L’ERBA DEL VICINO

Adorabile è il gioco degli specchi

in cui l’adorata si pone da sola

e al centro di se stessa.

Il Cantico lo dice a chiare note:

come mite gazzella porta le labbra procaci e i seni intonsi

nel verde pascolo dove nulla è mancante

se tu sei con me.

Anche se non ci sei,

nulla è mancante

perché io ti penso.

Il narcisismo è una caratteristica maschile.

Nessuna donna va alla conquista di se stessa,

tanto meno si annega alla fonte risorgente di Ciane o di Aretusa

o si trafigge di acuminato pugnale nel prospero petto.

Narciso fa a meno di Eco,

la bellissima tra le belle,

colei che ancora vibrando risuona per valli e per monti.

Anche Orfeo piange l’amato bene perduto,

mentre la morbida Euridice scende nel regno degli Inferi

abbracciata all’ispido e irsuto Ades.

Questo è l’amore,

l’amore del possesso:

un capitalismo di guerra,

uno Smith che si marita in un soviet con Keynes.

Tu e io definiamo identità in opposizione

ciascuno pescando nel mondo dell’altro:

tu femmina, io maschio,

tu maschio, io femmina.

Il sillogismo è bello e servito.

Concludi tu,

tu che mi arricchisci con la tua visione balzana dell’universo,

una weltanschauung alla carlona e degna di un visionario,

un manicomio fascista e democristo prima dell’amico Franco,

un timballo di melanzane carnose e polpettine con salsa di pomodoro.

Ma la paternità di ciò che tu muti è mia,

la maternità di ciò che tu muti è tua.

Alla fin fine la Vita è Poesia.

La grande consolazione è la grande Bellezza.

Tutto questo mi sembra di gran lunga sufficiente

per accorgersi del miracolo,

per gridare inseguendo un goal e con tanto di mortaretti notturni:

evviva,

evviva,

abbiamo fatto ancora una volta la festa al Santo”.

Sava

Carancino di Belvedere, 21, 05, 2021

THANATOS

Thanatos

ci attanaglia,

ci tampina,

me tapina!

Avanti un altro tampone

per il prossimo coglione

che negligentemente ci rovina.

Quanti cani dovete portare a pisciare, cagare, sniffare?

Scusate l’espressione,

di sicuro preferite la locuzione

“fare i bisognini”.

I negozi per animali devono restare aperti

per i nostri amici a 4 zampe, poverini!

(Ma prima, d’estate li abbandonavamo nei cigli delle autostrade).

E in Africa ci siamo dimenticati da decenni

della moria di denutriti bambini.

Ognuno ha le sue priorità,

le sue verità,

le sue velleità,

le sue vanità.

Oddio!

Come farò senza la parrucchiera,

l’estetista, la manicure e la ceretta?

Ma dove devi andare?

A CASA DEVI STARE!

Vedrai la ricrescita bianca,

le gambe irsute, le unghia non limate e pittate,

ma sentirai il mio CUORE,

quando la sera ti sentirò rientrare

e senza baciarti

ti chiederò:

come stai Amore?

Giulena

Palermo, lunedì 30 del mese di marzo dell’anno 2020

CORAGGIOSETTI

Il gattino è arrabbiato

e non vuole il suo gelato,

vuole una gatta da pelare

ma qui siamo in riva al mare

e non ci son gatte da pelare,

(tanto meno che si fanno pelare).

Ci son chiappe da pescare

sempre qui in riva al mare,

(tanto meno che si fanno pescare).

Coraggioso è più arrabbiato

e mi mostra il suo palato,

vuole un topo per giocare,

ma qui siamo in campagna

e il topino ha il cervello fino,

(come il contadino e le sue scarpe grosse),

e non vuole giocare con Coraggiosetti,

tanto meno con i suoi simili e gli affini.

Coraggioso è oltremodo arrabbiato

perché Salvatore non l’ha cagato

e di coccole e coccolezze

non ha avuto le dolcezze

e allora con un balzo gli si appioppa sulla gamba

per la pasta quotidiana

e il ronfare manifesto.

O poeta,

o contadino,

prima fammi un buon grattino,

poi dammi un formaggino

che lo mangio senza panino,

io ti faccio poi la pasta

e tu la inforni per la pizza

nel tuo forno Clementoni.”

