordone ombelicale adulto è una larvata dipendenza da questa figura
anche se vissuta più come sorella e compagna di viaggio da parte di
una figlia chiaramente cresciuta e consapevole dei suoi vissuti. La
rievocazione della scena del parto è pronta e i festeggiamenti si
snodano tra ricordi e nostalgie. La rinascita in vita come evoluzione
spirituale si attesta nel compleanno che Lucia vive giustamente in
compagnia della madre carnale. Dal corpo allo spirito il passo non è
di certo breve e poco impegnativo, perché si tratta di anni luce da
impiegare nel percorrere la linea dello “spaziotempo” proprio
quando s’incurva. Il compleanno Zen merita tanta prosopopea in un
locale dove si serve esclusivamente estasi e atarassia in versione
chiaramente analcolica.
“C‘era
anche una donna di cui sono stata innamorata nella vita lucida, che
vive in Brasile e che non vedo da due anni, e io ero curiosa di cosa
avrei provato a passare il giorno del mio compleanno insieme a lei.”
E’
un sogno tutto al Femminile e secondo i
dettami del “principio psichico
femminile”. Adesso subentra “una
donna di cui sono stata innamorata nella vita lucida”, la terza
donna del sogno di Lucia. Questa figura
rappresenta simbolicamente la “vita lucida”, la coscienza
vigilante e la materia vivente, il “principio di realtà” e
l’istanza psichica dell’Io concreto
e pragmatico che usa la “libido” in maniera godereccia.
Lucia è stata legata a questa donna secondo i canoni
dell’innamoramento e della passione e conosce molto bene questo
trasporto sensoriale e affettivo. Lucia conosce bene se stessa quando
si è vissuta nella realtà di una relazione grassa e crassa. Di
poi ha iniziato a sperimentarsi
in questa nuova dimensione di “libido”
sublimata e
vuole condividerla con questa donna che
nel recente passato aveva
investito in pieno della sua originaria
“libido”. Da buona e brava
materialista, Lucia ha detto basta al
corpo e ai suoi bisogni per risorgere
nella spiritualità. Celebra il primo
compleanno di rinascita in vita dopo la conversione alla pratica
spirituale buddista Zen e vuole
sperimentare i suoi sensi e i suoi affetti nella circoscrizione della
“sublimazione”, nella nobiltà aristocratica dell’Arte e dello
Zen. Quante nascite ha celebrato e celebra oggi Lucia? Sicuramente
due, quella “materiale” e quella “spirituale” restando dentro
lo stesso corpo. Ricordo che il Buddismo predica la reincarnazione o
la rinascita. Quante volte è rinata Lucia, il sogno non lo dice
anche perché non tocca questo punto metafisico della Filosofia
buddista o del Buddismo, se vi aggrada.
“Lei
era molto sorridente e amorevole, come tutti là, ed era felice che
fossi là. I sorrisi non erano mai espressione di un’allegria
frizzante o esplosiva, ma come di una calma interiore,
un’amorevolezza profonda e gratitudine.”
Anche
questa donna, l’innamorata della “vita lucida”, è affascinata
dalla presenza di Lucia in questa vita Zen e in questa comunità
spirituale dove l’allegria non è fare bordello e disinibirsi
sbevazzando,
ma vivere la calma
interiore. Lucia ha raggiunto un traguardo psicofisico veramente
invidiabile perché è riuscita a ripulire dalla materia volgare le
attività sentimentali e affettive. La
bontà della “sublimazione” e la
bontà della spiritualità si sommano in
un ampio crogiolo orientale che rievoca società comunitarie avulse
dai torbidi intrighi dell’Occidente.
Lucia si è elevata dalla materia che in passato ha contrassegnato la
sua vita e le sue scelte e dopo
un processo di crescita si è riconciliata con se stessa e con gli
altri. Ha visto la sua femminilità e l’amore attraverso la nonna,
la madre, la sua donna
e può esulare verso le pulsioni umane
più nobili e può contemplare
la verità profonda che governa l’uomo e l’universo.
“Io
e mia madre guardavamo la foto dei miei due fratelli maschi: erano
seduti su un tronco e guardavano davanti a loro verso l’orizzonte con
lo sguardo assorto, erano seri nel volto ma sereni, assolutamente
presenti nei loro corpi.”
Finalmente
Lucia tira in ballo l’universo maschile nelle figure “dei due
fratelli” anche se in versione fotografica. La solidarietà
madre-figlia
si rafforza in questa prospettiva nostalgica che vuole i fratelli
maschi in gran forma materiale e spirituale: “seduti, sguardo
assorto, seri, sereni, presenti nei corpi”. Anche loro, pur
tuttavia,
sono stati sublimati dalla sorella e deprivati di quella umanità
massiccia di natura libidica che connota due giovani uomini che hanno
davanti tutta una vita da vivere e
che puzzano di testosterone.
Eppure
Lucia ne fa due aspiranti al Buddismo e due asceti pronti alla
meditazione, li colora nel volto di una tinta orientale che coniuga
la serietà alla serenità, lo
sguardo assorto all’orizzonte e vigilanti dentro
i loro corpi. Non è, di certo, un’immagine goliardica quella che
Lucia compone per i suoi fratelli, è un quadretto affettuoso e ben
augurante in linea con l’atmosfera rarefatta e quasi perfetta degli
asceti orientali che possono stare seduti su un tronco a guardare
l’orizzonte.
Questa
è l’interpretazione
del
sogno
di
Lucia nel giorno del suo primo compleanno Zen.
Alcune
riflessioni sono importanti per meglio inquadrare il
sogno
di
Lucia. Il
prodotto psichico risente
chiaramente della sua conversione al Buddismo Zen e al superamento
della modalità di vita occidentale. L’ottica del sogno è
prettamente femminile e la protagonista rileva con pacatezza le
figure femminili che l’hanno formata a livello psichico e in cui si
è in parte identificata in attesa di un suo personale superamento
spirituale verso le alte sfere delle pratiche ascetiche dei monaci
buddisti. La causa di questa evoluzione spirituale il sogno non la
contempla, ma si può rilevare una vita pienamente vissuta
all’occidentale da
Lucia anche
con innovazioni sul tema della coppia: amore
saffico.
Tutto il sogno è impostato sul processo psichico di difesa
dall’angoscia della “sublimazione della libido”.
Un
ultimo particolare non indifferente si attesta nell’interpretazione
del sogno fatta da un occidentale prettamente materialista come il
sottoscritto. Questo sogno doveva essere interpretato da un collega
buddista che
prontamente
ho
reperito.
Questo
è stato il suo lapidario giudizio: “il sogno è la chiara
riflessione di
Lucia sulla
liberazione della sofferenza attraverso la meditazione e
dopo
la razionalizzazione della sofferenza stessa.
Spirito
e Materia
si fondono in un tutto unico, olismo. Il
Buddismo non conosce queste classiche differenze e opposizioni della
cultura occidentale”
Io
ho ragionato da uomo occidentale proprio usando la classica
opposizione mente e corpo, psiche e soma, spirito e materia. Me ne
scuso con Lucia e con i marinai.
Alla
prossima e con la speranza che non mi capiti il sogno di un certo
Siddharta Gautama da interpretare.
“Ho sognato che avevamo un ospite in casa e che dormiva nel letto al secondo piano.
La mia compagna mi informa che sta per uscire con un’amica, ma, uscendo dal bagno, vedo che, invece, sta salendo al piano superiore dove c’è l’ospite, vestita solo di una sottoveste trasparente.
Io la richiamo con sentimento di gelosia chiedendole dove pensa di andare svestita così e lei, tranquillamente, risponde che deve portare gli asciugamani puliti al dott. Tal dei Tali (non ricordo più il cognome).”
Giampi
PREAMBOLO INTRODUTTIVO
Freud racconta che nella sua primissima infanzia era geloso della madre, che, oltretutto, aveva visto nuda: “vidit matrem nudam”. Lo scrive in latino da buon puritano che praticava in parte la cultura, non la religione, ebraica. Il blocco psichico era dentro di lui e la lingua antica nobilitava la traduzione della sua pulsione affettiva ed erotica verso la madre. Prima di addormentarsi il piccolo Sigmund riceveva le carezze e i baci della madre e dopo vedeva che la sua amata si allontanava con il padre. Si origina la teoria del complesso di Edipo, la “posizione psichica edipica”, in cui la conflittualità con i genitori si accentua intorno ai cinque anni per non risolversi mai del tutto. Preciso che Edipo appartiene agli antichi Greci e alla trilogia tragica del grande Sofocle. Diamo sempre a Cesare quel che è di Cesare.
