“Ho
sognato che partivo per un convegno di lavoro a Salerno, in effetti,
sono stata in questa città per un corso di aggiornamento. Ero con
una cugina di mio marito che voleva seguire anche lei questo
convegno.
Appena
arrivata mi hanno scippato la borsa con dentro tutti i documenti,
carte di credito e soldi. Ho cercato invano di rincorrere il ladro,
ma non sono riuscita a prenderlo.
Avevo
una valigia piena di vestiti perché dovevo fermarmi per qualche
giorno.
Le
strade erano strette e tortuose, sono andata in un albergo che
sembrava un enorme labirinto.
Cercavo
la mia stanza e una via di uscita, ma non la trovavo, ero disperata e
piangevo.
Poi
mi sono svegliata e non ricordo altro.”
Bicella
INTERPRETAZIONE
“Ho
sognato che partivo per un convegno di lavoro a Salerno, in effetti,
sono stata in questa città per un corso di aggiornamento. Ero con
una cugina di mio marito che voleva seguire anche lei questo
convegno.”
Il
“resto diurno” o la causa scatenante di questo sogno è
l’esperienza vissuta a Salerno per un corso di aggiornamento.
Bicella approfitta di questo ricordo per elaborare la sua realtà
psichica immettendo i suoi contenuti simbolici per attestare i
vissuti e la psicodinamica in atto. Bicella è una donna che si
muove, si relaziona, non si tira indietro, agisce, socializza, sta in
mezzo alla gente senza timori e difficoltà. Riversa molto amor
proprio nel suo lavoro e si dedica con energia al suo compito e alle
sue mansioni. L’alleata del suo sogno è la cugina che rappresenta
l’altra Bicella, quella che fa compagnia e rafforza l’incipit
delle azioni. In due “c’est plus facile”. Introduce la figura
del marito a testimonianza di un legame significativo anche nella
lontananza. Nel sogno è presente la Bicella che lavora e la Bicella
legata al marito a vario titolo: una buona introduzione del quadro
esistenziale contingente della protagonista. E’ opportuno
aggiungere il saggio detto popolare che definisce il “partire come
un po’ morire” a causa del distacco affettivo dalle persone care,
in questo caso il marito.
“Appena
arrivata mi hanno scippato la borsa con dentro tutti i documenti,
carte di credito e soldi.”
Il
viaggio a Salerno comincia proprio male per Bicella, comincia con un
“fantasma di castrazione” di un certo spessore e di una certa
consistenza. Lo “scippo” traduce simbolicamente una decurtazione
e una perdita legate al suo essere femminile, “la borsa”, ma il
tratto depressivo non si ferma alla sola femminilità perché si
estende alla propria identità psichica, “tutti i documenti”, il
potere seduttivo della donna, “le carte di credito” e il potere
erotico e sessuale, i “soldi”. Appena
arrivata a destinazione e lontana dal suo luogo significativo, appena
vissuto un distacco importante Bicella subisce un trauma violento e
di notevole portata in riguardo alla sua femminilità di persona,
identità, e di capacità psicofisica, il valore e il potere. Lo
sconquasso subito è legato a un evento che il sogno per il momento
non individua, ma che si suppone legato a una perdita, a un lutto. I
simboli dicono chiaramente che si tratta di
uno scippo, di una borsa, di tutti i documenti, delle carte di
credito e dei soldi: la fisicità femminile o il grembo, l’identità
psichica o il “chi sono io” nella mia evoluzione, il potere
seduttivo o la capacità d’attrarre, il potere d’investimento
sessuale.
“Ho
cercato invano di rincorrere il ladro, ma non sono riuscita a
prenderlo.”
La
reazione psichica di Bicella all’evento traumatico, che ha indotto
e scatenato il “fantasma di castrazione” e di perdita, è stata
valida e volitiva, ma non ha sortito l’effetto sperato di una
riappropriazione del mal tolto, confermando la tesi
dell’inesorabilità e
dell’impossibilità di
ripristinare l’armonia
violentemente turbata. Bicella
ha “invano” rincorso il ladro. La frustrazione dei tentativi si
risolve nell’inutilità, “invano”, nell’incapacità di
opporsi agli eventi e di porre rimedio. Il “ladro” rappresenta
l’agente della castrazione e della perdita, quei valori e quelle
doti che vengono a mancare per un evento più forte della tua
volontà. Il ladro porta via ed è assimilabile alla morte e non
soltanto alla momentanea perdita di un potere effimero che si può
sostituire con un altro. Il ladro ha colpito ben bene con la sua
violenta asportazione di affetti e capacità. Bicella, non riuscendo
a prendere il ladro, è stata costretta ad accettare una situazione
esistenziale di fatto e a reagire a uno stato psicofisico di fatto.
A questo punto non le resta
che tentare un nuovo equilibrio dopo gli eventi depressivi.
“Avevo
una valigia piena di vestiti perché dovevo fermarmi per qualche
giorno.”
Ecco
la riparazione del trauma!
Bicella
ha un’ampia e vasta gamma di modi di essere e di apparire sempre in
riguardo al suo essere femminile. La donna ha portato con sé tanti
“vestiti” per reagire al tempo che passa e per dare una risposta
adeguata alle novità imposte dalla castrazione della perdita. I
“vestiti” sono i simboli delle nostre difese sociali, dei nostri
modi di apparire e di mostrarci senza incorrere in incidenti e
disguidi relazionali. Bicella tira fuori le sue abilità nel
manifestarsi agli altri con volitività e decisione, nonostante il
trauma subito e in piena reazione a esso. Quale sia questo trauma il
sogno non lo dice chiaramente, ma lo lascia supporre.
“Le
strade erano strette e tortuose, sono andata in un albergo che
sembrava un enorme labirinto.”
La
vita di Bicella è cambiata ed è diventata più difficile. La
ripresa dal trauma della castrazione e della perdita non è semplice
da ripristinare e la sua casa psichica si è trasformata in un
ambiente estraneo, “l’albergo”, e in un enorme labirinto tutto
da visitare e da conoscere nel tentativo di ritornare a essere
padrona in casa propria. Alla castrazione e alla perdita subentra il
disorientamento psichico, il non sapere che pesci pigliare e il non
conoscere la giusta reazione a un evento nuovo e non vissuto in
antecedenza. Le “strade” rappresentano simbolicamente le
soluzioni individuali e relazionali alle novità della vita,
“strette” attesta dell’angustia dolorosa del vissuto,
“tortuose” si traduce in un ricorso a sotterfugi e sistemi
alternativi per superare il trauma in questione. “L’albergo”
condensa quella sensazione
di estraneità che si prova di fronte a una situazione imprevista a
cui bisogna fare di necessità virtù, una casa psichica fredda e
anaffettiva che serve per non soffrire maggiormente. Il “labirinto”
è sin dall’antica e benefica cultura greca il simbolo dello
smarrimento e della dispersione delle energie investite, nonché la
frustrazione delle soluzioni apportate per la risoluzione del
problema e della questione. Se poi il labirinto è “enorme”, si
conferma la drasticità e l’imponenza del trauma proprio dalla
fatica a trovare una soluzione.
“Cercavo
la mia stanza e una via di uscita, ma non la trovavo, ero disperata e
piangevo.”
Il
travaglio doloroso di Bicella viene espresso in una forma composta e
dignitosa e conferma che l’evento traumatico
e la perdita non devono
essere stati proprio di poca importanza. Bicella
è stata costretta dalla vita a ricercare la sua formazione psichica,
la sua identità, la sua organizzazione, la sua struttura, è stata
costretta a ritrovarsi a compattarsi e a riformularsi: “cercavo la
mia stanza e una via d’uscita”. La consapevolezza di
questa ricerca si associa alla consapevolezza dell’impossibilità
di riparare il trauma di perdita attestato dalla disperazione, dalla
perdita delle speranze, quelle che nella voce popolare sono le ultime
a morire. Il pianto interviene come valvola di sfogo delle tensioni
accumulate, le lacrime sono catartiche in tanta situazione
psicofisica di crisi psico-esistenziale. Un lutto è l’evento che
si può risolvere soltanto nel tempo lungo attraverso una lenta e
progressiva “razionalizzazione” della perdita.
“Poi
mi sono svegliata e non ricordo altro.”
Approfittando
del ricordo di un viaggio in Campania per un convegno, causa
scatenante o “resto diurno”, Bicella riesuma in sogno un trauma
dolorosissimo in riguardo a una perdita luttuosa e ineludibile,
manifestando il suo travaglio a ritrovare se stessa dopo la crisi e
attraverso l’evoluzione
dell’angoscia depressiva
nel dolore acerbo e acuto. Il
tutto avviene in grazie ai
progressi legati alla “razionalizzazione del lutto”.
Il
sogno di Bicella conferma, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che il
“lavoro onirico” elabora, spontaneamente e senza il concorso
della volontà, il materiale psichico di varia natura e qualità che
si sedimenta nel tempo nelle sfere subcoscienti
dell’apparato psichico.
Quando l’Io va a dormire, emergono i nostri “fantasmi” e i
nostri traumi sollecitati dalla vita quotidiana
ed elaborati dall’Io
onirico che si serve dei “processi primari” per sviluppare
figurativamente e creativamente questo prezioso materiale che ci ha
formati. Non si è lontani dal vero se si afferma che la nostra
personalità, struttura, organizzazione psichica è il precipitato
dei nostri “fantasmi” e funge da sostegno all’attività
cosciente e razionale dell’Io.
L’attività artistica è
legata alla consapevolezza dell’uso dei “processi primari”
nella veglia. Nel sogno, purtuttavia, siamo tutti artisti perché
tutti condividiamo l’uso dei “processi primari”.
A
questo punto qualche nota teorica non guasta per coloro che vogliono
approfondire la questione della formazione del sogno. Queste sono
teorie classiche e in via di progressivo superamento, schemi di base
che ho tratto da un mio lavoro degli anni novanta in linea con
l’Interpretazione dei sogni di Freud.
NOTE
TEORICHE
I
meccanismi più importanti della “funzione onirica” sono la
“condensazione” e lo “spostamento”; a essi si associano in
via complementare e con un lavoro specifico la “drammatizzazione”,
la “simbolizzazione”, la “rappresentazione nell’opposto” e
la “figurabilità”.
Come
si diceva in precedenza questi meccanismi appartengono al “processo
primario”; rientra, invece, nel “processo secondario”
l’elaborazione razionale del sogno ossia l’organizzazione più o
meno logica e coerente della trama o del “contenuto manifesto”.