Se questa poesia è futurista,

io sono un qualunquista,

un desgrassià de Buenavista,

un veneto fugace

che in Sicilia fugge e non trova pace.

Salvatore Vallone

Karancino di Belvedere, 06, 07, 2023

TUTTI O QUASI NESSUNO

Tutti abbiamo bisogno di un dio,

io nodio,

tutti abbiamo bisogno di un santo,

io nosanto,

tutti abbiamo bisogno di un padre,

io nopadre,

tutti abbiamo bisogno di un grande fratello,

io nograndefratello,

tutti abbiamo bisogno di un drago,

io nodrago,

tutti abbiamo bisogno di una reliquia da baciare,

io noreliquia e tanto meno da baciare,

tutti abbiamo bisogno di un vaccino,

io novaccino,

tutti abbiamo bisogno di un green pass,

io nogreenpass,

tutti abbiamo bisogno di un super green pass,

io nosupergreenpass,

tutti siamo questuanti e replicanti,

tutti siamo claudicanti e impertinenti,

tutti siamo insolenti e sbeffeggianti,

tutti siamo sciancati e svarionati.

Anche tu, mona!

Per il momento dimmi, per favore e per forza, chi sei,

altrimenti chiamo i carabinieri,

la polizia,

la finanza,

la forestale,

i vigili urbani e municipali,

chiamo Bepy mona,

chiamo sempre qualcuno,

chiamo il capo dei capi,

colui che si chiama Gino,

non Gino ginettaccio,

il maledetto cagnaccio in bicicletta,

Cerutti Gino,

l’amico di Giorgio,

quello del bar del Giambellino,

il figlio del ciambellano della riforma fascista del vocabolario,

per l’appunto ridetto ciambelculo,

Cerutti Gino,

quello che chiamavan drago,

gli amici,

sempre al bar del Giambellino,

dicevan ch’era un mago,

era un mago,

era un mago,

il napoletano delle tre carte nella fiera di Godega di sant’Urbano,

quello che incanta il bilancio all’incanto,

quello delle tre banche e delle sette sorelle,

quello dei quelli della signora Orietta,

tu sei quello

che s’incontra una volta e mai più,

meno male,

meno male che tutto va bene,

meno male,

meno male,

meno male che niente va male,

meno male,

meno ma.

Basta,

basta una sola volta,

la seconda non riesco,

la seconda non la reggo,

ho la mia età,

ho i miei traumi

e non posso esternarli in tivvù

dalla signora dei traumi antichi e anali,

quella dell’università goliardica e arruffona

che fonde e confonde le tette con le gote,

basta una sola volta,

mi creda,

egregio perito di laboratorio e tecnico dell’assicurazione,

egregia infermiera che sgobbi,

egregio dottore della tele,

egregio professore del santo Camillo e del santo Raffaele,

profeti messi insieme a ciucciar coca cola e ciupaciupa,

i nostri leccalecca dell’infanzia inquinata dal d.d,t.

ai bordi del lettino dell’orfanotrofio Fatebenefratelli,

basta una sola volta,

perché altrimenti son veramente cazzi vostri.

Intanto balliamo con le stelle sotto le stelle,

non nelle stalle del potere,

le stanze della lirica e le strofe della poesia

che odorano di palle di merda e di celluloide.

Intanto balliamo con le palle e le sventole.

Domani ci penseremo,

domani penseremo chi vuoi for president.

Noi vogliam dio che è nostro padre,

noi vogliam dio che è nostro re,

noi vogliamo il puffo con i capelli incollati,

noi vogliamo il buffo in costume da bagno sulla spiaggia di Scilla & Cariddi,

noi vogliamo il pacioccone con il maglione di turno,

noi vogliamo la vispa Heidy con le lentiggini sul desco patrio fiorito,

noi vogliamo essere padroni,

ma nessuno è padrone di se stesso,

noi non siamo seguaci di Karl, del baffone e del capellone,

noi seguiamo il vento come tira a Monza

e come non tira nella bonaccia della vecchiezza.