La Psicologia dell’infanzia ci dice, anche ed ancora, che i bambini vivono l’angoscia dell’abbandono, del tradimento, dell’umiliazione, dell’ingiustizia, dell’invalidazione, del rifiuto. Oltre al sentimento di gelosia e al bisogno di possesso, ogni bambino e ogni bambina non vogliono sentirsi dire dai loro genitori le seguenti bestemmie: “non ti voglio più, vattene via”, “sei un cretino”, “lo dico al maestro e al papà o alla mamma”, “me ne vado e ti lascio solo”, “non capisci niente”, “sbagli sempre”, “non sei capace di far niente”, “l’altro è più bravo e più bello di te”.
Volete colpire un bambino?
Ebbene, questi sono i proiettili tremendi che potete mettere nella canna della vostra imbecillità, le armi usate spesso e volentieri come se fossero gli strumenti ineguagliabili della migliore educazione sacra e profana. Io predico e vado predicando l’evangelo dell’infanzia, ma non immaginate quante volte sulla spiaggia o in giro per i borghi assisto a scene orrende e orribili di questo tipo. Il mio intervento è immediato e altrettanto violento, ma non serve a estirpare la pianta maligna dell’ignoranza sui temi portanti della Psicologia evolutiva, anche perché nel nostro Belpaese quest’ultima è di poco spessore e tenuta in misero conto. Ancora in Italia si respira l’aria della benamata e pur cara Psichiatria kraepeliniana e farmacologica, altro che psicologo scolastico o di base e di ospedale. Siamo all’età della pietra e i tanti Ordini professionali, regionali e nazionali, non hanno fatto e non fanno alcunché di costruttivo e incisivo, vivacchiano tra un gettone di presenza e un altro, tra una nobile chiacchiera e una strategia di sopravvivenza a lungo termine, politica professionale. Non mi dilungo sull’Ente di assistenza e previdenza che elargisce pensioni di fame, ma dico soltanto insieme a Paolo che “era meglio morire da piccoli, che vedere sto schifo da grandi” o da vecchi.
INTERPRETAZIONE DEL SOGNO
“Ho sognato che avevamo un ospite in casa e che dormiva nel letto al secondo piano.”
Giampi ha dentro una figura non ben razionalizzata, “ospite”, rimossa nel Profondo, “dormiva”, intima, “nel letto”, sublimata per difesa dall’angoscia, “al secondo piano”. Giampi sta rievocando una personalissima “introiezione” e le sue modalità difensive da tanto ingombro. La “rimozione” è servita a dimenticare o a disinnescare il tormento procurato da questo “ospite” che si porta dentro, “in casa”, così come la “sublimazione” esalta la carica aggressiva destinandola a un uso compatibile con la morale corrente. Questo capoverso può essere stimato l’allegoria della “introiezione edipica” della figura genitoriale e la soluzione difensiva dall’angoscia più diffusa tra i bambini e le bambine. A questo punto del sogno si chiede una migliore precisazione dei termini della questione in ballo. Procedere non costa niente e specialmente di questi tempi in cui si è costretti dall’isolamento a rispolverare gli antichi e primari affetti.
“La mia compagna mi informa che sta per uscire con un’amica, ma, uscendo dal bagno, vedo che, invece, sta salendo al piano superiore dove c’è l’ospite, vestita solo di una sottoveste trasparente.”
Cambia apparentemente la scena, perché a tutti gli effetti esiste una consequenzialità molto logica in questo capoverso che maschera la dimensione psichica “edipica” sotto l’egida dei sentimento della rivalità e della gelosia. Giampi è un uomo che si accompagna a una donna, “la mia compagna”, molto seduttiva, “vestita solo di una sottoveste trasparente”, o molto delicata a livello psichico, non dico debole, ma sensibile all’ambiente esterno da cui si difende con azioni seduttive. Almeno così la vive il suo uomo. Il sentimento di gelosia di Giampi si manifesta nel farla “uscire con un’amica”, nel farsi abbandonare in un isolamento compatibile con la normalità del trauma abbandonico: niente di eclatante, ma la scena vista e rivista nella quotidianità e che nel sogno si carica di significati simbolici e di emozioni antiche. La “compagna” sta “uscendo dal bagno”: Giampi la colora di sensualità e la intinge di intimità. Questa donna è vissuta con una forte connotazione femminile, nella sua parte psichica seduttiva e intrigante. Ma l’oggetto dell’azione della conquista non è Giampi, il legittimo compagno, ma “l’ospite del piano superiore”, l’uomo che viene scelto dalla donna come bersaglio di una schermaglia erotica e fortemente sensuale. La scena onirica è costruita da Giampi come dalle migliori scenografie di film colorati di rosa e di modeste luci rosse. Ricordo che la migliore seduzione è quella che non smaschera scadendo nel visibile, ma lascia intravedere e immaginare sostando nell’invisibile. A questo punto ritorna il bambino Sigmund, di cui scrivevo all’inizio dell’interpretazione del sogno di Giampi, che vedeva la madre coccolarlo e poi abbandonarlo andando via abbracciata al marito, meglio al padre di Sigmund. Giampi sta facendo in sogno la stessa cosa, sta svolgendo la medesima psicodinamica “edipica”, sta rivivendo la famigerata triangolazione, “io, mammeta e papeta”, per dirla simpaticamente alla napoletana. Proseguire serve a confermare quanto coraggiosamente affermato.
“Io la richiamo con sentimento di gelosia chiedendole dove pensa di andare svestita così e lei, tranquillamente, risponde che deve portare gli asciugamani puliti al dott. Tal dei Tali (non ricordo più il cognome).”
Ecco che il figlio Giampi dà parola al suo vissuto e con forza esprime in maniera traslata anche la sua rabbia verso questa donna non soltanto seduttiva e fedifraga, ma anche vanagloriosa ed eccessiva: “ dove pensa di andare svestita così”. “Svestita” ha una duplice valenza interpretativa. Da un lato si traduce seduttiva e dall’altro si denota come indifesa. Il “tranquillamente” manifesta il duplice registro, il “qui pro quo”, il “lapsus” interpretativo che esige l’innocenza della donna e la malafede di Giampi che ha preso lucciole per lanterne, ha mischiato i suoi fantasmi edipici con la normale mansione della compagna che “deve portare gli asciugamani puliti al dott. Tal dei Tali”, di cui “non ricorda più il cognome”, anonimato, perché altrimenti rischia di svegliarsi trovandosi davanti al nome del padre. Ricordo che “gli asciugamani” rappresentano simbolicamente l’assoluzione dei sensi di colpa con la loro funzione di assorbire e pulire. Giampi provvede a risolvere la “psicodinamica edipica” con la disposizione ad accettare la madre come moglie di suo padre, senza sensi di colpa per la sua gelosia e il suo bisogno di possesso.
La risoluzione dell’equivoco psichico mette fine al sogno così universale e così scontato di un figlio così normale. E questi sono tutti complimenti in ambito psichico.
A Giampi non resta che portare avanti la “razionalizzazione” delle figure genitoriali e dei suoi vissuti in loro riguardo, abbandonando la “sublimazione” e la “rimozione” e riconoscendoli come le precipue e originali radici della sua persona: “riconosci il padre e la madre” prescrive il comandamento psicoanalitico. Io aggiungo “adotta anche il padre e la madre”, dopo aver preso consapevolezza del tormento edipico che ti ha formato a livello psichico.
Buona fortuna a chi cammina e arriva sempre a destinazione.
“Mi
trovo all’ultimo piano di un palazzo in un condominio.
Guardo
giù dal balcone e ho leggero un senso di vertigine.
Sotto
vedo una città sott’acqua con la gente che cammina tranquilla e
serena.
Rientro
nella stanza e arriva un terremoto.
Il
palazzo collassa, ma non mi succede niente.”
