LA NOTTE E’ STUPIDA PER NOI

La notte era stupida,

era anche stupita di tutte le sue cose a posto,

al posto giusto,

oltretutto nude e spalancate sul mare,

quando noi,

noi due,

eravamo sconosciuti a noi stessi,

agli altri,

a tutto il mondo con il resto di due.

Dovevamo esserlo,

signor giudice,

per posizione e pregiudizio,

per orgoglio e vanagloria,

per la canzone in fieri nei formidabili anni sessanta

dominati da pancioni mollicci e baffetti inopportuni,

da donne cannone, oltremodo belle e brave.

Questa notte,

questo tipo di notte mi sorprese di sorpresa e all’improvviso,

mi colse allibito nella nebbia di Melzo e lungo l’Adda con la Rita,

mi raccolse amminchialuto nel freddo della laguna putrida con la Marisa,

cette nuit ci sorprese foresti e forestieri nella foresteria di madre Natura,

proprio come gli anonimi personaggi della serie americana

chi erano questi due

che alle sei del mattino ritornano alla losca magione

barcollando

dopo aver frequentato il bar long drink Bar Collo”?

Questa notte,

ebbene e ribadisco,

o signor giudice,

questa notte ci sorprese sconosciuti,

io e lei,

noi due sconosciuti,

il titolo dell’ultimo romanzo della grande Liala,

al secolo Liana Negretti Odescalchi,

coniugata Cambiasi,

la donna delle Mille e una notte del popolo italiano proletario

in guerra e in pace,

alla Lev Tolstoj.

Fin qui tutto liscio

e senza pirtusi alla spingole francese,

perché ancora non ci sono stati pizzichi e vase.

Ma,

sentite questa,

s’il vous plait,

se poi nel buio le tue mani d’improvviso vanno sulle mie

e s’improvvisano numeri da circo Orfei,

allora,

mi capisce,

o signor giudice,

gatta ci cova e qualcosa ci sfugge.

Lei dirà saggiamente

che è cresciuto troppo in fretta questo nostro amore

e ha ragione.

Io le obietterò soltanto

che certi discorsi non si fanno al telefono

e tanto meno con il telefono della SIP,

quello a gettoni,

dentro una cabina maleodorante

del piscio di cani e gatti,

nonché di qualche incontinente,

tumoroso e non timorato.

E, adesso, lei mi vuol telefonare telefonando

per mandarmi a cagare,

a cagher in emiliano da oltre Po pavese,

per dirmi basta prima di cominciare,

per un amore appena nato che è già finito.

Dica, allora,

benedetta signorina,

che si tratta della solita scopata foresta

e voluttuaria come un bene proficuo da voluptas galoppante,

di uno swarovski fatto con un fondo di bottiglia di buona birra,

qualcosa del tipo porcellana di Capodimonte in quel di Catania,

dica,

benedetta ragazza,

che è inspiegabile ma vero

che il nostro amore appena nato sia già finito

con buona pace dei benpensanti e dei bacchettoni.

A questo punto e con queste premesse gradisca cordiali saluti da

Salvatore Vallone.

P.S.

La prossima volta…replay.



Salvatore Vallone



Carancino di Belvedere 30, 12, 2021

CORAGGIOSETTI

Il gattino è arrabbiato

e non vuole il suo gelato,

vuole una gatta da pelare

ma qui siamo in riva al mare

e non ci son gatte da pelare,

(tanto meno che si fanno pelare).

Ci son chiappe da pescare

sempre qui in riva al mare,

(tanto meno che si fanno pescare).

Coraggioso è più arrabbiato

e mi mostra il suo palato,

vuole un topo per giocare,

ma qui siamo in campagna

e il topino ha il cervello fino,

(come il contadino e le sue scarpe grosse),

e non vuole giocare con Coraggiosetti,

tanto meno con i suoi simili e gli affini.

Coraggioso è oltremodo arrabbiato

perché Salvatore non l’ha cagato

e di coccole e coccolezze

non ha avuto le dolcezze

e allora con un balzo gli si appioppa sulla gamba

per la pasta quotidiana

e il ronfare manifesto.

O poeta,

o contadino,

prima fammi un buon grattino,

poi dammi un formaggino

che lo mangio senza panino,

io ti faccio poi la pasta

e tu la inforni per la pizza

nel tuo forno Clementoni.”

Se questa poesia è futurista,

io sono un qualunquista,

un desgrassià de Buenavista,

un veneto fugace

che in Sicilia fugge e non trova pace.