E’
obbligo, a questo punto, definire esaurientemente la consistenza e
l’esercizio del “processo primario” e del “processo
secondario” per passare all’analisi specifica dei vari meccanismi
istruiti nell’elaborazione trasformativa del sogno.
Il
magmatico “processo primario” è caratterizzato da uno stato
libero dell’energia psichica e da una conseguente facilità a
fluire da una rappresentazione a un’altra alla ricerca di un
investimento possibile, opportuno e adeguato.
In
tal modo le cariche libidiche di alcune rappresentazioni confluiscono
con i loro significati originari in altre catene associative
compatibili e congrue, scaricando la loro energia in base al
“principio del piacere” e ottenendo da un lato una parziale
gratificazione allucinatoria del desiderio rimosso e dall’altro
lato una riduzione della tensione legata all’impulso
insoddisfatto.
La
funzione e i meccanismi del “processo primario” sono ben visibili
nelle seguenti caratteristiche del sogno: l’assenza di mezzi
linguistici, la relazione del soggetto con se stesso,
l’autorielaborazione confabulatoria, il fattore allucinatorio, la
mancanza o l’alterazione della nozione di tempo, la distorsione
della categoria spaziale, la coesistenza della logica degli opposti,
il gusto del paradosso, il declino dei principi etici e morali, il
mancato riconoscimento della realtà direttamente proporzionale
all’eccesso di fantasia.
Un
altro aspetto importante del “processo primario”, che
puntualmente si manifesta nell’attività onirica, é la tensione a
ricercare la compatibilità e l’affinità di una rappresentazione
con altre rappresentazioni sempre al fine di appagare un desiderio
rimosso, di riparare un trauma o di risolvere una frustrazione in
obbedienza al “principio del piacere” e in offesa al “principio
della realtà”.
Il
“processo secondario” si esprime nella lucidità
dell’autocoscienza, nel pensiero vigile, nella capacità di
attenzione, nel giudizio critico, nell’attività razionale e nel
controllo dell’Io, i cui compiti principali sono quelli di
attenersi al “principio della realtà” e di inibire l’innesco
dei meccanismi del “processo primario”, cosciente del rischio di
soggiacervi come nell’attività onirica o nelle diverse
psicopatologie.
Freud
ritiene a buon diritto che il “processo primario” è
ontogeneticamente e filogeneticamente anteriore a quello
“secondario”, essendo lo sviluppo dell’Io successivo alla
parziale “rimozione” del “processo primario” dal momento che
le sue procedure non sono idonee ad affrontare il mondo esterno e i
dati della realtà.
“Mi trovavo all’interno di una stanza e mi sono accorta che avevo molte zecche che mi camminavano sulle braccia. Erano piccole e nere.
Vedendo che non riuscivo a toglierle o a fermarle, sono andata in bagno, ho aperto l’acqua nella vasca e ho immerso le braccia pensando di annegarle.
Invece mi sono accorta che continuavano a nuotare e salirmi sulle braccia. Una si è infilata sotto l’unghia, ho cercato di toglierla, ma n’è uscito del sangue che ha sporcato l’acqua della vasca.
Allora sono corsa in ospedale, ho fatto vedere all’infermiera all’entrata le zecche sulle braccia, lei non mi ha preso molto sul serio.
Allora con tutta l’agitazione e la paura che avevo, ho aperto il vestito che indossavo e ho mostrato le gambe.
Dal ginocchio in giù erano tempestate di zecche e gli ho detto che dovevano fare subito qualcosa.
L’infermiera, invece di portarmi dentro al pronto soccorso, ha chiamato un dottore perché mi guardasse e hanno perso molto tempo e non prendevano una decisione.
Io a quel punto mi sono svegliata in preda alla paura”
Questo e così ha sognato Adalgisa.
INTERPRETAZIONE DEL SOGNO
“Mi trovavo all’interno di una stanza e mi sono accorta che avevo molte zecche che mi camminavano sulle braccia. Erano piccole e nere.”
La fecondazione è la psicodinamica vissuta sulla pelle da tutte le donne, al di là della loro disposizione psicofisica a mettere al mondo un figlio. Il benefico e naturale travaglio inizia dal menarca. In quel momento l’adolescente viene promossa a tutti gli effetti “donna” da Madrenatura, dalla famiglia e dalla società civile. La Cultura varia i suoi schemi di borgo in borgo e decreta l’iscrizione della bambina nel registro della fecondità e della fertilità. La stessa procedura non è seguita dalla Psicologia profonda della Femminilità semplicemente perché l’adolescente arriva nel tempo a viversi come donna e questo tragitto dura dai due ai quattro anni. Il sogno di Adalgisa è buon testimone di quanto affermato. L’interpretazione completerà l’opera di convinzione che il travaglio della fecondità, della fecondazione, della gravidanza e del parto sono tappe psicofisiche fenomenali e altamente formative nell’evoluzione dell’universo femminile.
Adalgisa visita in sogno la “stanza” riguardante la sua dimensione di donna e di madre e ha la consapevolezza di avere tanta paura della gravidanza perché “le zecche piccole e nere” sono gli spermatozoi in versione pessimistica e angosciosa. Questi animaletti molesti sono simboli del seme che può ingravidare nelle relazioni sessuali con i maschi. Le “zecche” “camminavano sulle braccia”, simboli della relazione, proprio per attestare simbolicamente della disposizione di Adalgisa a stare con gli uomini in intimità sessuale. Pur tuttavia e meno male viene fuori la sua paura di essere fecondata e all’uopo tiene le “zecche” sulle braccia e lontano dalle parti del corpo decisamente più pericolose.
“Vedendo che non riuscivo a toglierle o a fermarle, sono andata in bagno, ho aperto l’acqua nella vasca e ho immerso le braccia pensando di annegarle.”
Adalgisa è una donna matura che non disdegna la compagnia maschile e i rapporti del suo tipo, è una donna che osa e che rischia, è una donna che ha dato al genio della Specie e che adesso vuole vivere il suo corpo in versione orgasmica, una dimensione psicofisica estremamente benigna. Magari ha avuto un rapporto sessuale a rischio e, appena si è addormentata, ha elaborato la sua paura sul tema, un vissuto ben radicato nelle donne che osano. Adalgisa non ha potuto controllare il suo maschio che eiaculava magari nel tentativo maldestro e dannoso di un “coitus interruptus”, uno stato psicofisico che sta nel mezzo ma che non è virtuoso a causa del persistente dilemma amletiano del “godo o non godo”. E, allora, alla fine dell’amplesso insorge in Adalgisa l’ansia e la paura di essere rimasta incinta. E’ importante che queste brutte bestie non degenerino in angoscia, che non evochino il materiale psichico pregresso al riguardo, perché altrimenti le carte si complicano e diventano ingiocabili. La simbologia conferma quanto detto nella “vasca” da bagno che è simbolo del grembo materno, nella “acqua” che è sempre il simbolo femminile del liquido amniotico, nel “toglierle, fermale, annegarle” che attestano di un rifiuto netto e crudo di restare incinta. Ricordo anche il rituale del “post coitum” da parte della donna in piena ansia di lavarsi le parti intime con una cura prossima all’ossessione e ispirato alla catarsi del senso di colpa. Adalgisa sta vivendo in sogno tutto questo trambusto psicofisico ambiguo e ambivalente, un cumulo di sensazioni che oscilla tra il piacere sessuale e la paura della gravidanza. Questo capoverso è l’allegoria del contrasto che si recita dopo il coito nell’animo e nel corpo della donna. A questo punto il sogno procede, progredisce e s’intensifica emotivamente nella rievocazione di un possibile trauma.
“Invece mi sono accorta che continuavano a nuotare e salirmi sulle braccia. Una si è infilata sotto l’unghia, ho cercato di toglierla, ma n’è uscito del sangue che ha sporcato l’acqua della vasca.”
La scenografia diventa drammatica e lo psicodramma intenso. Adalgisa è alle prese con le sue angosce di fecondazione e di gravidanza. Tenta in tutti i modi di liberarsi dalla possibilità di un esito infausto del rapporto sessuale, evenienza legata a uno spermatozoo, “una zecca”, che ha fatto il suo dovere ed è andato al posto giusto, “si è infilato sotto l’unghia”. Per questo motivo è stato necessario un aborto con il “sangue che ha sporcato l’acqua della vasca”, il feto e l’utero. La simbologia è inequivocabile e semplice nella decodificazione. Adalgisa ha immaginato o ha vissuto una interruzione, spontanea o non, della gravidanza. L’ossessione della fecondazione si manifesta nel “continuavano a nuotare e salirmi sulle braccia”. “Mi sono accorta” denuncia la consapevolezza del quadro psichico nel sogno e nella veglia. Adalgisa ha proprio questo problema di fertilità e di rischio di gravidanza, ma non sa fare a meno dell’assalto delle “zecche” e della “unghia” birichina che accoglie la zecca giusta per la bisogna e atta all’uopo. Il coito è desiderato in maniera direttamente proporzionale alla paura di restare incinta. L’ansia giusta aiuta l’avvento dell’orgasmo. Decisamente lo stato d’agitazione in sogno è in crescendo, per cui vediamo il prosieguo.
“Allora sono corsa in ospedale, ho fatto vedere all’infermiera all’entrata le zecche sulle braccia, lei non mi ha preso molto sul serio.”
E la storia si fa drammatica perché arriva “l’ospedale” e “l’infermiera” indifferente, almeno nella narrazione manifesta. La decodificazione dice che Adalgisa è giovane e alle prime armi e ha bisogno di aiuto, un aiuto didattico più che medico, ha bisogno di educazione sessuale, quella cosa che non si insegna ancora nelle scuole nella giusta maniera e che si lascia all’improvvisazione di sedicenti esperti e da cui i genitori si sottraggono per le vergogne e per le inibizioni maturate nella loro adolescenza. Ancora. Adalgisa sta sognando quando da ragazzina si è trovata a fare sesso e a prendere atto del rapporto sessuale e degli spermatozoi, di qualche irruenza ormonale e di qualche conseguente rischio. Adesso ha bisogno di aiuto in attesa della fatale mestruazione che taglierà la testa al toro e cerca disperatamente quelle rassicurazioni che non sono certezze, ma che aiutano tantissimo nel mare dei dubbi di una potenziale ragazza madre, come si chiamavano ai miei nefasti tempi le giovani donne che avevano portato avanti la gravidanza e partorito il figlio. Magari ha chiesto alla mamma, al posto della “infermiera”, qualche notizia sul sesso e sul coito e ha avuto come risposta un ridimensionamento del caso e una superficiale derisione. Propenderei verso l’interpretazione della mancata didattica e della forte pulsione sessuale, piuttosto che verso un trauma reale di interruzione di gravidanza e semplicemente perché la simbologia sarebbe diversa e maggiormente coperta ed ermetica. La semplicità dei simboli attesta della semplicità del caso, che, pur tuttavia, per la giovane Adalgisa è veramente complesso e ansiogeno.