Gervasio
INTERPRETAZIONE
Procedo
in maniera semplice e lineare, capoverso dopo capoverso.
“Mi
trovo all’ultimo piano di un palazzo in un condominio.”
Gervasio
è un giovane uomo che socializza con facilità e con naturalezza.
Vive in un palazzo e in un condominio dove, di certo, la gente non
manca. Bene, per quanto riguarda il riconoscimento degli altri e la
convivenza. Qualche perplessità si palesa per il fatto che Gervasio
si trova all’ultimo piano di questo palazzo, la zona più alta del
complesso edilizio che simbolicamente attesta del processo psichico
di difesa dall’angoscia della “sublimazione della libido”, il
meccanismo che rende nobili e pure le cariche erotiche e sessuali
proprio convertendole nella solidarietà e nel servizio verso il
prossimo. Gervasio è un uomo che sublima la sua sessualità vivendo
tra la gente, è un uomo buono e disponibile.
“Guardo
giù dal balcone e ho leggero un senso di vertigine.”
Gervasio
tenta di coinvolgersi in maniera diversa e di servirsi del suo corpo
in questo processo di riconoscimento della realtà nei suoi aspetti
concreti e materiali. Si affaccia e prende coscienza della difficoltà
che incontra nel sentirsi libero e non condizionato dalla tendenza a
sublimare e di mettersi al servizio degli altri. La vertigine scatta
nel momento in cui si percepisce la possibilità di allargare le
proprie vedute e di concretizzare nuove visioni della realtà in cui
si vive: la benefica vertigine della libertà. Gervasio si affaccia
con titubanza verso un orizzonte sociale più intrigante e complesso
e ha paura di abbandonare o di cambiare gli schemi culturali e i
meccanismi psichici che lo hanno sempre accompagnato nella sua vita
quotidiana.
“Sotto
vedo una città sott’acqua con la gente che cammina tranquilla e
serena.”
Gervasio
non è estraneo alla frequentazione di Venezia, magari è un abitante
della meravigliosa città lagunare o è uno studente che, di tanto in
tanto, s’imbatte nell’inquietante fenomeno meteorologico
dell’acqua alta. Il sogno ha tutt’altra valenza interpretativa e
i simboli ci dicono che Gervasio ha un forte legame psichico con la
figura materna che trasporta pari pari nel desiderio di una vita
sociale protetta e non insidiata dalle invidie e dalle competizioni.
Si manifesta la ragione per cui Gervasio ha usato in prevalenza e
coltivato il processo psichico di difesa dall’angoscia della
“sublimazione della libido”. Gervasio predilige la protezione
sociale ed è alieno dall’isolamento e, per assolvere in pieno
questo bisogno, si mette al servizio degli altri nelle forme più
nobili come l’arrecare sollievo al suo prossimo al fine di essere
accettato e non estromesso, per non essere relegato nella solitudine.
“Rientro
nella stanza e arriva un terremoto.”
La
vertigine della presa di coscienza di potersi liberare dalle angustie
psichiche legate alla tendenza a sacrificare la sua energia sessuale
convertendola in servizio al prossimo per essere accettato, ebbene
tale consapevolezza si manifesta simbolicamente nel “terremoto”,
uno sconvolgimento psichico non distruttivo ma evolutivo, un benefico
sconquasso psichico che permette di riformularsi e di usare i tanti
meccanismi psichici di difesa che la Natura ha dato in dote
all’essere umano sensibile al cambiamento e capace di adattarsi ai
tempi e alle evenienze. E’ vero che Gervasio si ritira nella stanza
ossia in se stesso, ma è altrettanto vero che si è esposto dal
balcone e ha visto la città sott’acqua e la gente serena. Ma non
basta perché, di poi ha percepito il terremoto, la possibilità
della sua conversione migliorativa a una vita erotica e sessuale più
coinvolgente senza ricorrere alle sublimazioni della sua libido.
“Il
palazzo collassa, ma non mi succede niente.”
Come
volevasi dimostrare, Gervasio si libera dalle ultime resistenze al
cambiamento dopo la presa di coscienza dell’uso eccessivo e univoco
del processo di difesa dall’angoscia della “sublimazione della
libido” e si lascia andare alla socializzazione tranquilla e serena
in mezzo alla gente che protegge e favorisce le relazioni
significative di cui Gervasio ha bisogno.
CONSIDERAZIONE
Il
sogno di Gervasio nella sua linearità attesta del problema di un
uomo che si serve della “sublimazione della libido” per non
restare solo e per avere relazioni protettive. Il “terremoto”
simbolicamente non è poi tanto disastroso come nella realtà e
servirebbe di tanto in tanto nella nostra vita per riformulare i
vissuti e i meccanismi psichici che usiamo in maniera costante e
rigida. La “sublimazione della libido” è un processo molto utile
per la formazione della società e della cultura, ma è nocivo per
l’equilibrio psicosomatico se usato in eccesso, perché produce la
frustrazione della vita erotica e della vitalità sessuale. La
castità religiosa forzata è foriera di danni mentali e di malattie
psicosomatiche che si riverberano su quella società che inizialmente
si vuole beneficare e proteggere. Leggete a tal proposito il testo di
Freud “Disagio della civiltà”.
Saba
sogna a matriosca, un sogno dentro l’altro, ma sicuramente un sogno
dopo l’altro e ricorda questo suo meccanismo e questa sua modalità
di sognare proprio perché l’intensità del sonno REM è media.
Saba è mezza sveglia verso la fine del sogno e consapevolmente lo
riprende e riparte per una nuova avventura onirica attinente. Saba è
una donna che possiede una ricca vitalità onirica a conferma di una
altrettanto ricca vita psichica e di una notevole disinibizione nel
trattare i suoi prodotti psichici. Nel sogno precedente Saba aveva
elaborato il suo bisogno di maternità e la sua difficoltà a
diventare madre per un problema legato al compagno e per qualche
trauma che la riguardava direttamente. Non erano presenti sensi di
colpa, ma era rappresentata chiaramente la dinamica della
fecondazione e l’esito infausto per l’insufficienza di seme,
oligospermia e necrospermia. Vediamo dove va a parare il sogno della
matriosca successiva.
LA
TRAMA DEL SECONDO SOGNO DELLA MATRIOSCA
“A
questo punto mi affaccio ad un poggiolo e guardo dall’alto la prima
scena del mio secondo sogno; vedo la figlia del mio compagno che sta
festeggiando il suo compleanno all’aperto, con tantissimi invitati.
Adesso
ho ricordi confusi, ma so che c’erano un sacco di letti matrimoniali.
Io non scendo, resto a casa con il mio compagno e intanto si fa sera.
Riappare
mia sorella e ci mettiamo a parlare del senso della vita.
Entra
la figlia del mio compagno e mia sorella la convince ad ascoltare una
canzone di Tiziano Ferro (inventata all’uopo dalla mia mente
arzigogolata) che nel titolo ha la parola “Iromia”, con la
emme al posto della enne.
Mia
sorella spiega con fervore che Ferro ha dimostrato una grande
sensibilità ad inserire l’uso dell’aggettivo possessivo nel termine
ironia.
Ascolto
anch’io la canzone, ha delle belle parole, le conosco e canto, anche
se al risveglio non le ricordo.”
L’INTERPRETAZIONE
DEL SECONDO SOGNO DELLA MATRIOSCA
“A
questo punto mi affaccio ad un poggiolo e guardo dall’alto la prima
scena del mio secondo sogno; vedo la figlia del mio compagno che sta
festeggiando il suo compleanno all’aperto con tantissimi invitati.”
Saba
si stacca dal coinvolgimento con la problematica dialettica della
maternità contrastata e impedita e si mette in un punto di
osservazione sublimato dove può portare avanti, al meglio e senza
sofferenza, i temi dominanti in questa notte a sogni multipli.
“Guardo” si traduce in “prendo coscienza” e “dall’alto”
si traduce “sublimo”. Saba non cade nell’angoscia depressiva
legata alla perdita della capacità di procreare e usa la
“razionalizzazione” per giustificare a se stessa questo momento
critico e questo rospo non facile da ingurgitare. All’uopo
mette
le sue energie al servizio di se stessa e degli altri e
travalica l’aspetto
materiale della maternità come esperienza vissuta, magari legandosi
affettivamente alla figlia del compagno. Tanta gente sotto il
poggiolo e all’aperto festeggia lo scorrere del tempo di una
giovane donna su cui Saba investe le sue energie amorose e solidali.
