NOSTALGIE
In un nero asfalto rovente di luglio,
nel
blu terso ma ingannevole del cielo,
stava,
una
tra tante,
la
palazzina più improbabile per una vacanza estiva.
In
uno dei suoi interni abitava nonna Amalia.
Ogni
mio ormai lontano ricordo estivo si perde lì,
tra
un miscuglio di odori e fragranze amorevoli
e
piccole grandi storie di vita.
“Cossa
ti vol par cena, ‘more?”
“ Pasta
e fagioli, nonna!”
Colonnina
di mercurio alle stelle,
non
una bava che spirasse gentile …
ma
nemmeno un’esitazione:
con
il grembiule colorato accuratamente allacciato
in
due asole dietro la schiena,
nonna
Amalia dedicava volentieri il suo pomeriggio
alla
lunga trafila del minestrone di fagioli …
la
sua Vellutata.
L’odore
carezzevole non impiegava molto
ad
uscire dal cucinino
e
a diffondersi disubbidiente ovunque.
Dalla
poltrona nera,
in
un angolo della sala da pranzo,
gambe
rigorosamente accavallate e calzino al ginocchio,
spalle
magre ed incavate
ed
il baffetto nero in un viso emaciato ma sorridente,
il
nonno guardava.
“Ainsandra!”
chiamava, camuffando il mio nome.
“Assa
star el pan, ché no’ te magni pì!”
E
misurando le parole
per
non affaticare il respiro già rapito dalla silicosi,
richiamava
alla memoria la sua prigionia,
sul
finir della seconda Guerra,
per
aver rubato una patata …
“Quanta
era la fame?”
E
la nonna, sorridendo:
”Ghe
gera toni e rombi tutto el dì …
aerei
che voeava bassi!
Bruta
a guera!
Ma
to nono el gera al sicuro … in preson!”
Rubare
una patata?
Felice
per una prigionia?
Avere
il coraggio di sorridere
seduto
in una sedia nera
a
contare i giorni di un vita che si sta spegnendo?
Cucinare
con l’unico intento di far felice qualcuno che non sia te stesso!
Chi
oggi?
E
chi passerebbe mai una vacanza estiva
al
caldo del secondo piano
di
una palazzina odorosa di pasta e fagioli,
tramutando ora quel semplice passato in un nostalgico presente?
Alessandra
L’estate dell’infanzia non è un tempo,
è
un luogo,
un
trasferimento di elementi dal dovere al piacere,
la
felicità,
la
corsa,
l’aria
calda,
la
grande noia sdraiati sull’asfalto.
Non
scorre,
attraversa,
è
la vita parallela possibile e certa.
Un
ponticello di legno tra la fine di maggio
e
l’ottobre piovoso del ritorno,
mica
lo vedi crescere un papavero,
nemmeno
se lo guardi fisso e a lungo.
Però
trasmuta in un girasole alto e giallo,
in
una pannocchia con le foglie secche,
le
favole imparate a scuola
in
fila davanti al grande orizzonte che si dipana.
“Bambiniii”,
urlava
la mamma dalla finestra della cucina,
“È
pronto, a tavola!”.
E
di corsa, la gara a perdifiato,
sandali
coi buchini tagliati sul davanti
e
chi arriva prima domani è il capo della banda.
La
cena con la mamma e la nonna, che bellezza!
Arrivava
l’ora delle storie,
quelle
della guerra,
quelle
della fame,
quelle
che come siete fortunati voi non lo sapete,
non
mangiare prima di cena,
lavati
le mani e siediti composta.
E
la polenta cucinata nella fornesela,
con
gli anelli tolti ad uno ad uno,
fino
a far sprofondare il paiolo
nel
buco magico di quel forno estuoso.
La
nonna sempre vestita a modo,
la
gonna sotto al ginocchio e la camicetta,
non
si sa mai se ti succede qualcosa,
bisogna
arrivare decorosi all’ospedale.
Non
una goccia di sudore,
la
grande abitudine al dovere.
E
noi,
gambe
sbucciate,
capelli
arruffati e piedi sporchi,
noi,
un futuro da insegnare, curiosi e attenti all’estasi dei grandi.
Vorresti
andare al mare?
No,
voglio dormire con te e la nonna, questa notte,
e,
se un giorno muori,
promettimi
che avrai una bara matrimoniale,
perché
vengo con te.
È
estate,
non
è ancora tempo per morire.
E
le cicale, fuori, e i grilli,
e
dormire subito col capino sulle tue pappe,
mamma.