Salvatore Vallone

Karancino di Belvedere, 06, 07, 2023

DICE FERNANDO

Il poeta è un fingitore,

un vasaio di Creta da argilla giallastra,

un Demiurgo di Atene e di prima qualità,

come le macellerie di una volta nello scoglio di Ortigia,

quelle dei fratelli Giudice,

gli ucceri,

gli uccisori di vacche magre anche in tempi grassi,

comprate a Cremona dai fratelli Balzarini

insieme al cioccolato alle nocciole con il burro.

Il poeta è un plasmatore di verità iperuraniche,

tutta quella roba che sta al di là del culo di Ouranos,

tutta sganga da vulcanizzare per il gran premio di Monza

come le gomme della Michelin,

della Brigestone,

della Pirelli.

Il poeta è uno sfruttatore di quelle verità sincere

che stanno al di là del Cielo stellato,

tra Gea e Urano

tra la Madre e il Padre,

tra la Madre e il figlio.

Il poeta è un crumiro di quelle verità

che corrono nel Cosmo così vasto

e buono soltanto da immaginare,

negli spazi interstellari così cari a Franco il battezzato,

la dove l’universo ubbidisce all’Amore,

a Francuzzu u cantanti buddista

che con la musica leggera ci faceva u broru per la pasta.

Il poeta è un cantastorie,

un trovatore,

un vate,

un emerito coglione senza le palle di vetro

che a Natale si appendono sulle porte delle nonne in calore.

Io sono Fernando,

mi chiamo Firnendo,

mi sento Fefè,

vado in giro per le strade di Lisbona antigua

con affettata noncuranza portoghese

alla ricerca del testosterone smarrito nei bordelli

dei romanzi degli scrittori sudamericani,

Marquez & Sepulveda & Borges & Cortazar

e ci metto anche u miricanu Charles Bukowski.

Io non sono un poeta.

Io sono un Maestro con la m minuscola.

Io sono un morto di fame con la m maiuscola,

vivo in un paese ricco di supermercati

stracarichi di imballaggi e di cartoni,

vado in mare inquinato e faccio il bagno fetido,

mi sdraio su un vasto posacenere portacicche

insieme a miei dissimili che detesto,

che aborro,

che ignoro da buon autistico.

E’ bello essere autistico,

è buono chiudere le porte e le finestre,

come le monadi del grande Leibniz,

dopo avere visto in faccia la morte,

nella faccia di un grembo freezer,

nella faccia di un padre ignoto,

è giusto essere autistico

perché a me non piacciono i caramba,

la pula,

la finanza,

i vigili inurbani inesistenti,

tutta gente vestita dai Dolci dei voltagabbana

con divise irripetibili e inimmaginabili.

A me non piace più vivere tra questa brutta gente,

orrenda e orribile come la fame di marzo e di aprile

ai tempi del colera e del corona.

Meglio una birra solitaria nel pub del 69.

Salvatore Vallone

Carancino di Belvedere, 20, 06, 2022

LE BALENE

TRAMA DEL SOGNO

Ho sognato di essere in riva al mare insieme a dei conoscenti che, ad un certo punto, decidono di tuffarsi in acqua senza alcun timore, per raggiungere la sponda opposta di quello che mi sembra la foce di un fiume.

Il mare è molto mosso e il vento è forte.

Io non mi fido a tuffarmi anche perché ci sono molte balene che saltano nell’acqua impetuosa e che mi fanno paura temendo di essere mangiata.

Ritengo possibile raggiungere l’altra sponda camminando lungo la spiaggia, ma arrivata ad una curva rocciosa, il vento mi spinge indietro con alti spruzzi d’acqua.

Desisto e dopo non molto, il tempo migliora, il cielo è blu, il sole splende e il mare calmissimo. A quel punto non sento più l’interesse di dover raggiungere l’altra sponda.”

Moby Dick

INTERPRETAZIONE DEL SOGNO

Ho sognato di essere in riva al mare insieme a dei conoscenti che, ad un certo punto, decidono di tuffarsi in acqua senza alcun timore, per raggiungere la sponda opposta di quello che mi sembra la foce di un fiume.”

Siamo in famiglia e ci troviamo di fronte all’avvenire: “in riva al mare”. I “conoscenti” sono i familiari, per l’appunto. Si vive e si va avanti nella vita con la ricerca coraggiosa di mete agognate, con la forza della giovinezza e il sostegno della famiglia.