Saba si è staccata da gran signora dalla gente e si è posta in un
poggiolo, in una sua nicchia in alto da dove osserva una
figlia adottiva
e la gente che le fa festa.
La soluzione è buona e verte tra consapevolezza e sublimazione. Saba
contempla.
“Adesso
ho ricordi confusi, ma so che c’erano un sacco di letti matrimoniali.
Io non scendo, resto a casa con il mio compagno e intanto si fa
sera.”
La
confusione è giustificata dall’angoscia che il tema onirico
suscita. Vuol dire che la “rimozione” della delicata e traumatica
psicodinamica funziona a metà e il materiale psichico che emerge e
sfugge al carcere della “rimozione” combina la trama del sogno
camuffandola in maniera adeguata tramite il meccanismo psichico di
difesa della “figurabilità”, dare la giusta immagine simbolica
al materiale emerso per non farlo riconoscere. Infatti i tanti “letti
matrimoniali” attestano la psicodinamica della coppia nell’intimità
sessuale, quando il maschile e il femminile s’incontrano per
fondersi nelle prerogative naturali inscritte negli organi. Ma Saba
sa tutto questo e non è una novità che la sconvolge, è una
situazione da cui si astiene senza fuggire ma con lo scoramento
depressivo di chi non può partecipare alla pari al convegno dei
maritati in procinto di combinare guai procreativi e trasgressioni
erotiche. Saba non scende e resta in alto e in casa insieme al suo
compagno di viaggio in questa impresa teatrale che mette in scena una
psicodinamica di coppia tra le tante che incorrono nei sentieri della
vita e del vivere. Saba vive la sua coppia in maniera appartata e
anomala per pudore e per rabbia. Lei non scende nella materia e nella
materialità della sessualità e della fecondazione per adire a una
gravidanza, simbolo del letto matrimoniale, Saba sublima la sua
“libido” e la mette al servizio della sua sensibilità di donna
che assorbe quello che impara e lo fa suo. “Intanto si fa sera”
rievoca il verso del poeta Salvatore Quasimodo della brevissima
poesia “Ed è subito sera”, un poeta immeritatamente riconosciuto
come Nobel. Intanto Saba abbassa la vigilanza della coscienza, si
obnubila in uno stato “spleen”, la milza greca funziona
producendo bile nera che porta inquietudine e malinconia. Stasera non
esco e “resto a casa con il mio compagno”: l’associazione fa la
forza e la condivisione porta coraggio.
Ma
cosa condividono i due?
“Riappare
mia sorella e ci mettiamo a parlare del senso della vita.”
I
due sublimano con le discussioni filosofiche il trauma occorso alle
singole persone e alla coppia. Possono scrivere un nuovo trattato sul
“De consolatione philosophiae”” come se non bastasse già
quello di Severino Boezio. Oppure si mettono in sintonia con le
drastiche teorie dell’Esistenzialismo francese, quelle di Sartre e
di Camus, dal momento che prediligono la lingua francese per quel
sapore erotico che si porta dentro e dietro. La “sorella”
“riappare”, riappare l’alleata onirica, quella persona su cui
Saba può proiettare le sue angosce e portarle avanti in sogno e che
magari stima come una valida interlocutrice di temi astratti e
altamente inutili come quelli “del senso della vita”. Saba sta
dicendo che arriva sua sorella e si mettono a parlare tanto per
parlare, a parlare per niente. Certo bisogna considerare quanto la
parola e il parlare aiutano a scaricare e a comunicare, a capire e a
sedare.
Potere
terapeutico del Verbo e potere taumaturgico del Verbalizzare!
Bisogna
riformulare le ragioni del vivere attraverso il parlare per
cicatrizzare le ferite e ripartire verso le avventure che incorrono
facilmente a chi si muove e va in giro per il mondo anche se crudele.
Vediamo, a questo punto, dove va a parare la matriosca onirica 2 di
Saba.
“Entra
la figlia del mio compagno e mia sorella la convince ad
ascoltare una canzone di Tiziano Ferro (inventata all’uopo dalla mia
mente arzigogolata) che nel titolo ha la parola “Iromia”,
con la emme al posto della enne.”
La
situazione sociale si complica per motivi di ordine psichico e Saba
introduce la figlia del compagno, quella che all’inizio del sogno
festeggiava il compleanno con tantissimi invitati e con tanti letti
matrimoniali, quella giovane donna ricca di tante promesse e di tante
virtù che Saba vive con un’ambivalenza affettiva di un certo
spessore e che guardava dal poggiolo in alto della sua casa. Anche la
sorella continua a fungere per Saba, alleata che, oltretutto,
arzigogola una canzone inesistente del cantante Tiziano Ferro, un
testo che nel titolo contiene la soluzione del quadro psicodinamico:
“iromia”. Saba dice a se stessa tramite la sorella e la figlia
del compagno di usare il metodo socratico della “ironia” e della
“maieutica” per conoscere se stessa, di effettuare una buona
“razionalizzazione” della propria condizione psichica attraverso
la perdita delle false certezze e l’acquisizione delle nuove
verità, quest’ultimo punto attraverso un parto di “parti di sé”,
valori culturali e virtù sociali.
Ma
perché Tiziano Ferro e non Tony Santagata o Albano e Romina,
immarcescibili come il fiore che non marcisce alla porta della chiesa
prima del funerale?
Tiziano
Ferro è vissuto come il cantante dell’intimità e dell’interiorità
attraverso un’espressione linguistica semplice e non banale e che
non manca di una vena futuristica. Saba è tutta presa da se stessa e
dai suoi “fantasmi” in riguardo alle sue maternalità e
maternità, nonché dalla sua tendenza a isolarsi nella ricerca della
risoluzione, solipsismo. In ogni caso Saba sa bene quali sono le cose
giuste, quelle che deve fare: la tensione alla “coscienza di sé”.
“Mia
sorella spiega con fervore che Ferro ha dimostrato una grande
sensibilità ad inserire l’uso dell’aggettivo possessivo nel termine
ironia.”
Saba
si proietta nello schermo gigante della sorella alleata e rende
ragione della grande sensibilità necessaria alla pratica socratica
del “conosci te stesso”, basata come si diceva prima sulla
“ironia” o destrutturazione psichica e sulla “maieutica” o
parto delle prime verità sempre sul tema universale del “chi sono
io”. L’aggettivo possessivo “mia” associato a “ironia”
equivale a “destrutturo me stessa”. L’assonanza o fenomeno
fonetico della “crasi” o “sincrasi” consiste nel mettere
insieme due parole combinando la fine della prima con l’inizio
della seconda. E’ questa l’operazione fonetica che mette in atto
Saba per dire a se stessa che conosce la metodologia socratica e la
metodologia personale psicoterapeutica della destrutturazione o
perdita delle “resistenze” che impediscono l’afflusso del
materiale profondo rimosso e del parto delle prime note psichiche
della vera identità. Brava Saba che con la sua sensibilità onirica
ha tirato in ballo Tiziano Ferro, un cantante sicuramente a lei
gradito, per parlare di sé e delle sue pratiche psicologiche. I
meccanismi di difesa dello “spostamento” e della “traslazione”
sono abbondantemente usati come lo zenzero in cucina.
“Ascolto
anch’io la canzone, ha delle belle parole, le conosco e canto, anche
se al risveglio non le ricordo.”
Come
volevasi dimostrare, Saba ascolta la canzone che ha inventato
creativamente sulla falsa riga del suo stato esistenziale di donna
sensibile ai valori psico-culturali della coppia e della maternità,
elogia l’estetica delle parole e innalza un inno alla bellezza,
dimostra di conoscere il testo come da copione e di saperlo cantare
nelle giuste modalità di voce e di postura della sua ugola d’oro.
Ha composto in sogno la poesia che al risveglio regolarmente non
ricorda perché era troppo bella.
Peccato
che le cose belle e i sogni debbano sempre finire!