“Allora con tutta l’agitazione e la paura che avevo, ho aperto il vestito che indossavo e ho mostrato le gambe.”
Adalgisa celebra in sogno la sua “epifania” sessuale in riguardo alla didattica. Il quadretto è apparentemente piccante e conferma in maniera disarmante l’inesperienza e il bisogno di conoscenza dell’adolescente, una delle tante forme del “sapere di sé” e del suo corpo nel caso specifico. Il gesto di “aprire il vestito” simboleggia lo svelamento del problema e l’esibizione della sua condizione femminile alle prese con attributi e prerogative sessuali diverse dalla condizione maschile. Il “mostrare le gambe” non è un atto erotico di stampo seduttivo, ma equivale alla sintesi della problematica femminile legata all’acquisizione dell’identità di donna e di potenziale madre. Adalgisa è agitata e ha paura per quelle informazioni che non le vengono date in riguardo alla sessualità e per quell’educazione che le è stata negata per indolenza e per resistenza degli adulti, per remore religiose e per bacchettoni schemi culturali.
“Dal ginocchio in giù erano tempestate di zecche e gli ho detto che dovevano fare subito qualcosa.”
Immaginate una ragazzina che comincia a vivere la sessualità “genitale” e si trova con il suo ragazzo nella medesima situazione psicofisica. Succede che l’eccitazione li coinvolge e a causa dell’inesperienza lui eiacula tra le gambe della ragazza con tanta paura di lei per quello che non sa e che non le hanno detto. Magari glielo hanno spiegato, ma una cosa è la teoria e un’altra cosa è la pratica. L’eccitazione sessuale lascia il posto all’agitazione per una gravidanza, oltretutto da giustificare al padre e alla madre. Ignorare aiuta l’agitazione anche a causa del senso di colpa che avvolge la sessualità e il suo esercizio quando non è consentito dalla legge materna e paterna, culturale, religiosa e senza dimenticare la legge del “Super-Io” della stessa Adalgisa, le paure e i limiti, le angosce e le inibizioni che da sola si infligge. La misura è colma e le “zecche” vanno spiegate nel modo giusto, perché tra gli ormoni che spingono e le circostanze relazionali che sorgono è molto arduo giostrarsi senza cadere nella tentazione eccitante del “proviamoci e speriamo bene”. Di poi, ci si potrà logorare in attesa del mestruo che immancabilmente in quel mese ritarderà, proprio perché chiamato in causa dalla psiche dispettosa e dalle tensioni in eccesso. Anche gli orologi biologici sono fortemente influenzati dalle emozioni, oltre che dagli ormoni. Se Adalgisa non ha confidenza con la madre, a chi volete che si rivolga per lenire le sue ansie, al padre? Magari! Si porterà dietro la sua formazione mancata fino all’autorizzazione a procedere nell’atto del matrimonio. Questo almeno secondo il vangelo dei genitori e della società bigotta dei miei tempi. In verità la giovane donna continuerà a trasgredire e a passare di eccitazione in agitazione con il rischio di restarci secca e possibilmente di contribuire beneficamente alla lotteria del Genio della Specie.
“L’infermiera, invece di portarmi dentro al pronto soccorso, ha chiamato un dottore perché mi guardasse e hanno perso molto tempo e non prendevano una decisione.”
Adalgisa riconferma in sogno il suo dramma di allora: la mancata educazione sessuale e l’incidente di percorso nel primo esercizio della sua vita sessuale. Nessuno, anche gli addetti ai lavori, appagano i bisogni di sapere della giovane donna alle prese con il suo corpo che vuole e la sua mente che vuole sapere, di una Adalgisa che oscilla tra Eros e Dea Madre, tra la sua femminilità fertile e prorompente e le censure del Super-Io individuale e sociale. Il “pronto soccorso” è squisitamente psicologico, il luogo atto a un “SOS adolescente chiama e vuol sapere”, ma non la favola di Cappuccetto rosso e del lupo, bensì la verità oggettiva di un corpo che è maturato ed è pronto alla sessualità prospera e alla possibilità della maternità. Quante donne riferivano nelle sedute di psicoterapia di aver tanto desiderato una madre aperta e amica, piuttosto che una madre bigotta e tiranna. Lasciamo da parte il padre perché la sua figura così importante in questi settori è stata ed è latitante per stupidi pudori e maschili pregiudizi. I figli lamentano sempre questa lacuna educativa nei genitori. Il sistema educativo ha contribuito alle incertezze psico.evolutive di Adalgisa. “L’infermiera” e “il medico” rappresentano le figure genitoriali in versione sanitaria, una salute psichica più che fisica.
“Io a quel punto mi sono svegliata in preda alla paura”
E con la “paura” della sua vita sessuale e della sua vitalità erotica Adalgisa è cresciuta. Lei ha chiesto, ma nessuno ha risposto in maniera adeguata ed esauriente, anzi hanno minimizzato le sue richieste in riguardo alla fecondazione e al rischio di gravidanza. Questo riesuma in sogno Adalgisa, il periodo in cui si addentrava nei misteri dell’Eros e aveva paura del suo corpo che era in perfetta salute e dei suoi primi contatti, più che rapporti, sessuali, che immancabilmente finivano con l’eiaculazione precipitosa del partner, altrettanto giovane e inesperto perché anche lui vittima del sistema educativo e culturale.
Chi non ha vissuto questo trambusto e queste esperienze faccia un passo avanti.
Ero in un luogo strano, il parcheggio di una stazione o di un aeroporto, e stavo tornando a casa da non so dove.
Ero con amici e avevo aperto il bagagliaio per mettere le valigie.
Sono andata verso di loro e, quando mi sono voltata, la macchina non c’era più.
Tutto era andato bene e ho pensato che questa non ci voleva.
Non ricordo come sono andata a casa.
Durante la cena ho detto a mio marito che mi avevano rubato la macchina.
Era arrabbiato e diceva che proprio quella non dovevano rubarla. Cercava un modo per rintracciarla, ma diceva che non la troveremo più.
A questo punto mi sono svegliata.”
Il mio nome è Marumaru.
INTERPRETAZIONE DEL SOGNO
“Ho sognato che mi avevano rubato l’auto.”
C’è qualcosa che non va negli apparati e nelle funzioni del sistema neurovegetativo di Marumaru. C’è qualcosa che non va nella sessualità, ma non in senso organico, c’è qualcosa di psicologico che si è inceppato e causa una disfunzione all’esercizio della vita sessuale. C’è un “fantasma di castrazione” in circolo nella “organizzazione psichica reattiva” di Marumaru. La donna non vive bene in questa contingenza psico-storica la sua femminilità e la sua sessualità. Deve essere successo qualcosa di traumatico che ha riesumato questo “fantasma” che si matura nell’infanzia e che si trasporta nel corso dell’evoluzione psicofisica sotto forma depressiva di perdita. “Rubato l’auto” si traduce in “vivo malissimo il mio corpo e le mie funzioni erotiche e sessuali”, mi sento castrata.
“Ero in un luogo strano, il parcheggio di una stazione o di un aeroporto, e stavo tornando a casa da non so dove.”
Il luogo sarà “strano”, ma simbolicamente è inequivocabile. E’ il luogo del distacco e della perdita. Un “fantasma di morte” si profila subito dopo il “fantasma di castrazione”. Di certo, siamo in un ambito psichico fortemente depressivo. Marumaru sta mettendo a dura prova la sua solidità psichica sotto le sferzate amare del distacco e della perdita. Se nella “castrazione” c’è una causa traumatica esterna che esaspera la “rappresentazione” di se stessa, nella “morte” c’è una congrua emersione dal profondo del nucleo depressivo dell’infanzia a cui nel tempo si sono associati tutti vissuti di perdita successivi. Marumaru è in uno stato psichico di obnubilamento mentale, uno stato crepuscolare della coscienza che non le consente quella lucidità necessaria per una reazione adeguata alla situazione in corso. Sta rientrando in se stessa dopo aver subito uno shock, “stavo tornando a casa da non so dove”. Marumaru ha appena vissuto un’esperienza fortemente emotiva che l’ha scombussolata dalle fondamenta ed ha evocato i suoi “fantasmi di castrazione e di morte”, l’angoscia di non essere giusta e adeguata, l’angoscia di vivere una perdita affettiva e un distacco sentimentale. Questo è il vero senso e significato di “ero in un luogo strano”.
“Ero con amici e avevo aperto il bagagliaio per mettere le valigie.”
Marumaru è una donna che socializza bene, “ero con gli amici”, ha una disposizione psichica a stare con la gente e in mezzo alla gente, nonché a fidarsi della gente. Pur tuttavia, la sua apertura sociale non sempre incorre nel giusto premio e nel doveroso riconoscimento. La gente sa che Marumaru è una donna e una madre, che ha una precisa identità psichica e sociale, che occupa un ruolo inequivocabilmente femminile: il suo “bagagliaio contiene le valigie”. Non si capisce bene quanto i cosiddetti “amici” siano solidali con Marumaru dal momento che sono messi in questa cornice onirica come tramite per cambiare quadro, più che come possibili alleati. In ogni caso questi amici movimentano la psicodinamica onirica senza stonare. La funzione onirica ha una valida capacità rappresentativa e creativa.
“Sono andata verso di loro e, quando mi sono voltata, la macchina non c’era più.”