Intanto ho bisogno di una rete o di un prete,

una buona rete di nylon e un buon prete di lana caprina,

dammi una rete e un prete

per pescare gli uomini di buona volontà

e le donne ingenue e giuste

che vanno dalla sgionfa e dalla brisolada

a far menate oscene in pubblico pagante,

voglio una rete tivvù per dire stronzate stratosferiche,

per fare potacci con i tortelli e potaccetti con il ragù,

per sbarcare il lunario cotidie e con la giacca double face,

per fare spettacolo da filosofo sempre incazzato

e da mattaccin del beneamato circolo Picnic,

per vendere il panettone delle quattro sorelle vergini e gravide,

per giocare con il mercante in fiera,

in casa in ospedale,

dappertutto,

un mercante dappertutto.

Tu aiutami,

tu che sai e che non sei,

dammi il salario per il sale,

dimmi che tutti siamo liberi e schiavi,

tosatei imberbi e putee in menarca,

gente mai cresciuta in questo diuturno ballo di san Vito,

mentre il fuoco di sant’Antonio impazza nelle piazze e nei circhi,

tose nobili e timidette,

tosatan dalla vita bassa nei pantaloni e nelle palle,

tutti imbroglioni della migliore risma di carta marcata Fabriano,

tutte imbrogliate dalle multinazionali del petrolio e del crimine,

dagli editori a largo profilo,

dalle influencer di riferimento,

mentre in Siria nasce un bambino dagli occhi cerulei

e in Afganistan nasce un bambino dagli occhi neri.

Salvatore Vallone

Carancino di Belvedere 24, 12, 2021

IL SOGNO E’ POESIA

Io ti dirò,

ti dirò qualcosa,

ti dirò qualcosa d’importante,

d’interessante,

non ti dirò che mi piaci,

né che questa notte diventa poesia perché ci sei tu,

non ti chiederò i baci che ti ho dato

e che ancora non mi hai restituito,

non mi lascerò andare alla melissa nostalgia

in questo tragico frangente del mondo intero,

non ti lascerò un fiore sul cuscino o una lacrima sul viso,

come da copione nei romanzi di Liala,

come da rituale nelle canzoni di Nilla e Bobby,

non ti chiederò perché da me sei andata via

dopo che ti ho aiutata a vincere la balbuzie e la pollachiuria,

non ti dirò dei grandi sacerdoti crudeli

che ancora uccidono in nome del deus ex machina

e stuprano in nome della disonesta castità ideologica,

non parlerò della colorata madonna di gesso

che ci onora a tavola con i cibi prelibati della tradizione,

io ti dirò,

io ti dirò soltanto che il sogno è poesia,

la tua poesia bella, buona e brava

come la Gianna dagli occhi blu,

quella di cui sono follemente innamorato,

come la pubblicità dei biscotti alla nutella,

come la disposizione a delinquere dei colletti bianchi,

come le tangenti e i pizzini dei mafiosi introvabili,

io ti griderò buongiorno,

poi canterò buongiorno a questo giorno

che ti vede senza di me,

buongiorno al latte e al caffè,

buongiorno a chi dorme sorniona e libertina

con le braccia conserte fuori dalle coperte

in questa giornata di sole antico e futurista

come il vino e il pane degli emirati e dei reami,

come il pane e il vino di Marcellino e di fra Pappina,

io ti griderò di stare attenta,

attenta alla botte di piombo che ti libera

quando agiti le mani tendenziose

per salutarmi alla stazione di Conegliano,

mentre slacci le culotte in pizzo e cotone nell’albergo a ore,

mentre io indosso appena uno slippino in microfibra

che fa tanto danno ai testicoli,

specialmente in età senile o dintorno ai vent’anni,

perché se andiamo avanti di questo passo

non ci saranno più bambini furbi o scugnizzi arditi

a fare il girotondo intorno al mondo di Sergio,

semplicemente perché le donne non ci vogliono più bene

se portiamo la camicia nera o a pois con cinque stelle.

Ardimento delle mie brame,

o Ardimento,

regalami una faccetta nera dell’Abissinia

in maniera che io posso farla romana

senza che aspetti e speri un posto

in un parlamento a strozzo e a spruzzo

da tempo occupato come un cesso pubblico

dai soliti compari di madama Dorè

che se la intende per interesse con madama Santè.