Saba
conclude il secondo sogno a matriosca con la piena consapevolezza
delle sue psicodinamiche e precisa anche il metodo psicoterapeutico
che segue, quello più antico e vicino al Buddismo, la metodologica
socratica.
Al
sogno di Saba si può apporre una composta italica “fine” o un
freddo americano “the end”.
“E’ estate. Sono vicina a casa mia e sto visitando una grande chiesa su una altura insieme a qualcuno che non vedo. Ne sento solo la voce quando fa commenti sulla bellezza della chiesa.
A tratti è il mio fidanzato n°due, (ho due relazioni), a tratti mia madre e a tratti qualcun altro. Ma non sono tutte e tre le persone presenti. E’ come se si alternassero nel sogno.
Dopo aver percorso all’esterno tutto il perimetro della chiesa (in sogno mi capita sempre di restare solo all’esterno delle chiese) mi soffermo a guardare la vista dall’alto sul lago Maggiore.
Riscendo, (? riscendiamo), a piedi fino all’altezza del lago e io e mia madre questa volta saliamo su una canoa, (secondo sogno con canoa), e prendiamo il lago e poi un fiume che porta alla Svizzera. Io guido la canoa.
Ad un certo punto tiro fuori dal mio zaino un piatto di pasta che ho cucinato per mia mamma, (nel sogno c’è anche una parentesi in cui mi rivedo nella preparazione del piatto di spaghetti allo scoglio) e glielo do da mangiare.
Dopo un po’ mi accorgo, guardando dalla canoa, che i paesi sulle sponde del lago sono allagati. Lo percepisco come un problema, quindi prendo in mano l’azione, lascio mia madre a continuare la gita da sola e scendo nelle strade allagate, ma l’atmosfera è tranquilla con la luce del sole sulle case.
In giro non c’è nessuno. Entro in una casa e salgo al secondo piano come se fossi in autoplay di un video gioco e lì dentro, in un ambiente fresco e oscuro, ci sono delle persone che non riconosco ma so essere mie amiche.
C’è anche una camera con un letto mio e oggetti miei. In particolare ci sono moltissime pietre preziose che appartengono tutte a me, molte incise con disegni di scorpioni e di nasi.
Vado al bagno della mia camera in cui non c’è la porta ma solo una tenda di perline e, mentre mi sto sistemando, intravedo la figura di una ragazza che conosco ed è mia amica, l’unica del sogno, a parte mia madre, che vedo bene in faccia, che sta in piedi ferma nella mia stanza a guardarmi attraverso la tenda. Le dico “Samantha che fai?”, poi muovo un passo per uscire dal bagno e lei mi si butta addosso per aggredirmi.
Sopraggiunge un ragazzo dalla cucina per salvarmi e non so bene che fine faccia Samantha. Mi metto a parlare con questo ragazzo che però è un’ombra, non lo distinguo bene e stiamo un po’ in un abbraccio intimo e io percepisco la presenza del mio fidanzato n°uno che però nel sogno non c’è.
A questo punto salta fuori che c’è un’invasione di Alieni in atto (sogno molto speso gli Alieni ma non mi spaventano, nei miei sogni sono sempre una guerriera) e che essi sono in grado di assumere le sembianze di chi vogliono.
Io mi metto a cercare una pietra in particolare che non salta fuori. E’ una pietra nera con dei puntini azzurri che ha la capacità di curarmi e farmi cogliere l’origine dei problemi.
La cerco invano ovunque dentro la casa insieme a questo mio salvatore, finché non appare un alieno nella stanza ed io lo sconfiggo in uno scontro corpo a corpo.”
Questo è quanto ha sognato Giglio.
INTERPRETAZIONE DEL SOGNO
“E’ estate. Sono vicina a casa mia e sto visitando una grande chiesa su una altura insieme a qualcuno che non vedo. Ne sento solo la voce quando fa commenti sulla bellezza della chiesa.”
Giglio è nei pressi di se stessa, della “parte psichica” adibita alla “sublimazione della libido”. E’ tempo di nobilitare le proprie pulsioni e di dar loro un fine generoso al fine di non avvertire gli eventuali sensi di colpa destati dal pensiero di essere egoisti e bisognosi. La “chiesa su un’altura” è un rafforzamento simbolico di quanto affermato. “L’estate” aiuta a sentire il calore delle pulsioni e la consapevolezza di una donna che si accompagna al padre: “qualcuno che non vedo”. Questa figura è simbolicamente e universalmente sempre il padre “edipico”, quello con cui non sono stati sciolti i legami ambigui e ambivalenti, le pulsioni seduttive ed erotiche di una bambina che cerca la sua dimensione psichica femminile. Giustamente Giglio ha sublimato a suo tempo la “libido edipica” e si porta a spasso per il sogno il padre in versione di abile commentatore della Bellezza. La figlia riconosce al padre una sensibilità estetica, fatta di tanta ammirazione e di consapevole stupore. Giglio sublima l’attrazione verso il padre per non colpevolizzarsi, ma riconosce nello stesso tempo al padre quella propensione alla Bellezza, “della chiesa” nel caso specifico. Sintetizzo e chiarisco: Giglio riesuma e rievoca la figura paterna e assolve i sensi di colpa legati all’attrazione psicofisica e approfitta della circostanza per mettere in luce la sensibilità al Bello e all’Arte dell’augusto genitore.
“A tratti è il mio fidanzato n°due, (ho due relazioni), a tratti mia madre e a tratti qualcun altro. Ma non sono tutte e tre le persone presenti. E’ come se si alternassero nel sogno.”
I conti “edipici” tornano tutti: il fidanzato numero due, la madre o una figura anonima e indifferenziata, sempre un “qualcun altro” dentro, una figura “introiettata” e nel sogno tirata fuori, “proiettata”. Il “fidanzato numero uno” è sempre il padre per tutte le bambine, il “fidanzato numero due” è quello che segue e consegue alla complessità dei vissuti in riguardo alla figura paterna. Poi, arrivano anche gli altri fidanzati, i numero enne, nella speranza che siano tanti per depurare i vissuti “edipici” e scegliere il proprio uomo senza i condizionamenti subdoli dell’infanzia e dell’adolescenza, senza sposare la “traslazione” del padre insomma. Giglio non mette in scena la “triade edipica”, si limita a visitare i singoli protagonisti e li alterna sul palco a simboli dei suoi vissuti e della sua evoluzione psicofisica, dall’infanzia all’età adulta. Degna di nota è la poligamia di Giglio, “(ho due relazioni)”, la sua naturalezza a vivere il maschio senza i limiti imposti dalla Morale pubblica, il “Super-Io” collettivo, e dal suo “Super-Io”, la sua istanza psichica censoria. Giglio manifesta una disinibizione nella gestione delle relazioni amorose, affettive e sessuali, a testimonianza della sua capacità di alternare nella vita, non soltanto nel sogno, situazioni di coppia varie e variopinte. La caratteristica si spiega con una riduzione dell’investimento di “libido” nei suoi uomini e del coinvolgimento amoroso. Insomma, Giglio non s’innamora abbastanza o teme di legarsi troppo e per questa paura si difende da quello che lei vive come un coinvolgimento minaccioso della sua autonomia. Il prosieguo del sogno darà le ragioni di questa nota caratteristica della protagonista. Possibilmente c’è ancora un ristagno “edipico”, per cui Giglio non si è evoluta degnamente nella “posizione psichica genitale” e non investe appieno le sue energie e i suoi sentimenti secondo le naturali norme della disposizione donativa e della generosità altruistica, della “comprensione” e dell’abbraccio psichico dell’altro.
“Dopo aver percorso all’esterno tutto il perimetro della chiesa (in sogno mi capita sempre di restare solo all’esterno delle chiese) mi soffermo a guardare la vista dall’alto sul lago Maggiore.”