La disposizione sociale di Marumaru è, altresì, confermata proprio nell’andare “verso di loro” quasi in atto di solidarietà, di ricerca di consenso e di approvazione di fronte al trauma della “castrazione” e della “morte”, della deprivazione e della perdita. Marumaru si trova di botto senza la funzione sessuale e senza il ruolo di madre e chiede alla società la nuova modalità di riconoscimento, chiede a se stessa quale immagine sociale deve esibire tra la gente che l’ha vissuta e riconosciuta come donna intera e madre integra. Marumaru ha perso proprio la figura di donna e il ruolo di madre. In qualche modo è stata deprivata della sua identità psicofisica. Non si tratta certamente del trauma dell’invecchiamento legato alla menopausa e alla perdita della capacità di essere fecondata e di avere un figlio, la questione verte su un trauma che Marumaru ha subito e che ha leso la sua identità psicofisica e il suo ruolo di madre, nonché il suo ruolo sociale di donna che vive e lavora tra la gente. Viene confermato quanto detto in precedenza.
“Tutto era andato bene e ho pensato che questa non ci voleva.”
E’ intercorsa una circostanza che ha smascherato lo status psicosociale di Marumaru, è brillato un fulmine nel ciel sereno che ha turbato l’equilibrio psicofisico, è occorso uno strano evento che ha messo a nudo la verità storica di un’esistenza: “tutto era andato bene”. Serve un cabarettista con il suo repertorio di intrighi e paradossi per illustrare che “tutto era andato bene” e che questo trauma “non ci voleva” proprio. Spesso la malafede e l’ingenuità vanno a braccetto nelle relazioni umane e specialmente in quelle amorose. Una inedita fiducia e un acritico affidamento sono virtù che spesso si sacrificano nel campo di battaglia. E’ successo che una donna chiamata Marumaru si è imbattuta con molta pacatezza riflessiva nella necessaria modificazione del vissuto su se stessa e sul suo ruolo di donna e di madre. Il trauma non è da poco anche se viene sostenuto dall’esperienza e dai meccanismi di difesa dell’età matura: la “razionalizzazione” ad esempio. Per questa motivo l’espressione “ho pensato che questa non ci voleva” calza a pennello con i tempi e le circostanze.
“Non ricordo come sono andata a casa.”
Traduco immediatamente dal registro simbolico al registro logico: “ho operato una poderosa “rimozione”, non “razionalizzazione”, per difendermi da tanto inganno e da tanta lesione personale”. Marumaru sistema nella sua “organizzazione psichica” i segni funesti di tanta sventura e, anche se possiede gli strumenti per archiviare bene il trauma dimenticando e ridimensionando gli eventi, è costretta a inserire nella sua “casa” psichica mobilio e accessori di non propria pertinenza e competenza. Ripeto: di fronte agli effetti psicofisici del trauma subito dalla sua persona e dalla sua figura, Marumaru trova una sistemazione idonea ai nuovi vissuti, oltretutto imposti da inaspettate occasioni e malcelate omissioni. La “rimozione” è un meccanismo psichico di difesa che soccorre ogni persona che vi ricorre con la sua blanda consolazione di oblio e di leggera dimenticanza e senza ricorrere necessariamente a ipotizzare dimensioni psichiche inconsce.
“Durante la cena ho detto a mio marito che mi avevano rubato la macchina.”
“Lupus in fabula”. Il quadro onirico si sposta consequenzialmente nella zona relazionale degli affetti costituiti e consolidati per spiegare la psicodinamica e l’entità della questione relazionale in corso. Il “marito” rappresenta non certo il partner di Marumaru, ma sicuramente la sua “parte psichica maschile”, quella affermativa che esige il massimo rispetto della propria autonomia psicofisica ed esclude, di conseguenza, qualsiasi forma di dipendenza che si può essere strutturata nel tempo e soprattutto nella convivenza massimamente fiduciaria. La “cena” attesta di un contesto sociale in cui è avvenuta la “castrazione”, il furto della “macchina”, la depauperazione della propria sessualità e l’offesa della propria femminilità. Marumaru prende progressivamente coscienza che, al di là dell’evento traumatico, ha fatto difetto la sua “parte psichica maschile”, “mio marito”, in questa relazione drammatica con se stessa, magari scatenata da stupidità altrui, ma in ogni caso male affrontate da una donna ingenua e innocente che pensava di essere al di sopra di ogni sospetto e circostanza. A Marumaru è venuta a mancare la direttività decisionale nella circostanza in cui è stata messa in gioco la sua fiducia e il suo affidamento nei riguardi degli altri.
“Era arrabbiato e diceva che proprio quella non dovevano rubarla. Cercava un modo per rintracciarla, ma diceva che non la troveremo più.”
Questa è la reazione da cavallo di razza della nostra protagonista: la rabbia scatenata dall’ingiustizia subita dalla sua persona e l’offesa arrecata alla sua figura, “proprio quella”. Marumaru dimostra un forte attaccamento alla sua femminilità e alla sua vita sessuale. La reazione è direttamente proporzionale all’intensità emotiva del sentimento della rabbia che per difesa ha spostato nella figura del marito, la sua “parte psichica maschile”, quella adibita alla difesa dell’orgoglio e alla tutela dell’onore. Marumaru le tenta tutte per recuperare la sua dimensione psicofisica turbata e umiliata, ma alla fine si convince che la “castrazione” è avvenuta anche se per interposta persona. La donna non ha saputo evitare l’umiliazione al suo essere femminile e il danno alla sua sessualità. La rabbia si compone nell’accettazione, il sentimento si placa nella consapevolezza della perdita. Il sogno si conclude con la pacatezza dell’inesorabilità dell’evidenza e con il rifiuto di una compensazione delirante che deroga dalla realtà dei vissuti e dei fatti. Dopo la “rimozione” arriva la “razionalizzazione”, dopo la dimenticanza subentra la presa di coscienza.
In conclusione è opportuno ribadire che spesso il sogno approfitta di un fatto della realtà o di un’esperienza vissuta per comporre le disarmonie e per riparare i traumi: vedi la teoria onirica della Gestalt psicologia. Magari qualche difetto del marito di Marumaru ha scatenato in sogno una reazione intesa precipuamente a cogliere la propria debolezza nella tutela della propria persona e nella difesa della propria integrità psicofisica anche in occasioni impreviste e inaspettate. La rabbia normale è esternata nella realtà degli eventi, mentre nella realtà onirica persiste sempre una forma di tutela psichica legata alla migliore sopravvivenza possibile anche di fronte a traumi imprevisti.
E fu così che Marumaru si arrabbia in sogno con la sua smarrita autonomia psicofisica e con la sua improvvida fiducia nei riguardi degli altri, nonché con il suo acritico affidamento al mondo che la circonda. E’ questa la sua vera “parte psichica maschile” che è andata in crisi per negligenza e per distrazione. E’ sempre preferibile tenere alta la guardia e sapere leggere e scrivere anche di fronte a circostanze di impostura e di ignoranza altrui.
“E’ estate. Sono vicina a casa mia e sto visitando una grande chiesa su una altura insieme a qualcuno che non vedo. Ne sento solo la voce quando fa commenti sulla bellezza della chiesa.
A tratti è il mio fidanzato n°due, (ho due relazioni), a tratti mia madre e a tratti qualcun altro. Ma non sono tutte e tre le persone presenti. E’ come se si alternassero nel sogno.
Dopo aver percorso all’esterno tutto il perimetro della chiesa (in sogno mi capita sempre di restare solo all’esterno delle chiese) mi soffermo a guardare la vista dall’alto sul lago Maggiore.
Riscendo, (? riscendiamo), a piedi fino all’altezza del lago e io e mia madre questa volta saliamo su una canoa, (secondo sogno con canoa), e prendiamo il lago e poi un fiume che porta alla Svizzera. Io guido la canoa.
Ad un certo punto tiro fuori dal mio zaino un piatto di pasta che ho cucinato per mia mamma, (nel sogno c’è anche una parentesi in cui mi rivedo nella preparazione del piatto di spaghetti allo scoglio) e glielo do da mangiare.
Dopo un po’ mi accorgo, guardando dalla canoa, che i paesi sulle sponde del lago sono allagati. Lo percepisco come un problema, quindi prendo in mano l’azione, lascio mia madre a continuare la gita da sola e scendo nelle strade allagate, ma l’atmosfera è tranquilla con la luce del sole sulle case.
In giro non c’è nessuno. Entro in una casa e salgo al secondo piano come se fossi in autoplay di un video gioco e lì dentro, in un ambiente fresco e oscuro, ci sono delle persone che non riconosco ma so essere mie amiche.
C’è anche una camera con un letto mio e oggetti miei. In particolare ci sono moltissime pietre preziose che appartengono tutte a me, molte incise con disegni di scorpioni e di nasi.
Vado al bagno della mia camera in cui non c’è la porta ma solo una tenda di perline e, mentre mi sto sistemando, intravedo la figura di una ragazza che conosco ed è mia amica, l’unica del sogno, a parte mia madre, che vedo bene in faccia, che sta in piedi ferma nella mia stanza a guardarmi attraverso la tenda. Le dico “Samantha che fai?”, poi muovo un passo per uscire dal bagno e lei mi si butta addosso per aggredirmi.
Sopraggiunge un ragazzo dalla cucina per salvarmi e non so bene che fine faccia Samantha. Mi metto a parlare con questo ragazzo che però è un’ombra, non lo distinguo bene e stiamo un po’ in un abbraccio intimo e io percepisco la presenza del mio fidanzato n°uno che però nel sogno non c’è.
A questo punto salta fuori che c’è un’invasione di Alieni in atto (sogno molto speso gli Alieni ma non mi spaventano, nei miei sogni sono sempre una guerriera) e che essi sono in grado di assumere le sembianze di chi vogliono.
Io mi metto a cercare una pietra in particolare che non salta fuori. E’ una pietra nera con dei puntini azzurri che ha la capacità di curarmi e farmi cogliere l’origine dei problemi.
La cerco invano ovunque dentro la casa insieme a questo mio salvatore, finché non appare un alieno nella stanza ed io lo sconfiggo in uno scontro corpo a corpo.”
Questo è quanto ha sognato Giglio.
INTERPRETAZIONE DEL SOGNO
“E’ estate. Sono vicina a casa mia e sto visitando una grande chiesa su una altura insieme a qualcuno che non vedo. Ne sento solo la voce quando fa commenti sulla bellezza della chiesa.”
