Avrei
bisogno di un aiuto per una interpretazione di sogni che ultimamente
sto facendo.
Sogno
molto spesso una mia vicina di casa che ho conosciuto per pochi mesi
e il 2 febbraio 2019 e’ morta
per malattia: aveva 74 anni.
Diciamo
che da subito ho incominciato a sognarla. La
prima volta che era arrabbiata con me però era nel corpo di un’altra
persona, poi un’altra volta, che ora non ricordo, in fine martedì 20
agosto 2019 e giovedì 22 agosto 2019.
Il
martedì l’ho sognata di pomeriggio. Eravamo
in un hotel che gestiva lei, era in piedi e
poi
si è
messa a
sedere. Parlavamo
con altre persone, me
compresa.
Eravamo
tutti seduti e io dicevo a questo ragazzo: “mettiti la maglietta di
Marcello burlon, visto che l’hai pagata 200 euro”. E
la signora morta (la mia vicina) rispose: “vedi, tanti genitori
fanno spendere dei gran soldi per cose di marca che potrebbero fare a
meno”.
Questo
è di martedì 20 agosto.
Poi
l’ho sognata ieri giovedì 22 agosto. Era tornata a casa e io dissi
vicino ad un’amica: “andiamo a trovare Carla, (la mia vicina
morta), so che è tornata”. Entrammo a casa sua e la trovai in
piedi vicino ad una persona seduta al tavolo. La mia amica le disse:
“ma Carla ti vedo molto bene, sei stata una grande, hai sconfitto
una malattia che è difficile guarire”.
Lei
sorrise e a quel punto si è rivolta a noi dicendoci: “vi presento
un amico, si chiama Simone Jori”. Io rimasi meravigliata e guardai
la mia amica dicendole: “eppure questo cognome non mi è nuovo. Mia
madre di cognome fa Jori”. Dopo ci disse la Carla:”volete
qualcosa da bere?” Camminò fino ad arrivare alla vetrina per
prendere dei bicchieri.
Poi
mi sono svegliata.
Se
può aiutarmi ad interpretare questo sogno, le sarei grato, grazie.
Premetto
che aveva altri vicini di casa e che conosceva da anni. Io da solo
pochi mesi, ma viene solo da me. Loro non l’hanno mai sognata e le
dirò di più. Io il mercoledì 21 andai a farle visita al cimitero e
nel sogno ero consapevole che lei era morta perché volevo chiederle
come mai stava lì e le volevo dire che io ero andata a trovarla al
cimitero e le avevo portato dei fiori.”
Il
sogno non è firmato. Chiamerò la protagonista Anonima.
INTERPRETAZIONE
CONSIDERAZIONI
La
signora Carla è il risultato dell’operazione di difesa
dall’angoscia del meccanismo psichico dello “spostamento”, a
metà tra la “traslazione” e la “proiezione”. Anonima vive
tramite la signora Carla i suoi vissuti e i suoi “fantasmi” nei
riguardi della madre. “Mia madre di cognome fa Jori” è il chiaro
indizio dello “spostamento” della
figura materna operato dalla
figlia nella
signora Carla. Il sogno espone una serie di esperienze vissute
e contrassegnate da un blando, quanto normale, senso di colpa.
“Sogno
molto spesso una mia vicina di casa che ho conosciuto per pochi mesi
e il 2 febbraio 2019 e’ morta per malattia: aveva 74
anni.”
Si
rileva la precisione delle date e degli eventi, ma soprattutto la
“traslazione” della figura materna nella vicina di casa. Anonima
sta sognando la madre e i suoi vissuti profondi nei confronti di
questa figura significativa della sua formazione psichica: “sogno
molto spesso”.
“Diciamo
che da subito ho incominciato a sognarla. La prima
volta che era arrabbiata con me però era nel corpo di un’altra
persona, poi un’altra volta, che ora non ricordo, in fine martedì 20
agosto 2019 e giovedì 22 agosto 2019.”
Degno
di nota ancora la precisione maniacale dei tempi e delle date, a
conferma di una difesa psicologica dall’emersione di contenuti
traumatici nel sogno e nella veglia, classico meccanismo di difesa
delle persone angosciate che nell’esercizio della memoria trovano
la scorciatoia per non soffrire ricordando eventi ed emozioni più
consistenti e ad alto tasso emotivo e sentimentale. “Che ora non mi
ricordo” attesta di una “rimozione” difensiva, come si diceva
in precedenza. “Arrabbiata” traduce sensi di colpa di Anonima nei
riguardi della madre, vissuti che inevitabilmente ci stanno tutti.