Il processo psichico di difesa dall’angoscia della “sublimazione della libido” non trova Giglio disponibile al cento per cento dal momento che percorre “tutto il perimetro esterno della chiesa”, non entra nel tempio sacro per depositare le sue cariche istintive e le sue pulsioni in attesa di essere purificate dalla grazia della Psiche. Giglio è una donna che non si coinvolge del tutto nelle operazioni di recupero e di rimessa in atto del vietato e dei tabù. Giglio salta di palo in frasca e travalica dalla “sublimazione” alla contemplazione estetica, anzi predilige tranquillamente quest’ultima e trova nella Bellezza la risoluzione idonea e congrua. Giglio sente il bisogno di “catarsi” dell’illecito e della colpa, ma fa tutto a metà e si ricovera sempre in “alto”, nel culto della madre che ristagna, il “lago Maggiore”. Dal sacro passa con disinvoltura all’umano, dal carisma alla concretezza estetica. Giglio le sta provando tutte le operazioni di ripulitura di eventuali traumi o fantasie, di pulsioni e desideri. Predilige non investire totalmente su azioni che nella Borsa del sacro hanno un valore, mentre nella Borsa dell’umano presentano una vitale consistenza. Vediamo dove procede dopo questo preambolo introduttivo.
“Riscendo, (? riscendiamo), a piedi fino all’altezza del lago e io e mia madre questa volta saliamo su una canoa, (secondo sogno con canoa), e prendiamo il lago e poi un fiume che porta alla Svizzera. Io guido la canoa.”
Dopo il “qualcuno che non vedo” del primo capoverso, decisamente decodificato come la figura paterna, ecco che si presenta in tutta evidenza e in pompa magna la figura molto importante nella formazione psichica di Giglio, la madre. A quest’ultima la figlia associa il processo psichico di difesa della “materializzazione” e il principio annesso della “realtà”. Giglio ama la concretezza e si è tenuta a fianco della “chiesa”, non è entrata nel luogo del sacro e della censura morale, ha preso atto e ha apprezzato l’aspetto culturale, filosofico ed estetico, La compagnia era la figura del padre. Adesso arriva la madre e la materia vivente, il “lago”, e Giglio si sente alla sua “altezza”, si è ben identificata nella madre durante la sua formazione ed evoluzione psicofisiche, per cui va da sé che ci sia la “canoa”, il grembo, la culla anatomica adibita alla sessualità e alla maternità. “Saliamo sulla canoa” attesta “l’identificazione” nella madre che ha portato Giglio a maturare nel tempo la sua “identità” femminile. Il padre non si è evidenziato abbastanza semplicemente perché è la figura conflittuale della “triade edipica” ed allora Giglio per difendersi non gli ha dato un volto e l’ha lasciato nell’anonimato. Guardate che bel quadretto al femminile: madre e figlia in canoa sul lago. Questa è una buona e originale allegoria con il rafforzamento dei simboli femminili, “lago” e “canoa”, ma Giglio non dimentica il padre e allora se lo porta dietro sotto forma classica del “fiume”. Non dimentica nemmeno di essere lei la protagonista della sua femminilità e si mette alla guida della sua “canoa” in buona e completa compagnia “edipica”. Ritorna la figura paterna in veste simbolica a testimonianza di una delicatezza e paura verso la figura maschile. E allora andiamo in “Svizzera”, il luogo simbolico delle libertà e dell’autonomia.
Che Giglio stia risolvendo la sua “posizione psichica edipica”, la sua relazione conflittuale con i genitori, e stia maturando la sua autonomia psichica riconoscendo il padre e la madre e risolvendo le pendenze maturate nel corso della vita?
Chi vivrà vedrà.
“Ad un certo punto tiro fuori dal mio zaino un piatto di pasta che ho cucinato per mia mamma, (nel sogno c’è anche una parentesi in cui mi rivedo nella preparazione del piatto di spaghetti allo scoglio) e glielo do da mangiare.”
La figlia dispensa amore per la madre. Dal suo grembo, lo “zaino”, il luogo della femminilità e della “genitalità”, Giglio partorisce da sola e senza aiuto dell’ostetrica, “tiro fuori”, tutti gli affetti possibili nei riguardi della figura materna, “un piatto di pasta che ho cucinato per mia mamma”, tutto l’amore verso la madre. Questa operazione di riconoscimento e di riconoscenza avviene con una preziosa nota narcisistica, “mi rivedo nella preparazione del piatto di spaghetti allo scoglio”, una pietanza non da morti di fame o da profani, oltretutto condita con tutto il trasporto affettivo di una figlia che si prende cura della madre dopo averla riconosciuta come la sua origine e la sua identità femminile: “glielo do da mangiare” e “io guido la canoa”. Degna di nota è l’assenza della stessa premura nei riguardi del padre, che, pur tuttavia, è presente in forma traslata e anonima. Ricapitolando: Giglio sviluppa in sogno la sua “relazione edipica” e mostra di averla superata, soprattutto in riguardo alla madre. Il padre resta una mina vagante nel mare psichico della formazione evolutiva della protagonista. Con la madre Giglio ha assunto un atteggiamento di cura e premura che si può definire “adozione”, una forma concreta e massiccia di “libido genitale” sublimata. La figura sacra della madre viene investita di affetti e atti che attestano riconoscimento e gratitudine.
“Dopo un po’ mi accorgo, guardando dalla canoa, che i paesi sulle sponde del lago sono allagati. Lo percepisco come un problema, quindi prendo in mano l’azione, lascio mia madre a continuare la gita da sola e scendo nelle strade allagate, ma l’atmosfera è tranquilla con la luce del sole sulle case.”
Giglio rievoca il momento della sua evoluzione psicofisica in cui ha operato il distacco dalla madre e ha risolto la sua dipendenza psichica dal momento che aveva ampiamente accettato e razionalizzato la sua identità femminile. Trascorso il periodo dell’identificazione e superato il bisogno di adottarla accudendo i bisogni di lei e prendendosi una cura speciale della sua persona, risolta questa benefica e matura operazione umana, Giglio riacquista la sua autonomia e indipendenza dal momento che “i paesi sulle sponde del lago” erano “allagati”. Giglio percepisce “come un problema questo trasporto e “prende “in mano l’azione”, le redini della sua vita “per continuare la gita” della sua vita “da sola”. In questa presa di coscienza dei vissuti complessi nei riguardi della madre Giglio razionalizza che non ha subito alcun danno e che la “razionalizzazione” di questo rapporto speciale con la madre è stato positivo e costruttivo al massimo, dal momento che ha apportato la tranquillità dell’animo, una forma di “atarassia” individuale da completamento d’opera e da scelta di se stessa dopo il periodo di dipendenza a vario titolo, o perché bambina o perché moralmente portata al sollievo dell’augusta figura materna. Traduco meglio e pari pari: Giglio, del tutto consapevole della sua femminilità e della sua persona, “guardando dalla canoa”, dopo aver temuto di aver corso il rischio di dipendere dalla madre, riacquista la sua autonomia psichica e vive la sua vita di donna e di femmina senza alcun turbamento e con tanta consapevolezza. Meglio di così non poteva andare.
“In giro non c’è nessuno. Entro in una casa e salgo al secondo piano come se fossi in autoplay di un video gioco e lì dentro, in un ambiente fresco e oscuro, ci sono delle persone che non riconosco ma so essere mie amiche.”
Giglio è con se stessa, in dolce compagnia di se stessa e della sua autonomia psicofisica. Giglio ha risolto i legami di figlia nei riguardi della madre e ha provveduto al suo accudimento: “in giro non c’è nessuno”. La figlia ha riconosciuto la madre dopo averla onorata e odiata e non è rimasta schiava e sola in questa improba controversia sull’identità e sul possesso dei beni affettivi. Sul padre il discorso è sospeso e la figura del genitore vaga come le mine nei mari durante il tempo di guerra in cerca della nave su cui esplodere. Giglio rientra in se stessa e per la precisione nella “sublimazione narcisistica del suo Io”, nel luogo riservato all’auto-gratificazione e all’auto-compiacimento, per rivivere i momenti di questa sua crescita personale. Giglio si ripensa come persona compiuta, ma non riconosce nella sua dimensione relazionale alcune figure o “parti psichiche di sé” che ancora aspettano una risoluzione congrua. Ritorna questa tendenza di Giglio all’incompiuta con alcune “persone” e con alcune esperienze della sua vita dove avrebbe voluto essere più decisa e incisiva. Si accontenta di un “autoplay” che si riduce a un “autoreplay”, a un rivedersi e a un riconsiderarsi narcisistici che lasciano l’amaro dell’incompiuta in bocca. Purtuttavia, ha il buon senso di ritenere “amiche” queste persone e manifesta quell’ottimismo non esagerato che non guasta, se confrontato con il pessimismo bieco della disperazione e del rancore di chi avrebbe voluto cambiare le carte in tavola. Tra le persone ci mettiamo d’ufficio il padre. Vediamo dove si dirige Giglio nel suo sogno. Adesso è ferma in una Svizzera calvinista e protestante, isolata e libera, ligia al dovere e alle leggi morali, ricca di buona cioccolata e di emmental, di orologiai e di orologi, di cucù e di mucche viola.