Tuffarsi in acqua” si traduce in un coinvolgimento esistenziale fatto di consapevolezza e non di pulsioni inconsce: esserci ed essere sul pezzo anche se questo “tuffarsi in acqua” evoca la figura materna.

La foce di un fiume” significa la parte finale di un percorso e di un cammino operativo, il traguardo di tanti sforzi, ma include anche l’ultima fase del parto e la nascita, l’emancipazione della figlia Moby dalla augusta genitrice.

TRADUZIONE ESTETICA

Mi tufferò in acqua senza alcun timore

insieme a voi,

fratelli e sorelle,

insieme a tutti i nati da madre.

Non avrò paura di annegare,

non sarò fagocitata da colei che mi ha liberata

e da cui mi sono staccata,

non sarò divorata dal nulla inconsapevole ed eterno,

questo mare che tutto bolle e ribolle

o che sta fermo sulla linea dell’orizzonte.

Torno indietro e rivivo mia madre.

Sono cresciuta e sono grande.

Conosco bene mia madre

e saprò anche liberarmi del suo abbraccio fatale,

dalle sue ansie e dalle sue angosce.

Mia madre è importante,

come tutte le madri per tutti i figli.

Il mare è molto mosso e il vento è forte.”

La vita e il vivere si traducono in forti emozioni e impetuosi sentimenti che rasentano lo stordimento e richiedono tanta forza per essere affrontati.

TRADUZIONE ESTETICA

Sul mare non luccica l’astro d’argento,

né placida è l’onda,

né prospero è il vento.

La donna sente dentro,

la donna sente fuori,

la donna si perde nel turbinio dei sensi

insieme alla vita che le scorre vitale

e non è mai appagata in questa ricerca

di una se stessa che è mare,

di una se stessa che è vento.

Portami via con te, o mare, o vento!

Datemi l’ebbrezza di una giornata felice

a bordo dei miei sensi e dei miei sentimenti.

Io non mi fido a tuffarmi anche perché ci sono molte balene che saltano nell’acqua impetuosa e che mi fanno paura temendo di essere mangiata.”

Moby non si lascia andare alle sue emozioni e non si affida alle sue tempeste emotive, perché Moby non si affida alle madri che nuotano nel mare della vita e delle gravidanze. Moby ha paura di essere fagocitata dalla madre, ha bisogno di essere protetta dalla madre, desidera essere nel grembo materno. Moby svela il possessivismo materno che l’ha connotata nella sua esistenza e il suo travaglio a liberarsi dalla madre e dal suo mondo incantato fatto di favole e di regressioni. Moby ha paura della madre e di essere madre. Troppo tormento, troppa tempesta, troppe competizioni e Moby ha timore, è timida, è gentile, è umile, è piccola, è all’erta con le novità repentine.

TRADUZIONE ESTETICA

Madre della terra,

o madre mia carnale,

che vai nuda e sicura con le altre madri

incontro alle tempeste della vita di donna,

vergine di umiltà,

ricca di possesso e potere,

o mamma mia di sempre,

prenditi cura di me

che non so ancora nuotare,

che non so ancora salire le cime tempestose

che portano nel fondo del mare,

di quel mare,

di questo mare,

gli oceani interiori che ribollono dentro fragili e forti membra,

fragili di affanni,

forti di tenacia.

Di sale brilli nell’altare,

di sale il tuo pane sapeva

quando eri stanca di essere madre.

Tienimi con te,

mettimi dentro di te,

nel tuo ventre ampio e calorosamente caldo

che un giorno mi ha visto con te.

Proteggimi dal bene infido

e dammi la forza

di non cedere alle lusinghe del destino infame.

Fa’ che io sia padrona

del mio incedere elegante

in questa sfilata della vita che scorre

anche sui marciapiedi della graziosa cittadina

che mi vide timorosa

e oggi mi scopre civetta.

Ritengo possibile raggiungere l’altra sponda camminando lungo la spiaggia, ma arrivata ad una curva rocciosa, il vento mi spinge indietro con alti spruzzi d’acqua.”

La dialettica psichica della diade “madre-figlia” è aspra e la libertà è lontana vista dalla spiaggia, non è lineare, il conflitto è acceso e il vento spinge a regredire con forti prepotenze materne. La figlia è entrata in conflitto con la madre: “posizione psichica edipica”. Tutto è normale e come da copione, ma la “curva rocciosa” attesta di forti ostacoli intercorsi e interposti nella liquidazione della conflittualità con la madre. Moby ha tanto sofferto per le irruenze emotive e sentimentali vissute durante la sua psicodinamica con la madre e di riferimento con il padre, per cui “l‘altra sponda” non è stata di facile approdo, in special modo per via agevole: “camminando lungo la spiaggia”.