O Ardimento,

liberami dal male di tanta malora a spezzatino,

cucinata allo spiedo arcobaleno

negli scantinati scandalosi del colle Vaticano,

mentre la signora Maria cura i migranti

in procinto di occupare Ortigia con le loro mercanzie,

liberami dai preti inutilmente spretati

e dalle suore ferocemente insuorate alla camomilla,

antesignane dei tiranni cocainomani

e di quella immarcescibile vergine cuccia

che becca ancora il piede villan del servo

e che ancora nudo andò,

spogliato dell’assisa clericale

e delle accise politiche sulla benzina,

onde era un giorno venerabile al vulgo,

liberami dai padroncini incandescenti della val padana

e dagli schiavi inconsistenti della pianura asiatica,

insegnami a dormire sonni eterni

e a sognare sogni contingenti

dove libertà e necessità coincidono

in un grande bordello filosofico di tesi, antitesi e sintesi,

spiegami il delirio detto da Hegel

e ridetto dal professore fumatore della scuola,

quella dialettica tra razionale e reale e tra razionale e reale

che mi ha spaccato i maroni a Combai

e i marroni nei banchi di scuola,

in quel Liceo che di Aristotele nulla aveva,

che di tanta gentaglia ignorante tutto possedeva.

Ricordati che il meglio deve ancora venire,

che si trova tra le anse del numero settantasette,

che si ritrova tra le coperte di un rifugio antiaereo

dove si concepivano i bambini a ufo e a sbafo

per esorcizzare l’angoscia di morte.

Sia lodata la guerra.

Oggi e sempre sia lodata.

Salvatore Vallone

Carancino di Belvedere, 10, 01, 2023

HELPMY

Tres cher la mon chere,

helpmy,

ti prego.

Go bisogno de ti,

tanto bisogno di Gloria.

Da tempo non ti scrivo,

da tempo mi sono innamorato di Gianna,

da tempo non mi scrivo e non mi diverto,

da tempo non m’importa

dove sto andando con la poesia e la magia,

cosa mi rende glaciale come un pinguino

in questa terra così bella e così cara.

Se il vento fischia o nevica la frasca,

io non voglio tornare in quel paese

dove Ercole pose li suoi riguardi a Odisseo

a che più oltre il codardo mentitore non si metta.

L’amor del qual Penelopè dovea far lieta

lo sparava tra Scilla e Cariddi con le sirene della tivvù,

con i sireni e i sirenetti del festival fiorito del santo Remo

ai bordi insani dell’eterna menzogna del quasi nulla,

prope nihil per gli istruiti.

Resto libenter in questa meravigliosa isola

invidiata anche dal suo artefice criatore,

quel buon dio degli Ebrei

che anche Federico lo svevo irrideva blasfemo

quando non aveva le quattro paghe per il lesso e per l’arrosto,

quando soggiornava concupiscente nel castello di Ortigia

tra spifferi e bagasce,

tra odalische e odalischi ensemble,

quando il guerriero riposava il martello come re Carlo

senza pagare il prezzo del sudario preso in affitto.

Sai,

ancora ho seme,

poco ma buono per seminare a novembre,

quando la nera terra ti sorride e t’incanta,

semenze di zucoi e talleri,

semenze di cucumeri e kartofen,

semenze di bietole e favette,

semenze di bisi senza i risi,

ancora ho seme

tra le pieghe dell’anima defunta,

tra i meandri dei testicoli erniosi.

Vivo,

vivo sotto le stelle di Orione

con la sua clessidra sulla testa,

ancora vivo su questa terra

da libero schiavo d’amore,

un trovatore della scuola poetica di Panormo,

perché Gianna mi ama e non mi ama,

è riottosa e fa la chantosa.

Tres cher e mon chery,

dimmi orsù e immantinente,

ti piace ancora la mia poesia?

Indicami la strada,

tu che hai capito dove sono pervenuto,

proprio tu che sai di tutto e di niente,

che prosperi in lungo e in largo tra le tivvù e i giornali.

Non importa il resto e il permanente.

Tendi sempre al Sublime,

l’intreccio tra l’immensamente grande

e l’immensamente dinamico: Immanuel.

Sempre tuo

e tutto tuo mi firmo:

Salvuccio Lagrange Sinagra,

detto Totuccio o Totonno

e ancora in latitanza.

Post scriptum: avrei voluto essere una rima,

ma solo Gianna fa rima con manna

e non può essere una mamma

perché qualcuno volò violentemente sul nido del suo cuculo.

Che gli venga un accidente e peste lo colga!