“C’è anche una camera con un letto mio e oggetti miei. In particolare ci sono moltissime pietre preziose che appartengono tutte a me, molte incise con disegni di scorpioni e di nasi.”
Giglio entra nell’intimità, nel personale, nel privato, nel proprio. La “camera da letto” condensa i vissuti interiori e indicibili, quelle “pietre preziose” che riguardano soltanto Giglio e nessun altro, la sua sfera anatomica e sessuale da non condividere e da stimare con grande perizia, i vissuti intimi e le esperienze erotiche che vertono sul versante sessuale maschile come i “disegni di scorpioni e di nasi”, una vasta gamma di simboli fallici, fecondanti al negativo i primi, penetranti con decisione i secondi. Lo “scorpione” rappresenta simbolicamente il pene che emette lo sperma temuto dalla donna che ha una tosta fobia della fecondazione e della gravidanza, mentre il “naso” condensa l’invadenza del pene e le sue ben note competenze erotiche e sessuali. Tra “pietre preziose” femminili e “scorpioni e nasi” maschili Giglio si compiace narcisisticamente delle sue doti erotiche e delle sue qualità sessuali, nonché delle sue paure e delle sue fobie, estendendo questi “oggetti” ai suoi ricordi sotto la forma di amuleti che esorcizzano l’angoscia di fecondazione e di gravidanza. Si conferma sempre con maggiore evidenza quel sano “narcisismo” che si snoda a metà tra l’amor proprio e il culto di sé. Non è da meno il senso del possesso e i due fidanzati con la loro umana gestione. Giglio è una donna che si compiace del suo potere erotico e sessuale, una femmina che sa gestire il maschio di turno. Il suo “narcisismo” prevale sulla “genitalità” di un sentimento d’amore donativo. L’evoluzione psichica di Giglio oscilla tra la “posizione edipica” e la “posizione narcisistica” e trascura la “posizione genitale”. Decisamente è una donna che non si innamora follemente di un uomo, è una donna che avanza con giudizio e temperanza verso gli investimenti sugli altri, è una donna che si compiace delle sue capacità, è una donna che ha due uomini e oltretutto generici e anonimi, uomini senza qualità.
“Vado al bagno della mia camera in cui non c’è la porta ma solo una tenda di perline e, mentre mi sto sistemando, intravedo la figura di una ragazza che conosco ed è mia amica, l’unica del sogno, a parte mia madre, che vedo bene in faccia, che sta in piedi ferma nella mia stanza a guardarmi attraverso la tenda. Le dico “Samantha che fai?”, poi muovo un passo per uscire dal bagno e lei mi si butta addosso per aggredirmi.”
Il passaggio dalla zona intima degli affetti speciali e dei segreti pensieri alla zona erotica e sessuale è breve, del resto come sempre e come giusto. Giglio si era imbattuta in precedenza nei suoi gioielli femminili e nei suoi trofei maschili, le “pietre preziose” e gli “scorpioni” e i “nasi”, adesso va proprio in “bagno” dove, oltretutto, “non c’è la porta, ma solo una tenda di perline”, si coinvolge direttamente con il suo corpo e i suoi bisogni, “mentre mi sto sistemando”. La disinibizione narcisistica della donna ritorna venata di esibizionismo e di competizione al femminile, “intravedo la figura di una ragazza che conosco ed è mia amica”, una figura equiparabile alla madre in quanto oggetto di presa di coscienza. Giglio “sa di sé” attraverso la madre e l’amica, “sa di sé” come donna e come corpo perché si è identificata nella prima e ha assunto identità psicofisica tramite la seconda, l’altra da sé, una persona che esiste nella realtà esterna, ma che, a tutti gli effetti, è l’immagine di sé, il fantasma del suo corpo, la rappresentazione primaria dei suoi desideri e bisogni di bambina che si accinge a evolversi in donna. Questa “amica” la spia nella sua intimità, questa “parte psichica di sé” è in conflitto con l’immagine globale che Giglio ha maturato nel corso della sua evoluzione psicofisica. Samantha è la controfigura di Giglio, quella che si assume la parte aggressiva e che aggredisce, meglio si auto-aggredisce, quella che non si piace e che non si è mai piaciuta, quella “parte psichica di sé” che si schiera per il sacro e odia il profano o viceversa, la “parte psichica oppositiva” di Giglio rivolta contro se stessa, la parte “sadomasochistica”, quella che fa male e subisce il male. Giglio conosce molto bene se stessa “Samantha” e la madre. E’ proprio vero, perché sono i personaggi e le figure che la riguardano in prima persona, sono “l’introiezione” e la “proiezione” della madre e di se stessa nella versione non gradita e rifiutata, quella parte che non piace e che non si accetta. Qualcosa della sfera intima e privata del corpo e della mente non va proprio giù a Giglio e in questo modo ricorre a Samantha per evidenziare questa suo conflitto intrapsichico.
Ma cosa scarica Giglio su Samantha?
Quale materiale psichico traumatico Giglio addossa alla povera Samantha?
Importante continuare a vivere per sapere anche questo.
“Sopraggiunge un ragazzo dalla cucina per salvarmi e non so bene che fine faccia Samantha. Mi metto a parlare con questo ragazzo che però è un’ombra, non lo distinguo bene e stiamo un po’ in un abbraccio intimo e io percepisco la presenza del mio fidanzato n°uno che però nel sogno non c’è.”
Giglio scarica su Samantha tutta l’aggressività incamerata nell’evoluzione della sua “posizione psichica edipica”, della sua conflittualità ambivalente nei riguardi del padre e della madre, della sua psicodinamica evolutiva in riferimento ai genitori. Samantha condensa gli affetti legati alla “parte negativa” del “fantasma della madre”, quella che censura e impedisce i vissuti affettivi nei riguardi del padre, la figura in cui si è in qualche modo costretta a identificarsi per acquisire la sua identità femminile, quella che limita e vieta, la madre che impone i tabù e istilla il “Super-Io” sostituendosi al padre. Ricapitolando, Giglio sta sviluppando in sogno l’iter e la risoluzione della sua “posizione psichica edipica”, sta riesumando una tappa altamente formativa della sua evoluzione e mostra chiaramente la conflittualità ambivalente nei confronti della madre e dispone in discrezione il padre come figura importante e in parte rimossa nel suo “fidanzato n°uno”, come si diceva ampiamente nei precedenti iniziali capoversi. Mostra, inoltre, il suo distacco risolutivo nei riguardi della madre lasciando che prosegua la gita in Svizzera e riaggancia il padre nella figura del fidanzato n°uno di cui percepisce la presenza mentre sta in intimità con il nuovo ragazzo che la salva dalle grinfie di una invadente e aggressiva Samantha di cui non sa bene la fine che fa. Ricapitolando ancora e meglio di prima: Giglio si stacca dalla madre attraverso l’affidamento a un uomo, “il ragazzo che sopraggiunge dalla cucina” ossia dalla zona degli affetti condivisi e da condividere. Purtroppo, questo “ragazzo” seduttivo è evanescente, è “un’ombra”, viene dal suo Profondo psichico, dall’aldilà subcosciente, emerge dai suoi desideri di bambina e di adolescente e si porta sempre dietro la figura del padre, la prima ombra del fidanzato n°uno, quello che ancora non sa riconoscere come figura formativa della sua femminilità e delle sue arti erotiche e seduttive. Giglio “percepisce una presenza” come nei migliori film gialli, un fidanzato che in qualche modo tradisce e di cui dispone le fila. Proprio vero che il primo amore non si scorda mai e non si sposa. Giglio sta in intimità con un ragazzo “ombra” che la salva dalle grinfie della madre: questo ragazzo è l’erede della prima ombra, il padre. Quest’ultimo ha contribuito nell’economia psichica di Giglio alla formazione della strategia di approccio all’universo psicofisico maschile.