TRADUZIONE ESTETICA

Vento,

ancora il vento mi porta l’odore acre della competizione,

ancora una spiaggia si allontana dai miei occhi ingenui

e ancora il mare mugugna e muggisce

in tanta tempesta dei sensi e degli umori.

Quanta necessità sofferta per far crescere la libertà dentro!

Mamma,

mormora la bambina,

mentre pieni di pianto gli occhi,

per la tua piccolina non compri mai balocchi,

mamma tu compri soltanto le ciprie per te.

Colonie aromatiche della compagnia delle Indie

per una donna d’alta classe,

una boccetta di chopard casmir

per la signorina che verrà,

una bambolina di pezza ruvida con diadema di perle marine

per il regno fantasioso

di una principessa minore e del suo re maggiore.

Desisto e dopo non molto, il tempo migliora, il cielo è blu, il sole splende e il mare calmissimo. A quel punto non sento più l’interesse di dover raggiungere l’altra sponda.”

L’altra sponda” è la libertà dopo la guerra, dopo il conflitto, dopo la sofferenza acuta di rinunciare a un pezzo di radice. La vera e veritiera “altra sponda” è l’autonomia psicofisica, il fare legge a se stessa nel corpo e nella mente, la soluzione delle pendenze edipiche, lo scioglimento dei nodi marinari che tenevano attraccata la barca al molo. Moby mostra a se stessa con il suo sogno la psico-dialettica che ha vissuto e le psicodinamiche che ha istruito per la risoluzione del suo “complesso di Edipo”, tappa che l’ha particolarmente attratta per la figura femminile della madre, fascinosa e misterica nel suo essere l’origine della sua esistenza.

Desisto”, posizione psicologica buddista, non mi coinvolgo, mi lascio andare, cesso di combattere, apatia stoica di chi conosce il vero, latino “de-sisto”, mi colloco da una parte in un’altra parte. Questo verbo così chiaro è altrettanto profondo e ricco di implicazioni mistiche, culturali, religiose, filosofiche, semiologiche e tanto altro. In un semplice “desisto” sono condensati l’approdo e la ricerca ulteriore della verità personale, figlia di quella Verità collettiva e assoluta che non si nasconde più all’occhio smagato e all’intelletto libero di chi ha tanto cercato e finalmente trovato dopo tanto cammino, come Moby.

Il tempo migliora” si traduce sto crescendo e sto risolvendo le mie dipendenze e pendenze, edipiche nel nostro caso, sto maturando e anche l’umore si assesta in una dimensione psichica matura.

Il cielo è blu”, tutto è più tranquillo in me e fuori di me, “sublimo” l’angoscia con la migliore consapevolezza, ho collocato i miei valori in un luogo superiore e le mie verità al di là di ogni discussione logora e logorante, insomma mi sono liberata del “fantasma” materno e adesso mi sento compatta.

Il sole splende”, la luce della ragione illumina il camino della vita e dell’azione, la consapevolezza si è estesa al “senso di sé” ed è diventata autocoscienza, “sapere di sé. “Cogito ergo sum” e sono cartesianamente una persona pensante e fattiva, associo il pensiero all’azione come la Storia di Benedetto Croce, insomma, procedo nell’esistenza con lo strumento della Ragione e del Sapere.

Il mare calmissimo” contiene una forma di atarassia, di assenza di angoscia, di apatia stoica che, non è caduta della vitalità emotiva e sentimentale, bensì padronanza di sé tramite la “coscienza di sé”, ampliamento del “sensus sui”, maturazione della persona e della personalità, compattezza psichica. Il “mare” è simbolo dell’inconscio vitalistico e neurovegetativo, oltre che dell’esistenza.

E’ giusto e sacrosanto che, a questo punto, Moby non senta il bisogno e “l’interesse di dover raggiungere l’altra sponda”, la madre o un altro traguardo, il padre o un altro obiettivo.

Sembra rinuncia e rassegnazione e invece è la rappresentazione in sogno della SAGGEZZA, della “sapientia sui”. Moby non è approdata nell’altra sponda, ma è approdata nel suo porto. Adesso l’angoscia della perdita è appagata e automaticamente scomparsa. Nulla chiede in Moby di sopravvivere, tutto chiede di vivere.