Giglio è nei pressi di se stessa, della “parte psichica” adibita alla “sublimazione della libido”. E’ tempo di nobilitare le proprie pulsioni e di dar loro un fine generoso al fine di non avvertire gli eventuali sensi di colpa destati dal pensiero di essere egoisti e bisognosi. La “chiesa su un’altura” è un rafforzamento simbolico di quanto affermato. “L’estate” aiuta a sentire il calore delle pulsioni e la consapevolezza di una donna che si accompagna al padre: “qualcuno che non vedo”. Questa figura è simbolicamente e universalmente sempre il padre “edipico”, quello con cui non sono stati sciolti i legami ambigui e ambivalenti, le pulsioni seduttive ed erotiche di una bambina che cerca la sua dimensione psichica femminile. Giustamente Giglio ha sublimato a suo tempo la “libido edipica” e si porta a spasso per il sogno il padre in versione di abile commentatore della Bellezza. La figlia riconosce al padre una sensibilità estetica, fatta di tanta ammirazione e di consapevole stupore. Giglio sublima l’attrazione verso il padre per non colpevolizzarsi, ma riconosce nello stesso tempo al padre quella propensione alla Bellezza, “della chiesa” nel caso specifico. Sintetizzo e chiarisco: Giglio riesuma e rievoca la figura paterna e assolve i sensi di colpa legati all’attrazione psicofisica e approfitta della circostanza per mettere in luce la sensibilità al Bello e all’Arte dell’augusto genitore.
“A tratti è il mio fidanzato n°due, (ho due relazioni), a tratti mia madre e a tratti qualcun altro. Ma non sono tutte e tre le persone presenti. E’ come se si alternassero nel sogno.”
I conti “edipici” tornano tutti: il fidanzato numero due, la madre o una figura anonima e indifferenziata, sempre un “qualcun altro” dentro, una figura “introiettata” e nel sogno tirata fuori, “proiettata”. Il “fidanzato numero uno” è sempre il padre per tutte le bambine, il “fidanzato numero due” è quello che segue e consegue alla complessità dei vissuti in riguardo alla figura paterna. Poi, arrivano anche gli altri fidanzati, i numero enne, nella speranza che siano tanti per depurare i vissuti “edipici” e scegliere il proprio uomo senza i condizionamenti subdoli dell’infanzia e dell’adolescenza, senza sposare la “traslazione” del padre insomma. Giglio non mette in scena la “triade edipica”, si limita a visitare i singoli protagonisti e li alterna sul palco a simboli dei suoi vissuti e della sua evoluzione psicofisica, dall’infanzia all’età adulta. Degna di nota è la poligamia di Giglio, “(ho due relazioni)”, la sua naturalezza a vivere il maschio senza i limiti imposti dalla Morale pubblica, il “Super-Io” collettivo, e dal suo “Super-Io”, la sua istanza psichica censoria. Giglio manifesta una disinibizione nella gestione delle relazioni amorose, affettive e sessuali, a testimonianza della sua capacità di alternare nella vita, non soltanto nel sogno, situazioni di coppia varie e variopinte. La caratteristica si spiega con una riduzione dell’investimento di “libido” nei suoi uomini e del coinvolgimento amoroso. Insomma, Giglio non s’innamora abbastanza o teme di legarsi troppo e per questa paura si difende da quello che lei vive come un coinvolgimento minaccioso della sua autonomia. Il prosieguo del sogno darà le ragioni di questa nota caratteristica della protagonista. Possibilmente c’è ancora un ristagno “edipico”, per cui Giglio non si è evoluta degnamente nella “posizione psichica genitale” e non investe appieno le sue energie e i suoi sentimenti secondo le naturali norme della disposizione donativa e della generosità altruistica, della “comprensione” e dell’abbraccio psichico dell’altro.
“Dopo aver percorso all’esterno tutto il perimetro della chiesa (in sogno mi capita sempre di restare solo all’esterno delle chiese) mi soffermo a guardare la vista dall’alto sul lago Maggiore.”
Il processo psichico di difesa dall’angoscia della “sublimazione della libido” non trova Giglio disponibile al cento per cento dal momento che percorre “tutto il perimetro esterno della chiesa”, non entra nel tempio sacro per depositare le sue cariche istintive e le sue pulsioni in attesa di essere purificate dalla grazia della Psiche. Giglio è una donna che non si coinvolge del tutto nelle operazioni di recupero e di rimessa in atto del vietato e dei tabù. Giglio salta di palo in frasca e travalica dalla “sublimazione” alla contemplazione estetica, anzi predilige tranquillamente quest’ultima e trova nella Bellezza la risoluzione idonea e congrua. Giglio sente il bisogno di “catarsi” dell’illecito e della colpa, ma fa tutto a metà e si ricovera sempre in “alto”, nel culto della madre che ristagna, il “lago Maggiore”. Dal sacro passa con disinvoltura all’umano, dal carisma alla concretezza estetica. Giglio le sta provando tutte le operazioni di ripulitura di eventuali traumi o fantasie, di pulsioni e desideri. Predilige non investire totalmente su azioni che nella Borsa del sacro hanno un valore, mentre nella Borsa dell’umano presentano una vitale consistenza. Vediamo dove procede dopo questo preambolo introduttivo.
“Riscendo, (? riscendiamo), a piedi fino all’altezza del lago e io e mia madre questa volta saliamo su una canoa, (secondo sogno con canoa), e prendiamo il lago e poi un fiume che porta alla Svizzera. Io guido la canoa.”
Dopo il “qualcuno che non vedo” del primo capoverso, decisamente decodificato come la figura paterna, ecco che si presenta in tutta evidenza e in pompa magna la figura molto importante nella formazione psichica di Giglio, la madre. A quest’ultima la figlia associa il processo psichico di difesa della “materializzazione” e il principio annesso della “realtà”. Giglio ama la concretezza e si è tenuta a fianco della “chiesa”, non è entrata nel luogo del sacro e della censura morale, ha preso atto e ha apprezzato l’aspetto culturale, filosofico ed estetico, La compagnia era la figura del padre. Adesso arriva la madre e la materia vivente, il “lago”, e Giglio si sente alla sua “altezza”, si è ben identificata nella madre durante la sua formazione ed evoluzione psicofisiche, per cui va da sé che ci sia la “canoa”, il grembo, la culla anatomica adibita alla sessualità e alla maternità. “Saliamo sulla canoa” attesta “l’identificazione” nella madre che ha portato Giglio a maturare nel tempo la sua “identità” femminile. Il padre non si è evidenziato abbastanza semplicemente perché è la figura conflittuale della “triade edipica” ed allora Giglio per difendersi non gli ha dato un volto e l’ha lasciato nell’anonimato. Guardate che bel quadretto al femminile: madre e figlia in canoa sul lago. Questa è una buona e originale allegoria con il rafforzamento dei simboli femminili, “lago” e “canoa”, ma Giglio non dimentica il padre e allora se lo porta dietro sotto forma classica del “fiume”. Non dimentica nemmeno di essere lei la protagonista della sua femminilità e si mette alla guida della sua “canoa” in buona e completa compagnia “edipica”. Ritorna la figura paterna in veste simbolica a testimonianza di una delicatezza e paura verso la figura maschile. E allora andiamo in “Svizzera”, il luogo simbolico delle libertà e dell’autonomia.
Che Giglio stia risolvendo la sua “posizione psichica edipica”, la sua relazione conflittuale con i genitori, e stia maturando la sua autonomia psichica riconoscendo il padre e la madre e risolvendo le pendenze maturate nel corso della vita?
Chi vivrà vedrà.
“Ad un certo punto tiro fuori dal mio zaino un piatto di pasta che ho cucinato per mia mamma, (nel sogno c’è anche una parentesi in cui mi rivedo nella preparazione del piatto di spaghetti allo scoglio) e glielo do da mangiare.”
La figlia dispensa amore per la madre. Dal suo grembo, lo “zaino”, il luogo della femminilità e della “genitalità”, Giglio partorisce da sola e senza aiuto dell’ostetrica, “tiro fuori”, tutti gli affetti possibili nei riguardi della figura materna, “un piatto di pasta che ho cucinato per mia mamma”, tutto l’amore verso la madre. Questa operazione di riconoscimento e di riconoscenza avviene con una preziosa nota narcisistica, “mi rivedo nella preparazione del piatto di spaghetti allo scoglio”, una pietanza non da morti di fame o da profani, oltretutto condita con tutto il trasporto affettivo di una figlia che si prende cura della madre dopo averla riconosciuta come la sua origine e la sua identità femminile: “glielo do da mangiare” e “io guido la canoa”. Degna di nota è l’assenza della stessa premura nei riguardi del padre, che, pur tuttavia, è presente in forma traslata e anonima. Ricapitolando: Giglio sviluppa in sogno la sua “relazione edipica” e mostra di averla superata, soprattutto in riguardo alla madre. Il padre resta una mina vagante nel mare psichico della formazione evolutiva della protagonista. Con la madre Giglio ha assunto un atteggiamento di cura e premura che si può definire “adozione”, una forma concreta e massiccia di “libido genitale” sublimata. La figura sacra della madre viene investita di affetti e atti che attestano riconoscimento e gratitudine.
“Dopo un po’ mi accorgo, guardando dalla canoa, che i paesi sulle sponde del lago sono allagati. Lo percepisco come un problema, quindi prendo in mano l’azione, lascio mia madre a continuare la gita da sola e scendo nelle strade allagate, ma l’atmosfera è tranquilla con la luce del sole sulle case.”
Giglio rievoca il momento della sua evoluzione psicofisica in cui ha operato il distacco dalla madre e ha risolto la sua dipendenza psichica dal momento che aveva ampiamente accettato e razionalizzato la sua identità femminile. Trascorso il periodo dell’identificazione e superato il bisogno di adottarla accudendo i bisogni di lei e prendendosi una cura speciale della sua persona, risolta questa benefica e matura operazione umana, Giglio riacquista la sua autonomia e indipendenza dal momento che “i paesi sulle sponde del lago” erano “allagati”. Giglio percepisce “come un problema questo trasporto e “prende “in mano l’azione”, le redini della sua vita “per continuare la gita” della sua vita “da sola”. In questa presa di coscienza dei vissuti complessi nei riguardi della madre Giglio razionalizza che non ha subito alcun danno e che la “razionalizzazione” di questo rapporto speciale con la madre è stato positivo e costruttivo al massimo, dal momento che ha apportato la tranquillità dell’animo, una forma di “atarassia” individuale da completamento d’opera e da scelta di se stessa dopo il periodo di dipendenza a vario titolo, o perché bambina o perché moralmente portata al sollievo dell’augusta figura materna. Traduco meglio e pari pari: Giglio, del tutto consapevole della sua femminilità e della sua persona, “guardando dalla canoa”, dopo aver temuto di aver corso il rischio di dipendere dalla madre, riacquista la sua autonomia psichica e vive la sua vita di donna e di femmina senza alcun turbamento e con tanta consapevolezza. Meglio di così non poteva andare.