Salvatore Vallone

Karancino di Belvedere, 25, 02, 2023

AH AH AH

missili R-60 Neptun

le navi di Putin

guerra giusta

pacifista cieco

pacifista con la testa sul collo

musica nell’ammasso di Perseo

i buchi neri suonano

aerei F-35 americani

aerei F-16 americani

onde di pressione

esecuzione ensemble

assoli

suoni di stelle morte

Carancino di Belvedere

Salvatore

Vallone

10, 05, 2021

 

CARTAGO DELENDA EST

L’albicocco è fiorito a chiazze in questo giardino d’inverno

tra gelidi scrosci di acqua radioattiva

e morbidi acquitrini stagnanti da tempo indefinito e indefinibile

per diventare finalmente una palude famosa e fumosa

sotto i flash della Press internazionale

che sfruculia a destra e a manca in cerca dell’ignoto,

del sapere occulto,

della testimonianza segreta,

del cavolo a merenda,

dell’io so quello che tu non sai

e che non potrai sapere mai.

Anche i fiori dorati del tiglio si fanno la guerra

in questa primavera omicida e grigiagnola allo zolfo puzzolente

e tentano la scalata al magico potere di un frutto

che da acerbo diventerà maturo

e pronto per la solita scatola di latta

della Arrigoni di Odessa,

della Valfrutta di Kiev,

della Santarosa di Leopoli.

Cartago delenda est!”

Cartago delenda est!”

Cartago delenda est”

va gridando Cato maior

temendo di degenerare in minor.

Ahi Catone,

vituperio delle genti,

xenofobo incallito,

nazionalista infame

che adeschi le pulzelle di Orleans

per farne sante sugli altari della sacra Patria

insieme all’amico Cirillo!

Censura,

censura, o illiberale, le lettere di Jacopo o di Hanna,

le missive di don Michelino dal fronte russo a quello ceceno,

dalla cazzuta Ucraina alla mite Bielorussia,

condanna al cilicio i padri che disconoscono i figli

per poi adorarli pro domo loro narcisistica,

le madri che ammorbano il latte con atomi di U e Pu

durante le lunghe notti consumate

in un ricovero per gatte in calore

sotto le bombe di puro acciaio

e sotto le lenzuola di liscio raso,

in bottega e in chiesa,

in parlamento e in fabbrica,

nei ricoveri antiaerei e nei manicomi antiangoscia.

Intanto il freddo impazza

e diventa gelo sopra la neve sporca di nafta.

I lupi girano alla ricerca del rancio

e rivendicano il pezzo forte della loro cultura:

chi perde la guerra non perde la vita”.

I lupi insegnano all’università del monte Sasso

e promettono pergamene al latte di capra con pagamento rapido,

ma nessuno li capisce,

devono crepare nella loro stessa bocca

secondo la versione inumana di uomini senza frontiere.

Così non va bene,

non va per niente bene un “in bocca al lupo”

sputato al primo venuto

in questo ennesimo giorno di guerra

tra vecchie signore dai pizzi inverecondi e dai vecchi merletti,

tra anatre starnazzanti e compagni caduti.

Chi perde vince, dice Laing.

I lupi gregari hanno tanto da scopare

dopo la fine delle ostilità maschiloidi.

Cristo segnala il Golgota fittizio di un olocausto alla crucca,

ma Big Gim insiste nel massacro del suo popolo

che unito ammazzerà il tiranno

dopo il tristo connubio con la Morte.

Socrate si insinua furtivo in tanto bordello

e chiede dei buffoni e dei saltimbanchi al potere.

Come mai i matti e i derelitti governano

in tanto progresso delle Scienze fuse e infuse

e delle masturbazioni atomiche e microcellulari.

Povero sofista!

Mal gliene incolse nell’agorà di Serenella

per un salario contrabbandato nella via Salaria

insieme a donne imprudenti e uomini in cerca di guai,

sessuali e non.

Gli italiani sanno di buffoni al potere,

conoscono il buffo e il puffo in pieno vigore,

ridono dell’uomo tutto d’un pezzo e senza qualità,

insegnano la Logica trascendentale di Immanuel

tramite giornaliste e filosofi negli sciok parlati,

negli hitchcock televisivi di periferie pasoliniane inurbane.

La Press internazionale non socialista gode di tanto lutto.

Spettacolo, spettacolo, spettacolo!

Quanto vale un bel culo,

una faccia da culo per non morire,

uno strudel al plutonio per illuminarsi d’immenso.