TRADUZIONE ESTETICA

Desisto,

mi colloco altrove,

atarassia,

il senza angoscia,

la cura di Franco,

un disco,

un quarantacinque giri di allora,

di quando ero una ragazzina tutta madre e tutta chiesa,

niente casa del popolo,

così come voleva la mamma,

la mia balena,

la saggezza è sapore di sale,

non quello altrui,

è il mio sale,

il mio sale in zucca,

il mio mare salato,

mare immenso e salato,

mare e marosi,

io so di me,

io finalmente so di me,

tu, o mare, non mi agiti

perché non sei agitato,

sei ammarato nella marina,

mentre il tempo soffia sulle vetuste scene

dei teatri antichi e greci,

quando si recita il soggetto di Edipo,

l’uomo dai piedi ritorti,

figlio del mare e della luna,

figlio di Laio e Giocasta,

figlio delle stelle di Tebe,

solo in un quadrivio all’europea

con precedenza a destra e a sinistra,

comme vous voulez,

sotto questo cielo intirizzito dall’incesto,

stupito e stupefatto dalle donne dionisiache

che in corteo sbranano il capretto

secondo la sanguinolenta processione del fine settimana,

sempre sotto il sole

che di lassù dice

e afferma che è di tutti

e appartiene anche a te,

anche a noi,

come la strada che mi porta da te

e mi allontana dalla madre,

dalla balena,

dal mare.

La sponda fa da sponda,

poi non serve.

Grazie madre!

Io non gioco più al biliardo

nella solita sala del monte di Belluno.

MA L’AMORE NO – ATTO QUINTO E ULTIMO

Ma l’amore no, l’amore mio non può

dissolversi con l’oro dei capelli.

Finché io vivo, sarà vivo in me

solo per te.”

De senectute,

come ridicolizzare i vecchi babbei e petulanti

nel piccolo schermo per fini non etici e non religiosi

da parte di donne gonfiate al silicio e all’improvvisata,

come internare i vegliardi riottosi in lager

a pagamento fisso e mobile,

a fior di quattrini come premio per saltimbanchi e saltafossi

da parte di figli senza valori,

da parte di uomini senza pietas.

O Enea,

o Anchise,

o Cicero,

o Cato maior,

o Attico,

mala tempora currunt nudi e crudi

per le strade maligne dell’Italia bella,

la nostra bella Italia

che ancora annovera mafia e pizza

nel vocabolario degli stenterelli d’oltralpe e d’oltre oceano,

che ancora inquina e ancora è inquinata

dai fumi del bieco assassino e della buona mariagiovanna,

dalle macerie burocratiche ed ecologiche di una legge

che vuole l’amore unico e univoco,

senza sbocchi e senza intoppi,

senza strappi e sparatrappi.

L’amore è un sentimento universale

e anche il vecchio Emmanuel lo decantava

durante la passeggiata delle cinque,

diciassette per l’appunto e per la precisione,

nella sua Critica del Giudizio

e per le stradine di Konisberg,

ancora per la precisione e per l’appunto.

L’amore è solo per te,

il mio amore è solo per te,

io non amerò nessuno o nessuna che non sei tu.

Come ti amo non posso spiegarti

perché io non lo so e non lo voglio sapere,

ma so che ti desidero

ogni volta che mi fai le mele cotte

al dolce sapore di prugna e di limone

con quel pizzico di cannella che non guasta mai

quando non è troppo.

L’oro dei capelli si dissolve nel bianco

e sfuma come il Prosecco di Pieve di Soligo dello zio Tony

sopra le povere membra condite del coniglio in pentola.

Quanta cattiveria negli uomini golosi,

quanta ingiustizia per le donne sorpassate in cucina

da poveri narcisi in fiore

nei canali della laguna ripieni di pullulanti stronzi.

Viva la mamma,

viva la mia mamma

quando cucinava la trippa nella pentola di coccio

e quando friggeva le patate con l’olio d’oliva,

fettina dopo fettina.

Io ti amerò,

ti amerò per quello che posso e che voglio.

Tanta è la voglia di amarti

che dimentico il fradiciume dei giornali e dei politici,

delle tivvù dissennatrici e degli spettacoli osceni

di masse di vecchi coglioni e di vecchie assennate

in cerca di un sollievo psicofisico e finanziario

con la dentiera in bilico tra il ponte di Messina

e quello di Nuova Jork.