“In giro non c’è nessuno. Entro in una casa e salgo al secondo piano come se fossi in autoplay di un video gioco e lì dentro, in un ambiente fresco e oscuro, ci sono delle persone che non riconosco ma so essere mie amiche.”
Giglio è con se stessa, in dolce compagnia di se stessa e della sua autonomia psicofisica. Giglio ha risolto i legami di figlia nei riguardi della madre e ha provveduto al suo accudimento: “in giro non c’è nessuno”. La figlia ha riconosciuto la madre dopo averla onorata e odiata e non è rimasta schiava e sola in questa improba controversia sull’identità e sul possesso dei beni affettivi. Sul padre il discorso è sospeso e la figura del genitore vaga come le mine nei mari durante il tempo di guerra in cerca della nave su cui esplodere. Giglio rientra in se stessa e per la precisione nella “sublimazione narcisistica del suo Io”, nel luogo riservato all’auto-gratificazione e all’auto-compiacimento, per rivivere i momenti di questa sua crescita personale. Giglio si ripensa come persona compiuta, ma non riconosce nella sua dimensione relazionale alcune figure o “parti psichiche di sé” che ancora aspettano una risoluzione congrua. Ritorna questa tendenza di Giglio all’incompiuta con alcune “persone” e con alcune esperienze della sua vita dove avrebbe voluto essere più decisa e incisiva. Si accontenta di un “autoplay” che si riduce a un “autoreplay”, a un rivedersi e a un riconsiderarsi narcisistici che lasciano l’amaro dell’incompiuta in bocca. Purtuttavia, ha il buon senso di ritenere “amiche” queste persone e manifesta quell’ottimismo non esagerato che non guasta, se confrontato con il pessimismo bieco della disperazione e del rancore di chi avrebbe voluto cambiare le carte in tavola. Tra le persone ci mettiamo d’ufficio il padre. Vediamo dove si dirige Giglio nel suo sogno. Adesso è ferma in una Svizzera calvinista e protestante, isolata e libera, ligia al dovere e alle leggi morali, ricca di buona cioccolata e di emmental, di orologiai e di orologi, di cucù e di mucche viola.
“C’è anche una camera con un letto mio e oggetti miei. In particolare ci sono moltissime pietre preziose che appartengono tutte a me, molte incise con disegni di scorpioni e di nasi.”
Giglio entra nell’intimità, nel personale, nel privato, nel proprio. La “camera da letto” condensa i vissuti interiori e indicibili, quelle “pietre preziose” che riguardano soltanto Giglio e nessun altro, la sua sfera anatomica e sessuale da non condividere e da stimare con grande perizia, i vissuti intimi e le esperienze erotiche che vertono sul versante sessuale maschile come i “disegni di scorpioni e di nasi”, una vasta gamma di simboli fallici, fecondanti al negativo i primi, penetranti con decisione i secondi. Lo “scorpione” rappresenta simbolicamente il pene che emette lo sperma temuto dalla donna che ha una tosta fobia della fecondazione e della gravidanza, mentre il “naso” condensa l’invadenza del pene e le sue ben note competenze erotiche e sessuali. Tra “pietre preziose” femminili e “scorpioni e nasi” maschili Giglio si compiace narcisisticamente delle sue doti erotiche e delle sue qualità sessuali, nonché delle sue paure e delle sue fobie, estendendo questi “oggetti” ai suoi ricordi sotto la forma di amuleti che esorcizzano l’angoscia di fecondazione e di gravidanza. Si conferma sempre con maggiore evidenza quel sano “narcisismo” che si snoda a metà tra l’amor proprio e il culto di sé. Non è da meno il senso del possesso e i due fidanzati con la loro umana gestione. Giglio è una donna che si compiace del suo potere erotico e sessuale, una femmina che sa gestire il maschio di turno. Il suo “narcisismo” prevale sulla “genitalità” di un sentimento d’amore donativo. L’evoluzione psichica di Giglio oscilla tra la “posizione edipica” e la “posizione narcisistica” e trascura la “posizione genitale”. Decisamente è una donna che non si innamora follemente di un uomo, è una donna che avanza con giudizio e temperanza verso gli investimenti sugli altri, è una donna che si compiace delle sue capacità, è una donna che ha due uomini e oltretutto generici e anonimi, uomini senza qualità.
“Vado al bagno della mia camera in cui non c’è la porta ma solo una tenda di perline e, mentre mi sto sistemando, intravedo la figura di una ragazza che conosco ed è mia amica, l’unica del sogno, a parte mia madre, che vedo bene in faccia, che sta in piedi ferma nella mia stanza a guardarmi attraverso la tenda. Le dico “Samantha che fai?”, poi muovo un passo per uscire dal bagno e lei mi si butta addosso per aggredirmi.”
Il passaggio dalla zona intima degli affetti speciali e dei segreti pensieri alla zona erotica e sessuale è breve, del resto come sempre e come giusto. Giglio si era imbattuta in precedenza nei suoi gioielli femminili e nei suoi trofei maschili, le “pietre preziose” e gli “scorpioni” e i “nasi”, adesso va proprio in “bagno” dove, oltretutto, “non c’è la porta, ma solo una tenda di perline”, si coinvolge direttamente con il suo corpo e i suoi bisogni, “mentre mi sto sistemando”. La disinibizione narcisistica della donna ritorna venata di esibizionismo e di competizione al femminile, “intravedo la figura di una ragazza che conosco ed è mia amica”, una figura equiparabile alla madre in quanto oggetto di presa di coscienza. Giglio “sa di sé” attraverso la madre e l’amica, “sa di sé” come donna e come corpo perché si è identificata nella prima e ha assunto identità psicofisica tramite la seconda, l’altra da sé, una persona che esiste nella realtà esterna, ma che, a tutti gli effetti, è l’immagine di sé, il fantasma del suo corpo, la rappresentazione primaria dei suoi desideri e bisogni di bambina che si accinge a evolversi in donna. Questa “amica” la spia nella sua intimità, questa “parte psichica di sé” è in conflitto con l’immagine globale che Giglio ha maturato nel corso della sua evoluzione psicofisica. Samantha è la controfigura di Giglio, quella che si assume la parte aggressiva e che aggredisce, meglio si auto-aggredisce, quella che non si piace e che non si è mai piaciuta, quella “parte psichica di sé” che si schiera per il sacro e odia il profano o viceversa, la “parte psichica oppositiva” di Giglio rivolta contro se stessa, la parte “sadomasochistica”, quella che fa male e subisce il male. Giglio conosce molto bene se stessa “Samantha” e la madre. E’ proprio vero, perché sono i personaggi e le figure che la riguardano in prima persona, sono “l’introiezione” e la “proiezione” della madre e di se stessa nella versione non gradita e rifiutata, quella parte che non piace e che non si accetta. Qualcosa della sfera intima e privata del corpo e della mente non va proprio giù a Giglio e in questo modo ricorre a Samantha per evidenziare questa suo conflitto intrapsichico.
Ma cosa scarica Giglio su Samantha?
Quale materiale psichico traumatico Giglio addossa alla povera Samantha?
Importante continuare a vivere per sapere anche questo.
“Sopraggiunge un ragazzo dalla cucina per salvarmi e non so bene che fine faccia Samantha. Mi metto a parlare con questo ragazzo che però è un’ombra, non lo distinguo bene e stiamo un po’ in un abbraccio intimo e io percepisco la presenza del mio fidanzato n°uno che però nel sogno non c’è.”
Giglio scarica su Samantha tutta l’aggressività incamerata nell’evoluzione della sua “posizione psichica edipica”, della sua conflittualità ambivalente nei riguardi del padre e della madre, della sua psicodinamica evolutiva in riferimento ai genitori. Samantha condensa gli affetti legati alla “parte negativa” del “fantasma della madre”, quella che censura e impedisce i vissuti affettivi nei riguardi del padre, la figura in cui si è in qualche modo costretta a identificarsi per acquisire la sua identità femminile, quella che limita e vieta, la madre che impone i tabù e istilla il “Super-Io” sostituendosi al padre. Ricapitolando, Giglio sta sviluppando in sogno l’iter e la risoluzione della sua “posizione psichica edipica”, sta riesumando una tappa altamente formativa della sua evoluzione e mostra chiaramente la conflittualità ambivalente nei confronti della madre e dispone in discrezione il padre come figura importante e in parte rimossa nel suo “fidanzato n°uno”, come si diceva ampiamente nei precedenti iniziali capoversi. Mostra, inoltre, il suo distacco risolutivo nei riguardi della madre lasciando che prosegua la gita in Svizzera e riaggancia il padre nella figura del fidanzato n°uno di cui percepisce la presenza mentre sta in intimità con il nuovo ragazzo che la salva dalle grinfie di una invadente e aggressiva Samantha di cui non sa bene la fine che fa. Ricapitolando ancora e meglio di prima: Giglio si stacca dalla madre attraverso l’affidamento a un uomo, “il ragazzo che sopraggiunge dalla cucina” ossia dalla zona degli affetti condivisi e da condividere. Purtroppo, questo “ragazzo” seduttivo è evanescente, è “un’ombra”, viene dal suo Profondo psichico, dall’aldilà subcosciente, emerge dai suoi desideri di bambina e di adolescente e si porta sempre dietro la figura del padre, la prima ombra del fidanzato n°uno, quello che ancora non sa riconoscere come figura formativa della sua femminilità e delle sue arti erotiche e seduttive. Giglio “percepisce una presenza” come nei migliori film gialli, un fidanzato che in qualche modo tradisce e di cui dispone le fila. Proprio vero che il primo amore non si scorda mai e non si sposa. Giglio sta in intimità con un ragazzo “ombra” che la salva dalle grinfie della madre: questo ragazzo è l’erede della prima ombra, il padre. Quest’ultimo ha contribuito nell’economia psichica di Giglio alla formazione della strategia di approccio all’universo psicofisico maschile.
“A questo punto salta fuori che c’è un’invasione di Alieni in atto (sogno molto speso gli Alieni ma non mi spaventano, nei miei sogni sono sempre una guerriera) e che essi sono in grado di assumere le sembianze di chi vogliono.”