“A questo punto salta fuori che c’è un’invasione di Alieni in atto (sogno molto speso gli Alieni ma non mi spaventano, nei miei sogni sono sempre una guerriera) e che essi sono in grado di assumere le sembianze di chi vogliono.”
Ah, gli Alieni!
Ah, l’alienato, tutto quello che volevamo vivere di noi e non abbiamo fatto nascere in noi!
Ah, i mille personaggi in cerca d’autore che non siamo e che sappiamo ben interpretare per difesa dal coinvolgimento con gli altri!
Spuntano le difese sociali di Giglio. Scendono dall’astronave alla moda gli Alieni, arrivano i modi di essere e di esistere che la protagonista voleva incarnare e che per l’angoscia dell’indeterminato ha lasciato andare nell’evanescenza del Nulla e del “non se ne fa niente”. Gli Alieni “sono in grado di assumere le sembianze di chi vogliono”, hanno capacità mimetiche e mistificatorie, sono dei grandissimi bugiardi e non dicono mai la verità del “chi sono” e del “cosa vogliono”, sono degli impostori e degli imbroglioni di vasta portata che inquinano la società. Questa è la versione negativa dell’umana capacità psichica di empatia e di simpatia, di partecipazione e condivisione. Questa è la “parte psichica negativa” del “fantasma dell’altro”, quella che mi inganna e mi porta via sempre qualcosa e a cui non bisogna rivolgere la parola e addirittura affidarsi, questo è lo Straniero di Camus, la parte straniera di noi stessi che abbiamo definitivamente debellato criminalizzandola per paura e su suggestione dei nostri incauti e superficiali genitori. E così Giglio è cresciuta “guerriera” per difendersi da se stessa, dalle sue giuste paure e dalle altrui ingiuste angosce. La mamma istilla, suggerisce, mette dentro il cuoricino della bambina a mo’ di insegnamento i suoi traumi di donna adulta e le sue esperienze andate a male come il latte fresco di giornata il giorno dopo. Il padre c’è e non c’è, il padre ha fatto meno danno, il padre è rimasto nel limbo delle figure da salvare per amore indicibile, mai detto, mai profferito. Una Giglio censurante e oltremodo “superegoica” mostra in questo siparietto finale i suoi tabù, i suoi divieti, i suoi “verboten”, le sue difese inutili verso il resto del mondo e proprio quando le aperture all’esterno sono costruttive e necessarie per una giusta evoluzione psicofisica. E’ come se Giglio andasse contro corrente e si rinchiudesse nel mondo di Narciso per non coinvolgersi con i fidanzati n°tre, n°quattro, n°cinque, n°enne. “Giglio nei sogni è sempre una guerriera”, ma sicuramente è arrivato il tempo di far riposare questa “guerriera” dopo tanto inutile stress. Ben vengano gli Alieni a portare la loro buona novella se serve a “sapere di sé”, a una migliore autocoscienza. Giglio non deve combattere contro se stessa e le sue produzioni psichiche innovative ed evolutive, contro i suoi “Alieni”, non deve alienare il suo prodotto psichico interno lordo per paura di coinvolgersi nelle stranezze di una vita alla grande e spericolata. Gli insegnamenti della mamma e i silenzi del padre devono lasciare il posto alla normalità dell’anormale, alla convivenza con gli Alieni dentro e fuori, alla condivisione delle esperienze e delle avventure.
“Io mi metto a cercare una pietra in particolare che non salta fuori. E’ una pietra nera con dei puntini azzurri che ha la capacità di curarmi e farmi cogliere l’origine dei problemi.”
Giglio sa di non stare bene e di avere bisogno di una cura che verta sulla consapevolezza delle cause dei suoi mali, “l’origine dei problemi”, una psicoterapia psicoanalitica che, risalendo per libere associazioni alle esperienze significative della sua vita, le dia quell’equilibrio e quella sicurezza insieme a quella tranquillità dell’animo che non guasta mai come lo zucchero nel caffellatte dei bambini. E allora Giglio tira in ballo la sua bambina dentro e il suo pensiero magico, i “processi primari” che che usava nell’infanzia e che si chiamavano con una sola parola la “Fantasia”, il pensare per allucinazioni e per fantasmi, l’andare contro il “principio di realtà” a favore del “principio del piacere”, l’esaltare le pulsioni e abolire i divieti, tira fuori il suo Harry Potter e la sua “pietra” filosofale “nera con dei puntini azzurri”, quella che ha la capacità taumaturgica della presa di coscienza, della riflessione su se stessa e sugli eventi della propria formazione ed evoluzione: il possesso mentale delle cause. Giglio estrae dal suo cilindro di prestigiatrice la magia, per arrivare alla “interpretazione” e alla “razionalizzazione” delle cause insieme al suo analista, al suo “salvatore”, che, come Ermes, comunica la volontà degli dei ai mortali. La magia è una pratica antichissima che ha il sapore dell’eternità semplicemente perché è la prima forma mentale di tutti gli infanti, di tutti coloro che sono ancora senza parola ma pensano e pensano tanto e di tutto. La Magia si basa sul meccanismo di difesa dall’angoscia dello “annullamento”, che si attesta nella conversione accettabile e gestibile dell’angoscia attraverso il rito, attraverso l’esorcismo di un divieto. La Magia si basa sul meccanismo di difesa dall’angoscia dello “spostamento” attraverso la costruzione del “feticcio”, la “pietra nera con dei puntini azzurri”, quella “che non salta mai fuori” e che esiste da qualche parte del culo del mondo, quella che, semplicemente usando la Ragione” deterministica, arriva alla “atarassia” per la via preferita dalla Cultura occidentale, la “razionalizzazione”, il meccanismo principe di difesa dall’angoscia che non è mai abbastanza, a conferma dell’umana debolezza che connota la creatura privilegiata di Dio o di Madre Natura, l’uomo, il solo animale vivente che soffre della malattia mortale, che è malato della consapevolezza della fine, della coscienza della morte e dell’assurdità della vita che si conclude nel niente. Eppure Giglio ritorna bambina e rispolvera il suo pensiero magico per risolvere le sue angosce. Vediamo la conclusione di questa lunga cavalcata nelle praterie psichiche durante il sonno, nel pensiero del sonno, il sogno.
“La cerco invano ovunque dentro la casa insieme a questo mio salvatore, finché non appare un alieno nella stanza ed io lo sconfiggo in uno scontro corpo a corpo.”
Giglio cerca “invano” la sua “kaba”, la pietra nera della sua religione psichica “dentro la sua casa” psichica insieme al suo “salvatore”, ed ecco che appare un “alieno”, un trauma, un non vissuto, un fantasma, un conflitto, una semplice fantasia o un semplice fatto, su cui Giglio insieme al suo salvatore analista può esercitare e far pesare la forza della Ragione e della “razionalizzazione”. Inizia lo scontro corpo a corpo con se stessa e in particolare con quelle “parti di sé” che si sono opposte alla sua integrità e armonia psichiche, gli Alieni per l’appunto, che aspirano a essere capite e riassorbite nel tessuto connettivo di un Corpo fatto di carne e ossa e di una Mente fatta di fantasmi e di ragionamenti. Alla fine del tragitto e dei tanti conflitti a Giglio resterà l’ultimo combattimento, la risoluzione del “transfert” esperito verso il suo analista, la liquidazione del vissuto emotivo e affettivo maturato nel corso del viaggio insieme al suo navigatore al fine di acquistare definitivamente la sua autonomia psicofisica.
E’ possibile tutto questo?
Decisamente “non potest” e “non possumus”, ma tentar non nuoce. Non è possibile liquidare relazioni e vivere da soli, a meno che non ci si trovi nel carcere della follia. E allora ben vengano le dipendenze e tutti i tentativi di liberazione che nel corso dell’esistenza intentiamo contro e a favore di noi stessi.
Il sogno di Giglio merita ulteriori riflessioni, ma si può concludere qui.