Ieri mi ha scritto Niccolò,

il macchiavello macchiaiuolo,

quello della Mandragola,

quella della corruzione italiana,

mi ha chiesto

come si fa a farsi massacrare per eroismo.

Si sente inutile come non mai

in quel casino di Treviso

tra un tiramisu e una preghiera.

Anche Francesco il Guicciardo si rivolta sul prato verde

e si ribalta dalle risate insane

per il particulare e l’improvvisa Fortuna,

tutta roba sua senza trucco e senza inganno,

che è servita alle cuoche delle case di morte.

Anche Jean Bodybody è molto agitato

per la sua ragion di stato e ragion di chiesa.

Sigmund se la ride con il sigaro olandese

e grida ad Albert capellone “te l’avevo detto”,

me l’avevi detto”,

l’avevamo detto” nel nostro semplice carteggio

tu con i dollari e io con l’istinto,

mentre Catone il censore,

maior e minor,

nonché double face,

grida dal freddo deserto della Siberia

ai sordi della domenica infame:

Cartago delenda est!”

E ancora:

Cartago delenda est!”

E insiste:

Cartago delenda est!”

 

Salvatore Vallone

 

Carancino di Belvedere 20, 04, 2022

LA GRATITUDINE

Il Tempo è prezioso quanto me stessa

che in questo momento mi vivo,

quanto l’attenzione generosa che ho sempre verso l’altro.

Con generosità dico anche di me:

una persona semplice nella mia evoluzione di donna,

una donna complessa nell’evoluzione della mia anima.

Nulla è più difficile di una prima lettura di sé e dell’altro.

Inseguo il tempo,

un tempo breve e frettoloso che amo,

che mi induce a fare tutto ciò che amo fare:

scrivere,

leggere,

vedere qualche amica,

fare un giro per i negozi,

fermarmi,

osservare la Natura.

Fare,

poi fare e ancora fare.

Troppi obblighi e pochi interessi veri.

Vorrei,

ma non posso

o, forse, è meglio dire

che non riesco a trovare l’energia

per vivere oltre quella stanchezza

che ristagna negli esseri che vivono per lavorare,

piuttosto che, più sanamente, lavorare per vivere.

Eppure sono felice e grata,

certa che arriverà di nuovo il tempo

in cui il Tempo e il suo dafare smetterà di inseguirmi,

lasciandomi godere di quella Vita che è la mia vera vita:

un dono per il quale sono grata a chi merita.

La gratitudine è la bellezza che in essa abita.

Intanto dormicchio dentro un un cassetto,

insieme al mio progetto di scrittura,

come i miei gatti in questa giornata di ordinaria calura.

Carmen Cappuccio

Siracusa, 10, 07, 2021

LA SAGA DI GRAZIELLA

Graziella è una donna istruita

che in Sicilia parla in italiano.

Graziella è una donna del popolo

che studia per maestra dalle suore Orsoline.

Graziella è figlia di Pietro,

fratello di nonno Giovanni.

Graziella è una donna composta

che sposa Giuseppe, detto Pippino.

Graziella ama Pippino,

sergente della regia Marina italica.

Graziella è una mamma complessa

che ha quattro figli preziosi.

Graziella li chiama Maria, Lello, Maria e Piero

e la meningite ruba i tredici anni della prima Maria.

Graziella accudisce amorevolmente Lello

che nasce con il forcipe.

Graziella lo trascina in carrozzella

in questo grigio novembre del 1943.

Graziella è investita dal vento misto alla neve

in questo freddo novembre del ‘43.

Graziella è in fuga da Pola

in questo tragico novembre del ‘43.

Graziella è fermata da un povero soldato

tra Pola e Fiume in questo inumano novembre del ‘43.

Graziella copre Lello con il suo corpo

di fronte al mitra che spara la morte.

Graziella muore con Lello

e lascia sulla neve la rossa impronta della memoria.

Graziella ha il petto e il grembo squarciati

e Lello ha un foro nella testa e nel cuore.

La figlia Maria è testimone di questo terribile amore

fino a quando l’angoscia di morte le toglie l’identità.

Salvatore Vallone pone nel giorno della Memoria

e nel dolce ricordo di mamma Graziella e dell’incolpevole Lello.



Carancino di Belvedere 27, 01, 2022