O sole che sorgi libero e giocondo

e rompi le balle con le tue tempeste ormonali

e i tuoi giri di sangue infetto,

con il corona in testa alle teste coronate in estinzione

e ai santi di gesso

che abitano nelle chiese dei preti non iconoclasti,

gli adoratori di idoli sedicenti sacri

che non hanno mai meditato l’Ecclesiaste,

il libro più vero del Vero.

«Vanità delle vanità»,

«vanità delle vanità,

tutto è vanità».

Che profitto ha l’uomo di tutta la fatica

che sostiene sotto il sole?

Una generazione se ne va, un’altra viene,

e la terra sussiste per sempre.

Anche il sole sorge,

poi tramonta,

e si affretta verso il luogo da cui sorgerà di nuovo.

Il vento soffia verso il mezzogiorno,

poi gira verso settentrione;

va girando,

girando continuamente,

per ricominciare gli stessi giri.

Tutti i fiumi corrono al mare,

eppure il mare non si riempie;

al luogo dove i fiumi si dirigono,

continuano a dirigersi sempre.

Ogni cosa è in travaglio,

più di quanto l’uomo possa dire;

l’occhio non si sazia mai di vedere

e l’orecchio non è mai stanco di udire.

Ciò che è stato è quel che sarà;

ciò che si è fatto è quel che si farà.

Non c’è nulla di nuovo sotto il sole.

C’è forse qualcosa di cui si possa dire:

«Guarda, questo è nuovo?»

Quella cosa esisteva già

nei secoli che ci hanno preceduto.

Non rimane memoria delle cose d’altri tempi;

così, di quanto succederà in seguito non rimarrà memoria

fra quelli che verranno più tardi.”

Salvatore Vallone

Carancino di Belvedere, 24, 09, 2022

AL MARE

Domani andrò al mare.

Domani ti telefonerò.

Al mare tutti telefonano ogni giorno.

Al mare tutti telefonano a tutti sempre.

Io non voglio essere da meno.

Al mare tutti telefonano.

Io non sono diverso.

Al mare tutti telefonano a tutti.

Io domani andrò al mare.

Io domani ti telefonerò dal mare.

Salvatore Vallone

Carancino di Belvedere, 02, 09, 2022

BRUNA E DIA

BRUNA E DIA

O

CANTO DELL’AMORE IMPETUOSO

 

 

Da una sponda all’altra dello stesso mare,

il mare nostrum,

antico e travagliato,

gli Amanti si affacciano,

si sentono,

si cercano,

si trovano,

si chiamano,

si invocano,

chiedono a un buon dio e a una buona dea

di raccogliere i sospiri di una prospera Fortuna,

quella che verrà in cornucopia e in tunica bianca

con i melograni ricchi di chicchi e di nobili virtù,

tanta famiglia nel cammino della vita.

E l’onda delle terre di mezzo,

il Mediterraneo,

scivolando e scivolando verso “il popolo del mare”,

ripete:

Diaaaaaaaaaaa “.

E l’altra onda, insinuandosi, ritorna

e risuona tra “le genti ibride”:

Brunaaaaaaaaaaa ”,

nella ricerca desiderosa del fertile rifugio

e si culla là dove Afrodite ancora oggi

sulle onde del greco mare insidia il Tempo

e impera sul gregge dei figli di Lilith.

E così l’idillio si consumò

e ancora si consuma

finché il mare di mezzo sarà ruffiano

con gli uomini e le donne che si ameranno

veramente amandosi,

come le dee e gli dei

di quell’Olimpo intelligente di quel tempo che fu.

 

 

Salvatore Vallone

poeta contadino

ierofante di Gea e Proserpina

 

 

Carancino di Belvedere, 09, 07, 2022

 

 

QUESTA NOTTE ALLE TRE

Ferma come una rupe è questa notte

e senza vento.

Ieri fu un giorno di lampi nel sole,

di far bene l’amore con la vita

per essere al sole.

La spiaggia è ferma nel vento

e nel mare, al largo, tira forte il vento.

Qualche veliero è intirizzito per la poca acqua,

qualche uomo è morto d’amore

mentre scalzava i pochi peli della barba incolta.

Come una rupe è ferma questa notte

in mezzo a un vento che non è tempesta.

Ciciociacio se la dorme nella sua cuccia.

Gianna fa lo stesso.

 

Salvatore Vallone

 

Carancino di Belvedere 11, 06, 2022

 

IL CIELO

L’universo è selvaggio

come l’uomo rosso di latta,

altro che ordinato e perfetto

come l’uomo bianco di una volta.