Sabina
Amalia abiit.
Amalia
è partita con il respiro affannato dalla polmonite,
l’animo
sereno di chi sa il cammino,
l’intelligenza
raffinata di sempre
dentro
quel corpo ineffabile di donna
di
un popolo che non c’è più.
Amalia
è un sogno inventato all’alba in quattro e quattrotto,
un
desiderio impudico di mangiarsela tutta,
una
certezza dell’amore quando l’amore è cresciuto.
Amalia
è
una
donna che
ha dentro tutti
i
suoni
di
un’orchestra di periferia,
una
marea di strumenti a
due passi dalla laguna,
tra
la campagna e il cielo.
Amalia
solum
abiit,
non obiit.
“O nonna, o nonna, come sei bella!
La
racconti ancora alla tua putea la novella
di lei che cerca il suo perduto amor?”
“Sette
paia di scarpe ho consumate per ritrovarti.
Sette
verghe di ferro ho logorate
per
appoggiarmi nel fatale andare.
Sette
fiasche di lacrime ho colmate,
tutte
di lacrime amare.”
E
tu?
Tu
dormi alle mie grida disperate.
Il
gallo canta
e
non torni ancora al tuo paese.
Intanto
ansimando fugge la vaporiera
e
io resto sola come l’aratro in mezzo alla maggese.
Cura solum ut valeas, mea dulcissima avia!
Salvatore
Ero piccola.
Quand’ero
piccola, una delle cose che mi piaceva di più
era
scivolare sugli scalini di marmo nella casa della nonna.
Era
una vecchia casa,
una
casa vecchia come la mia nonna.
Gli
scalini erano bassi, larghi e arrotondati.
Potevo
tranquillamente andar giù senza farmi male.
Nella
mia fantasia bambina ero tanti personaggi:
un
bel cavaliere medioevale,
un
coraggioso capitano di ventura,
un
sordido lanzichenecco,
un
povero soldato,
un
fedele legionario,
un
perfido mercenario.
In
ogni caso ero sempre un maschio, mai una femmina.
In
ogni caso ero sempre armata, mai indifesa.
Tutto
questo succedeva quand’ero piccola,
quand’ero
bambina,
quand’ancora
non pensavo da grande,
quand’ancora
non avevo la valigetta ventiquattrore e l’ombrello firmato,
quand’ancora
non nascondevo i seni dentro un classico doppiopetto,
un
doppiopetto decisamente maschile, oltretutto gessato.
Scivolavo
e immaginavo.
Scivolavo
e mi perdevo nelle mie fantasie.
Iniziavo
dal secondo piano perché dal terzo non si poteva.
Al
terzo piano c’era il soler,
il
granaio lungo e buio,
l’emblema
di spazi paurosamente ignoti,
la
casa sonora dei topi,
il
luogo del tempo passato,
la
carta d’identità della mia stirpe.
Dal
secondo andavo in giù fino al piano mezzano
dove
c’era il mobiletto intarsiato con sopra il vaso decò.
Poi
mi restava l’ultima rampa,
quella
che mi sbatteva ai piedi della luminosissima porta d’entrata,
la
porta del mio paradiso.
Il
salone era regolare con il suo pavimento di marmo,
una
distesa di giallo e di rosa.
Ai
lati erano disegnate delle bande rosse
che
sventravano la casa da nord a sud tra due signorili punti luce.
Proprio
qui a Natale trionfava l’abete
dentro
un vecchio tino ricolmo di terra nera,
l’albero
più vero e più vivo del paese.
Tutto
era secondo natura dalla mia nonna.
Tutto
era secondo cultura dalla mia nonna.
Come
si mangiava bene dalla mia nonna!
La
mia nonna faceva gli gnocchi freschi con le patate del Piave
e
le polpette di carne col pan gratà e il prezzemolo.
La
mia nonna faceva il risotto con i porcini del suo bosco
e
lo speo de costesine de porzel e il cunicio.
La
mia nonna faceva le cotolette di manzo con l’aceto
e
le patatine fritte con l’olio extravergine d’oliva.
Qualche
volta mi faceva anche i bastoncini di merluzzo,
quelli
del capitano con tanto di cappello dorato,
perché
la mia nonna nel tempo si era fatta più moderna.
Quanti
riti dalla mia nonna!
Il
rosario si recitava tutti insieme il primo novembre,
il
giorno di tutti i santi e il giorno prima del ricordo dei nostri
morti,
dopo
aver mangiato le castagne arrostite sulla stufa a legna,
quella
con i cerchi concentrici di ferro che si tiravano su con la pinza
per
muovere la legna e fare tanta fiamma.