Ah, gli Alieni!
Ah, l’alienato, tutto quello che volevamo vivere di noi e non abbiamo fatto nascere in noi!
Ah, i mille personaggi in cerca d’autore che non siamo e che sappiamo ben interpretare per difesa dal coinvolgimento con gli altri!
Spuntano le difese sociali di Giglio. Scendono dall’astronave alla moda gli Alieni, arrivano i modi di essere e di esistere che la protagonista voleva incarnare e che per l’angoscia dell’indeterminato ha lasciato andare nell’evanescenza del Nulla e del “non se ne fa niente”. Gli Alieni “sono in grado di assumere le sembianze di chi vogliono”, hanno capacità mimetiche e mistificatorie, sono dei grandissimi bugiardi e non dicono mai la verità del “chi sono” e del “cosa vogliono”, sono degli impostori e degli imbroglioni di vasta portata che inquinano la società. Questa è la versione negativa dell’umana capacità psichica di empatia e di simpatia, di partecipazione e condivisione. Questa è la “parte psichica negativa” del “fantasma dell’altro”, quella che mi inganna e mi porta via sempre qualcosa e a cui non bisogna rivolgere la parola e addirittura affidarsi, questo è lo Straniero di Camus, la parte straniera di noi stessi che abbiamo definitivamente debellato criminalizzandola per paura e su suggestione dei nostri incauti e superficiali genitori. E così Giglio è cresciuta “guerriera” per difendersi da se stessa, dalle sue giuste paure e dalle altrui ingiuste angosce. La mamma istilla, suggerisce, mette dentro il cuoricino della bambina a mo’ di insegnamento i suoi traumi di donna adulta e le sue esperienze andate a male come il latte fresco di giornata il giorno dopo. Il padre c’è e non c’è, il padre ha fatto meno danno, il padre è rimasto nel limbo delle figure da salvare per amore indicibile, mai detto, mai profferito. Una Giglio censurante e oltremodo “superegoica” mostra in questo siparietto finale i suoi tabù, i suoi divieti, i suoi “verboten”, le sue difese inutili verso il resto del mondo e proprio quando le aperture all’esterno sono costruttive e necessarie per una giusta evoluzione psicofisica. E’ come se Giglio andasse contro corrente e si rinchiudesse nel mondo di Narciso per non coinvolgersi con i fidanzati n°tre, n°quattro, n°cinque, n°enne. “Giglio nei sogni è sempre una guerriera”, ma sicuramente è arrivato il tempo di far riposare questa “guerriera” dopo tanto inutile stress. Ben vengano gli Alieni a portare la loro buona novella se serve a “sapere di sé”, a una migliore autocoscienza. Giglio non deve combattere contro se stessa e le sue produzioni psichiche innovative ed evolutive, contro i suoi “Alieni”, non deve alienare il suo prodotto psichico interno lordo per paura di coinvolgersi nelle stranezze di una vita alla grande e spericolata. Gli insegnamenti della mamma e i silenzi del padre devono lasciare il posto alla normalità dell’anormale, alla convivenza con gli Alieni dentro e fuori, alla condivisione delle esperienze e delle avventure.
“Io mi metto a cercare una pietra in particolare che non salta fuori. E’ una pietra nera con dei puntini azzurri che ha la capacità di curarmi e farmi cogliere l’origine dei problemi.”
Giglio sa di non stare bene e di avere bisogno di una cura che verta sulla consapevolezza delle cause dei suoi mali, “l’origine dei problemi”, una psicoterapia psicoanalitica che, risalendo per libere associazioni alle esperienze significative della sua vita, le dia quell’equilibrio e quella sicurezza insieme a quella tranquillità dell’animo che non guasta mai come lo zucchero nel caffellatte dei bambini. E allora Giglio tira in ballo la sua bambina dentro e il suo pensiero magico, i “processi primari” che che usava nell’infanzia e che si chiamavano con una sola parola la “Fantasia”, il pensare per allucinazioni e per fantasmi, l’andare contro il “principio di realtà” a favore del “principio del piacere”, l’esaltare le pulsioni e abolire i divieti, tira fuori il suo Harry Potter e la sua “pietra” filosofale “nera con dei puntini azzurri”, quella che ha la capacità taumaturgica della presa di coscienza, della riflessione su se stessa e sugli eventi della propria formazione ed evoluzione: il possesso mentale delle cause. Giglio estrae dal suo cilindro di prestigiatrice la magia, per arrivare alla “interpretazione” e alla “razionalizzazione” delle cause insieme al suo analista, al suo “salvatore”, che, come Ermes, comunica la volontà degli dei ai mortali. La magia è una pratica antichissima che ha il sapore dell’eternità semplicemente perché è la prima forma mentale di tutti gli infanti, di tutti coloro che sono ancora senza parola ma pensano e pensano tanto e di tutto. La Magia si basa sul meccanismo di difesa dall’angoscia dello “annullamento”, che si attesta nella conversione accettabile e gestibile dell’angoscia attraverso il rito, attraverso l’esorcismo di un divieto. La Magia si basa sul meccanismo di difesa dall’angoscia dello “spostamento” attraverso la costruzione del “feticcio”, la “pietra nera con dei puntini azzurri”, quella “che non salta mai fuori” e che esiste da qualche parte del culo del mondo, quella che, semplicemente usando la Ragione” deterministica, arriva alla “atarassia” per la via preferita dalla Cultura occidentale, la “razionalizzazione”, il meccanismo principe di difesa dall’angoscia che non è mai abbastanza, a conferma dell’umana debolezza che connota la creatura privilegiata di Dio o di Madre Natura, l’uomo, il solo animale vivente che soffre della malattia mortale, che è malato della consapevolezza della fine, della coscienza della morte e dell’assurdità della vita che si conclude nel niente. Eppure Giglio ritorna bambina e rispolvera il suo pensiero magico per risolvere le sue angosce. Vediamo la conclusione di questa lunga cavalcata nelle praterie psichiche durante il sonno, nel pensiero del sonno, il sogno.
“La cerco invano ovunque dentro la casa insieme a questo mio salvatore, finché non appare un alieno nella stanza ed io lo sconfiggo in uno scontro corpo a corpo.”
Giglio cerca “invano” la sua “kaba”, la pietra nera della sua religione psichica “dentro la sua casa” psichica insieme al suo “salvatore”, ed ecco che appare un “alieno”, un trauma, un non vissuto, un fantasma, un conflitto, una semplice fantasia o un semplice fatto, su cui Giglio insieme al suo salvatore analista può esercitare e far pesare la forza della Ragione e della “razionalizzazione”. Inizia lo scontro corpo a corpo con se stessa e in particolare con quelle “parti di sé” che si sono opposte alla sua integrità e armonia psichiche, gli Alieni per l’appunto, che aspirano a essere capite e riassorbite nel tessuto connettivo di un Corpo fatto di carne e ossa e di una Mente fatta di fantasmi e di ragionamenti. Alla fine del tragitto e dei tanti conflitti a Giglio resterà l’ultimo combattimento, la risoluzione del “transfert” esperito verso il suo analista, la liquidazione del vissuto emotivo e affettivo maturato nel corso del viaggio insieme al suo navigatore al fine di acquistare definitivamente la sua autonomia psicofisica.
E’ possibile tutto questo?
Decisamente “non potest” e “non possumus”, ma tentar non nuoce. Non è possibile liquidare relazioni e vivere da soli, a meno che non ci si trovi nel carcere della follia. E allora ben vengano le dipendenze e tutti i tentativi di liberazione che nel corso dell’esistenza intentiamo contro e a favore di noi stessi.
Il sogno di Giglio merita ulteriori riflessioni, ma si può concludere qui.
“Andavo a fare una camminata. Il tempo era nuvoloso, le strade erano bagnate perché aveva appena piovuto.
In un punto un fosso era straripato.
Ho proseguito preoccupata, ma ad un certo punto l’acqua saliva dappertutto inondando la strada.
Ho cominciato a correre verso casa impaurita.
Sentivo, però, che qualcuno mi stava inseguendo. Quando mi sono voltata indietro, un uomo alto mi ha afferrato stringendomi.
Terrorizzata ho provato a urlare, ma dalla bocca non usciva nessun suono.
Mi sono svegliata urlando.”
Miriam
INTERPRETAZIONE DEL SOGNO
Domanda: chi di voi non ha mai sognato, anzi, non ha mai vissuto l’incubo di essere inseguito, di essere afferrato, di essere terrorizzato e di urlare senza emettere alcun suono?
La risposta è la seguente: tutti abbiamo fatto questo sogno.
Altro giro e altra domanda: chi di voi non si è mai svegliato gridando?
La risposta è la seguente: tutti ci siamo svegliati gridando.
Il sogno di Miriam, incubo incluso, è universale semplicemente perché è il prodotto psichico classico della “posizione psichica edipica”, della conflittualità con i genitori, della competizione con la madre e della seduzione del padre per quanto riguarda la figlia, della competizione con il padre e della conquista della madre per quanto riguarda il figlio. Universalmente siamo figli di padre e madre. I Latini dicevano che “mater semper certa est, pater nunquam” in grazie alla gravidanza e al parto e ammiccando sulla correttezza seduttiva e operativa della madre. Anche in assenza di padre e madre avviene il miracolo “edipico”, una “posizione” psichica evolutiva e altamente formativa. Essa viene vissuta ed elaborata dai quattro anni in poi e si trascina per quasi tutta la vita con alterne vicende tra l’onore, l’amore, il riconoscimento da portare ai genitori. Il bambino andrà dagli Appennini alle Ande per ritrovare l’amato Bene di una Madre, così come la bambina non sarà e farà da meno senza ricorrere a tanti trasferimenti orografici e allo spreco di tante utili energie.
Andiamo avanti con l’interpretazione del sogno di Miriam, meglio, con l’interpretazione del sogno di tutti quelli nati da madre e padre sotto la volta celeste.
“Andavo a fare una camminata. Il tempo era nuvoloso, le strade erano bagnate perché aveva appena piovuto.”