Quello sì che era un uomo,

quello di Primo in Torino

e di Adolfo in nostra sora terra di Alemagna,

quello di Ecce homo o come si diventa ciò che si è,

quello del matto Friedrich Wilhelm

che abbraccia le cheval in Turin.

L’universo è entropico

come la città di Aretusa,

casino su casino in strade fatiscenti

e in cervelli post archimedici,

altro che armonico ed equilibrato

come l’uomo greco di una volta,

quello che non peccava di ubris

e non disturbava le proficue scopate di Zeus,

quello che non danzava nel bosco futurista

e non sbranava il povero capretto di Dioniso.

L’universo è fuori di testa e imbrogliato

come un matto savio sulla via di Damasco,

è cattivo

come l’homo homini lupus di Machiavelli e Hobbes,

è ferino

come i mangiatori dell’agnello pasquale

con le patate rosse novelle di Bologna

e le cipolle bianche antiche di Giarratana.

Ma quale universo?

Amore, amore, amore,

non c’è più pellet per scaldarti il cuore e il culo

in queste funeste e funeree giornate di ordinaria follia.

Fuori tutto è magnifico,

dice la dolce Francesca da Bassano,

quasi svarionato,

dice la meravigliosa Sofia da Bergamo,

non c’è un pallet di pellet in nessun mercato,

super o mega,

di questa striscia di terra

baciata dagli dei siculi e sicani,

greci e fenici,

romani e cristiani,

arabi e normanni,

svevi e spagnoli,

savoiardi e italiani,

beati Paoli e cose nostre,

minchioni a cinque punte,

leghisti a buon mercato.

Chi più ne ha,

più ne metta

in questo lurido albergo a cinque stelle,

in questo mondo dei puffi e dei buffoni.

E noi?

Cossa fene noialtri?

Non ci resta che andare alla Marina sul far della sera

a vedere il meraviglioso tramonto

della nostra povera stella ammalata,

questo sole

che si sta spegnendo in un bagno di lacrime incandescenti

insieme alla madonnina di gesso del santuario,

questo sole

che muore di covid 19 dentro un ricovero anticovid

che funziona alla siciliana,

come i cannoli di ricotta e cioccolata

nella psicoterapia dell’anoressia.

Non ci resta che Vladimiro,

l’oscuro come Eraclito,

per avere un po’ di umano calore,

per un pallet di pellet omologato

e al dolce sapore di faggio,

intriso dei dolciastri effluvi

nella sempre atomica centrale di Chernobyl,

già saltata in aria in illo tempore

come un ramoscello della pace all’olivo

durante le grandi e le piccole Dionisiache

dei soliti santoni nostrani in tuta mimetica

e delle solite baldracche vostrane in costume carnascialesco.

Guarda,

o damigella vestita in luminoso tailleur,

giallo come la paura e la gelosia,

la desolazione anfibia marinara

e la fatiscenza atavica di questo ricettacolo patriottico,

fulmina il quadro terrestre e celeste

come un’aquila dell’acuto Montecitorio

e trema con i visitatori incauti

come un parkinsoniano appena in fiore.

Un pianeta è solo,

è senza la sua stella,

è stato abbandonato nel cosmo

dalla madre ignuda e a gambe aperte,

dal solito padre ignoto

andato sul fronte a belligerare e a stuprare.

Un altro pianeta si è perso negli spazi interstellari

tra tante madri sogghignanti e senza cuore,

tra tanti padri fottuti dalla tubercolosi a furia di fottere

e ingravidare le pulzelle indifese e virginee di Orleans.

Che generazione malata nel corpo e nella mente!

Che stirpe indegna di celebri avi e di tante ave!

E tu dove sei?

Dove sei finita?

Tu sei alla deriva nella nostra galassia,

fluttui nella via Lattea senza una stella ospite,

senza una stella che ti accoglie,

ti abbraccia

e ti lascia riposare su un giaciglio di polvere,

la polvere delle stelle,

la polvere del cosmo che fa sempre un leggero rumore,

la polvere sul comò antico di mogano della mia nonna Lucia.

O nonna, o nonna,

nonna iuventina vestita di nero e di bianco,

cantami la nenia religiosa del peccatore e del peccato,

recitami ancora la santa messa sopra la tua toletta del 1881,

introibo ad altarem dei,

ad deum qui letificat iuventutem meam,

sollevami al cielo

come fece il padre di Kuntakinde,

dimmi che sono sceso su questa terra

soltanto per puro amore e non per sesso,

non per sgraffignare il companatico senza il pane,

non per far saltare gli ospedali di Mariupol.