E
per san Nicolò al mattino trovavo la bambola di pezza
insieme
ai melograni e alle noci nel piatto di coccio accanto al letto.
E
poi, ogni cinque gennaio, di sera, si bruciava la vecia
nella
granda buberata,
si
mangiava la pinza con l’uvetta e le nocciole,
si
beveva un goto de vin santo
e
si traevano gli auspici per i prossimi raccolti
in
base ai capricci del vento e del fumo.
Quant’era
bello!
Sapevi
chi eri, dove stavi e dove andavi.
Ma
la nonna non era sola.
Viveva
con lei la prozia,
secca
come un baccalà e brutta come la fame di febbraio.
La
prozia diceva sempre che niente le passava dal gargarozzo
e
che riusciva a mandar giù soltanto yogurt e ricotta.
Epperò!
La
strega ciabattava con le sue pattine
e
si trascinava come un fantasma per fermarsi davanti alla tv
e
così potevo dar l’addio ai cartoni animati.
La
prozia era tanto cattiva
e
non capivo come potesse vivere con la mia nonna.
Lei
era tanto buona e mi chiedeva sempre del mio papà.
Con
lui non sei felice vero?
No,
con lui non sono felice,
è
vero,
ma
neanche con la mamma sono felice
ed
è vero.
Io
li volevo tutti e due e insieme.
Anca
se i litighea,
dovevano
stare insieme per me,
dovevano
farlo per me,
per
quella loro bambina che non aveva mai chiesto di nascere
e
tanto meno nella loro casa.
Lassem
perder!
Andiamo
a cogliere i lapoi nell’orto e i fichi dall’albero,
ma
non quelli spappolati sull’erba e mangiati dagli osei.
Prendiamo
anche i fiori di zucca
che
poi ti faccio le frittelle.
Che
brava la nonna!
Che
buona la mia nonna!
Ma
la bambina è confusa,
tanto
confusa al punto che confonde la B con la V e viceversa.
Ma
che malattia è staquà?
E’
tutta colpa delle maestre che non sanno fare più il loro mestiere!
Intanto
nel roseto della nonna c’è un gallo e una gallina con i pituset,
un
nanetto di marmo senza più colori addosso,
una
rana verde per il muschio e per la rabbia di non poter saltare,
la
cuccia di cemento di Briciola con le pignatte dell’aqua e del pan,
qualche
stroz di qua e qualche stroz di là.
Tutto
è come dio comanda.
Sul
davanti il giardino è più curato,
anche
il fosso è pulito e pieno d’acqua
e
sembra un ruscello.
Ci
sono le violette dove prima c’erano i noccioli.
Quante
noccioline tostava la nonna
e
quante torte faceva con il lievito Bertolini!
E
quando si andava a letto?
Sentivo
il fruscio del copriletto di raso color porpora,
sentivo
lo scricchiolio dell’armadio di noce
e
della specchiera in legno massiccio scuro.
La
nonna diceva sempre che il legno era vivo
e
che di notte si muoveva per sbadigliare.
Quanta
paura!
Nonna,
nonna,
vieni
qua e stai con me.
Nonna,
se
resto qui stanotte a dormire,
tu
non muori, vero?
“Ma
va là,
sta
bona.
Cossa
di tu mò?
Vien
qua,
giochemo
a indovina indovinello.
Cominicia
per A e finisce per E.
Cossa
eo poh?
Son
qua ai pie del let.
Ociu
che te ciape!
Le
frittelle dovevi portargliele,
o
Caterinella,
altrimenti
non avresti dovuto chiederghe la farsora.
Le
campane da Maron le sonava tanto forte da buttare giù le porte,
le
porte le iera de fero,
volta
la carta e ghesè un capeo.
Un
capeo?”
E
io immaginavo le carte
e
mi addormentavo bona bona come voleva la mia nonna,
mentre
il mio papà chissà dov’era.
Lui,
però, è un poverino
perché
non sa cosa si è perso.
Lui
ancora oggi non sa cosa si perde.
Ma
io sì,
io
so cosa si è perso
e
cosa si perde il mio papà.
Si
è perso
e
si perde una vita di cento e mille anni.
Poverino!
Lui
è solo
ed
è solo perché in vita sua non ha mai avuto una nonna come la mia
e
una cucina come quella della mia nonna.
Eppure
quella era la sua mamma.
Eppure
quella era la sua casa.
Jessica