Miriam cammina e fa camminate, vive e osserva la vita. Questa donna è una fine indagatrice di se stessa e del mondo che la circonda, dei suoi umori e delle sue risoluzioni. Miriam non sta vivendo una buona contingenza esistenziale e la sua capacità introspettiva non l’aiuta, anzi le rema contro, così come la sua abilità a leggere gli altri e i segnali della gente non la sostiene nel verso auspicato. Le nuvole coprono il sole e offuscano il cielo: la lucidità mentale è in crisi. Non sempre si può e si deve ragionare e, allora, ben venga la pioggia che bagna “le strade” e le connota al femminile. Chi cammina cerca e anche con il cattivo tempo si possono fare eccezionali scoperte. Quando il sole è coperto, Miriam procede verso gli eventi che prepara e costruisce. Pensiero e azione si coniugano in lei in maniera proficua, come nell’azione sovversiva di un affiliato alla Giovine Italia. Aggiungo per amore della pace che la creatività non manca nel crepuscolo dei figli degli dei, gli uomini.
“In un punto un fosso era straripato.”
Tanta madre tracima dal Profondo psichico, emerge dagli argini del canale fino a straripare: tanta madre e tanta femmina, tanta madre e tanta femminilità. Il sogno di Miriam si orienta verso l’esaltazione univoca dell’universo femminile ed eccede nell’allagamento del terreno circostante imbevendo le zolle di un’energia “genitale”. Dentro Miriam si profila la figura materna ed emerge con tutta la sua naturale energia inondando la personalità, i modi della donna e le modalità femminili. Da qualche parte e all’improvviso le scappa la mamma, a suo tempo introiettata per bisogni di identificazione psichica, e si profila la consistenza di un’operazione difensiva, sempre a suo tempo, salvifica: “io sono come la mia mamma e posso andare nel mondo con i miei connotati precisi e gentili”. Di tanta madre si vive, di troppa madre si muore: energia e identità si scontrano con la necessità dell’autonomia psicofisica.
Quante madri hanno ingabbiato le figlie?
Tantissime.
Trascuro il tragico risultato in riguardo ai figli, perché meriterebbe un trattato di ottocento pagine.
“Ho proseguito preoccupata, ma ad un certo punto l’acqua saliva dappertutto inondando la strada.”
La vita va e avanza con l’energia e la finalità che ogni figlia ha succhiato dal seno materno e ha maturato nel corso delle esperienze e dei travagli occorsi. La preoccupazione è a metà affanno e desiderio in una cornice d’attesa. Miriam sente la madre “dentro” venire “fuori” con quella forza che necessita al fine di essere utile. La figlia acquista la progressiva consapevolezza di quanto a suo tempo si è “imprittata” della figura materna, di quanta madre ha ingoiato e di quanta madre ha vomitato man mano che il prosieguo del cammino della vita si intervallava con le camminate della riflessione. Miriam “sa di sé” proprio in riferimento alla figura materna in un momento significativo e particolare della sua vita e della vita di lei. La sua vita è invasa dalla madre proprio quando quest’ultima offre il destro per l’impugnazione della causa di fronte al tribunale dei diritti delle figlie bambine. E Miriam risponde da perfetto avvocato che sa difendere le sue cause. Certo che l’inondazione della “strada” attesta di una emergenza materna veramente architettonica. Miriam è avvolta dalla madre, una donna che emerge imperiosa come Afrodite dalle acque del mare Ionio dopo essere stata formata dal seme di Urano e dalla schiuma dell’acqua salata.
Le bambine sanno come in certe circostanze dell’evoluzione psicofisica “sa di sale lo pane altrui”, specialmente se è quello materno, semplicemente perché non viene offerto al momento giusto per superficialità difensiva dell’augusta genitrice.
“Ho cominciato a correre verso casa impaurita.”
Miriam ha paura dell’invadenza psicofisica materna per cui è rientrata in se stessa, si è chiusa in una difesa introspettiva alla ricerca di dare senso e significato al volto materno che si stava profilando dentro di lei, al come e al quando qualcosa era sfuggita dalle sue maglie per andare chissà dove in quel chissà quando. La paura riguarda sempre un qualcosa di reale e di visibile, altrimenti si chiama angoscia e viene dopo il panico. Miriam ha paura di non aver bene riconosciuto e sistemato dentro la madre, quella figura importante che l’ha sostentata e dalla quale ha attinto le energie buone per evolversi nel corpo e nella mente. Questo ripiego verso “casa”, questa fuga dentro se stessa è una difesa psichica intesa a reperire la ragione di tanto conflitto con la madre e di tanta paura di lei. Del resto, l’invadenza materna è stata consentita dalla figlia, per cui Miriam sa che non può mancare alla prova della presa di coscienza di tanto trambusto del corpo e della mente. La domanda utile in questa contingenza del sogno è la seguente: cosa è successo fuori di Miriam per avere tanta eco dentro?
“Sentivo, però, che qualcuno mi stava inseguendo. Quando mi sono voltata indietro, un uomo alto mi ha afferrato stringendomi.”
Il padre, il padre “edipico” in prima fila!
Nel teatro psichico di Miriam dopo tanta Madre esordisce il Padre nella veste anonima di “qualcuno”. Miriam non può guardare in faccia il padre, altrimenti si sveglia perché il “contenuto manifesto” del sogno coincide con il “contenuto latente” e scatta l’incubo come difesa psicofisica. E se poi questo “qualcuno mi stava seguendo”, meglio. Se poi Miriam si fa inseguire da questo qualcuno senza volto, completamente anonimo come in un film di Hitchcock, la figura paterna da anonima diventa enigmatica. E se poi questo “qualcuno” che “mi sta seguendo” è “un uomo alto” che mi afferra “stringendomi”, come in un film di Dario Argento, ebbene, allora si tratta di un padre anche violento, meglio immaginato e vissuto tale dalla figlia Miriam. Quest’ultima, del resto, si è “voltata indietro”, simbolicamente si è rivolta al suo passato e ha ripescato la sue relazione “edipica” con il padre, i suoi vissuti per lungo tempo sperimentati nell’infanzia in riguardo alla figura dell’augusto genitore, “un uomo alto” come tutti i padri agli occhi e secondo il linguaggio simbolico dei figli piccoli. Anche secondo i desideri e i bisogni dei figli il padre è “alto” perché aristocratico e carismatico, un padre sublimato che assolve le mansioni semplici di garantire la sopravvivenza dei figli, di Miriam nel nostro caso. Anche un padre fisicamente basso è altissimo per i suoi figli. Eppure questo padre, che protegge e detta le regole del gioco, è soprattutto l’oggetto oscuro del desiderio e dell’angoscia dei figli, l’oggetto ambivalente della funzione fantasmica, l’oggetto immaginato dai sensi e indagato dalla modalità “primaria” del pensiero infantile. E come ogni buon “fantasma” il padre si scinde nella “parte buona”, quello che protegge, e nella “parte cattiva”, quello che punisce. Fondamentalmente resta una figura buona perché non divora i figli e non distrugge il proprio seme. Non è il gran sacerdote di Thanatos ed è distante dalla brutta Morte. Miriam sogna il padre amato e odiato, l’uomo che ha desiderato e temuto, sedotto e abbandonato. Miriam è partita dalla madre per concludere il suo viaggio “edipico” con il padre. Possibilmente la madre è stata la causa scatenante del sogno e dopo la partenza al femminile la figlia ha naturalmente evocato il padre nella sua nobiltà e nella sua plebea consistenza. E pensare che Miriam bambina desiderava essere stretta dal padre con tenerezza, quella stessa Miriam bambina che si puniva convertendo nell’opposto il suo istinto e il suo desiderio e facendosi punire dal padre giudice e censore. Miriam adulta ha possibilmente razionalizzato la figura paterna e l’ha riconosciuta, nel bene e nel male, come la sua ineffabile origine naturale, la radice psico-bio-socio-culturale.
“Terrorizzata ho provato a urlare, ma dalla bocca non usciva nessun suono.”
E’ il solito, universale, classico thriller: un uomo che ti insegue e l’urlo che non viene fuori dalla bocca.
Che non sia coinvolto anche Munch in questa operazione di scarico delle angosce edipiche e familiari?
L’urlo scarica la tensione nervosa accumulata durante il sogno e legata alla relazione ambigua e ambivalente con le figure genitoriali e, nello specifico, con la figura paterna. Quest’uomo vuol punire Miriam del suo interesse psichico e delle sue pretese di possesso. Meglio: Miriam espia i sensi di colpa legati all’espansionismo incestuoso nei riguardi del padre e alla competizione impari con la madre. Infatti, il sogno di Miriam parte dalla figura materna come causa scatenante per approcciarsi in maniera inequivocabile nel legame erotico e affettivo con la figura paterna.
Ma perché dalla bocca non esce mai “nessun suono” quando ci si trova in similari condizioni?
Tecnicamente perché, se si grida, si scaricano le tensioni e si può continuare a dormire e a sognare. Psicologicamente perché, se si grida, la psicodinamica “edipica” può essere portata avanti fino agli ulteriori e delicati vissuti. Miriam era satura delle tensioni legate alla sua “posizione psichica edipica” e il suo sistema psichico ha detto basta all’inquieto onirismo. Miriam è ancora giovane nel suo complesso di Edipo semplicemente perché si ripresenta senza mai definitivamente comporsi a livello emotivo e a livello razionale. Anche se nella vita da sveglia Miriam ha riconosciuto il padre e la madre, ottemperando al principale comandamento greco mitico e psicoanalitico, nella vita da dormiente conserva questo strascico benefico di una vitalità erotica e affettiva che ancora aspira a un suo appagamento anche traslato e a una sua compensazione anche questa traslata magari in altre figure del quotidiano e corrente vivere.
“Mi sono svegliata urlando.”
Il “contenuto manifesto” era talmente tensivo e prossimo al “contenuto latente”, lo stress onirico era forte e di lunga durata, per cui il risveglio è salutare una volta raggiunti i termini della sopravvivenza e non esplodere dietro le sferzate della tensione nervosa. Non sto esagerando, meglio, sto esagerando per far capire che l’urlo è catartico come il risveglio ed è direttamente proporzionale alla carica nervosa d’angoscia accumulata nel formulare la trama del sogno. Dall’intensità dell’urlo si può misurare l’energia messa in moto e andata in prospera circolazione. Ma non basta. Dall’intensità nervosa dell’urlo si può valutare soprattutto l’intensità libidica della “posizione edipica”, quanto ancora resta in ballo della conflittualità con il padre e la madre in questa avventura delle umane passioni e in questa disavventura delle filiali pretese.
Questo e quanto.
L’interpretazione del sogno di Miriam si può acquietare.