Ogni universo ha bisogno di Mary Poppins,

un poco di zucchero e la pillola va giù,

di una madre

surrogata al cioccolato amaro delle Antille francesi

e affossata nello spazio vuoto di due braccia ormai sterili,

di un grembo da tempo andato in stramona.

Appena nato,

ho brillato anch’io di un calore residuo nel mio cielo

al calduccio astronomico di colori sorgenti di luce,

rogue planets,

io,

un oggetto sfuggente al suo passato e al suo destino,

sottratto alle Moire come il figlio di una dea puttana,

Afrodite nel mar Ionio intrisa dello sperma

di un Urano senza fallo,

io,

un soggetto esente dal grande Nulla,

presente e vivo in un universo vuoto

ed emergente dalle onde di questo greco mare

da cui vergine nacque quella Venere di dianzi

che fea quest’isole feconde con il suo primo sorriso,

io,

un uomo che abita la sferica regione del globo terracqueo

contaminata dal napalm americano e dal plutonio russo,

un uomo cullato in tante galassie

disposte come una ragnatela gigante,

un poeta benedetto che razzola gallinaceo

in questa enorme stalla di anime

dannate dal pope e dal papa.

Ognuno ha i suoi ragni.

La tegenaria domestica e il pholcus ballerino sputano nel cosmo

i loro escrementi sacri al filo di seta antica,

quella cinese di Marco Polo da Venezia,

avvolgono strutture barocche di rara perfezione

e con i filamenti rococò di un ossobuco

ancora umido di cipolle e di carote,

adornano ammassi di galassie in concentrazione spersa

condite al pomodoro ciliegino rigorosamente di Pachino,

si ritrovano tra grandi affetti familiari

e illegalmente costituiti

attorno a un desco fiorito di rosse lingue di fuoco

ed enormi vuoti ripieni di menzogne lapalissiane,

quasi un Supervuoto di mini vuoti cerebrali

indignato del suo essere quel Tutto

che turba la Scienza

o quel Nulla

che è sempre un Qualcosa.

La Guerra non c’è,

non c’è la Pace,

la Guerra e la Pace non ci sono.

Ti prego,

cara Jean Rhies,

di non raccontarmi balle,

specialmente adesso che la Moskva è colata a picco

nel tuo vasto mare dei Sargassi.

Ti prego, animula blandula!

Dal dolore ne morirei.

Morirei di dolore.



Salvatore Vallone



Carancino di Belvedere 15, 04, 2022

DEDICATA A MIMMO LUCANO

Carissimo,

verecondo,

anima pura,

è vero,

è proprio vero

quello che oggi dicono i vecchi:

il segno dei tempi è orrendo”.

Viviamo in un disumano reale

che ci consuma momento per momento

secondo le regole assurde di un bieco assassinio,

di un lento suicidio,

di un linciaggio mediatico,

di uno spread immane che tende all’infinito,

che tende,

che tende

e mai va giù,

come la torre di Pisa ancora oggi.

Quanta tempesta per le carrette dei mari!

Quante giovani vite, profughe e diseredate, condannate a morte!

Quanta infanzia negata e rubata dall’infamia solerte dei moralisti!

Quanta gioventù annegata in una pozza di mare fognante!

Quanta vanagloria per politici e giornalisti in tivvù!

Quanto amore tra le tue braccia immense e illegali!

Mimmo,

Mimmuzzu,

gioia ri lu me cori,

anche Tideo e Anfiarao da Argo ti battono le mani di bronzo.

Quando ritornerà il sereno in questo paese di plastica,

in questa terra governata da ignoranti

venuti dalle stalle e saliti alle stelle,

le caretta-caretta depositeranno le uova

anche sulle spiagge arenose della Calabria,

là dove un uomo osò,

come le vere aquile,

andare incontro al disumano esodo,

aprire le arterie del cuore,

simile simili cognoscitur,

abbracciare il fratello e la sorella,

come nei trasgressivi Evangeli,

come negli umani Manoscritti di Karl,

come nelle ampie tuniche di Teresa,

come nelle parole accorate di nonna Lucia.

Omnia munda mundis.

Cerca solo di star bene,

o amico del mio vecchio cuore.



Salvatore Vallone



Carancino di Belvedere 20, 03, 2022