“Nel corpo di un’altra persona” attesta dell’uso dei
meccanismi psichici di difesa dello “spostamento” e della
“traslazione”: sogna la madre nel corpo di un’altra persona a
lei similare e compatibile.
“Il
martedì l’ho sognata di pomeriggio. Eravamo in un hotel che gestiva
lei, era in piedi e poi si è messa a sedere. Parlavamo con altre
persone, me compresa. Eravamo tutti seduti e io dicevo a questo
ragazzo: “mettiti la maglietta di Marcello burlon, visto che l’hai
pagata 200 euro”. E la signora morta (la mia vicina) rispose:
“vedi, tanti genitori fanno spendere dei gran soldi per cose di
marca che potrebbero fare a meno”.
La
madre di Anonima era una donna che dava il giusto valore ai soldi e
sapeva come spenderli, era modica e modesta. La madre che gestisce un
hotel attesta della socievolezza e delle abilità relazionali, della
sua disposizione a esserci ma non a coinvolgersi. Si ribadisce la
“traslazione” della madre in questa signora benefica Carla. Il
sogno snoda dei ricordi e associa qualche caratteristica e qualche
episodio riguardante la madre.
“Poi
l’ho sognata ieri giovedì 22 agosto. Era tornata a casa e io dissi
vicino ad un’amica: “andiamo a trovare Carla, (la mia vicina
morta), so che è tornata”. Entrammo a casa sua e la trovai in
piedi vicino ad una persona seduta al tavolo. La mia amica le disse:
“ma Carla ti vedo molto bene, sei stata una grande, hai sconfitto
una malattia che è difficile guarire”.
Anonima
offre in sogno un altro bozzetto e nello specifico la rievocazione di
una brutta malattia superata dalla madre nel corso della sua vita. La
figlia apprezza il coraggio e la capacità della madre di non
lasciarsi andare agli eventi traumatici e tragici che possono
accadere durante la vita. Trasla nell’amica quel complimento che
avrebbe voluto possibilmente dire lei stessa a sua madre. Anonima ha
una buona capacità di usare i meccanismi onirici dello “spostamento”
e della “traslazione” in maniera di non coinvolgersi in prima
persona per non agitarsi e svegliarsi.
“Lei
sorrise e a quel punto si è rivolta a noi dicendoci: “vi presento
un amico, si chiama Simone Jori”. Io rimasi meravigliata e guardai
la mia amica dicendole: “eppure questo cognome non mi è nuovo. Mia
madre di cognome fa Jori”.
Ecco
il disoccultamento di cui si diceva prima. Appare la figura materna,
“mia madre di cognome fa Jori”. La signora Carla è pari pari la
signora Jori, la madre di Anonima. La figlia ha rielaborato in sogno
la figura materna e in maniera reiterata per razionalizzare la morte
e per espiare i sensi di colpa che non ha potuto elaborare
e saputo lenire
quando la madre era in vita.
“Dopo
ci disse la Carla:”volete qualcosa da bere?” Camminò fino ad
arrivare alla vetrina per prendere dei bicchieri.”
Non
è ancora finita la psicodinamica perché la giusta conclusione è
una cameratesca bevuta. Anonima sogna in maniera discorsiva e
narrativa ed elabora pochi simboli in questo suo quotidiano sognare.
Sogna come mangia, nel senso positivo della genuinità della persona
che non è acculturata e che quindi descrive nel dormiveglia la trama
che progressivamente costruisce.
Infatti
questo sogno è stato fatto durante il risveglio e Anonima ha messo
insieme le pezze di quella relazione importante che ha vissuto con
sua madre.
“Premetto
che aveva altri vicini di casa e che conosceva da anni. Io da solo
pochi mesi, ma viene solo da me. Loro non l’hanno mai sognata e le
dirò di più. Io il mercoledì 21 andai a farle visita al cimitero e
nel sogno ero consapevole che lei era morta perché volevo chiederle
come mai stava lì e le volevo dire che io ero andata a trovarla al
cimitero e le avevo portato dei fiori.”
Anonima
ha aspirato a essere la figlia prediletta dalla mamma e
segue un ragionamento ben preciso e lineare che tende a dimostrare
che la
“razionalizzazione del lutto” è anche avvenuta, “consapevole
che lei era morta”, ma spesso associa altre figure materne con la
precisa intenzione di esprimere il suo desiderio di avere la madre
ancora viva. Il sogno si conclude con l’esaltazione del sentimento
della pietas”: “ero
andata a trovarla al cimitero e le avevo portato dei fiori.”
Di
fronte al mistero della morte e al “fantasma” psichico la
semplicità dei vissuti è veramente sorprendente nella sua bellezza.
Sarai un potente altolocato o un misero senzatetto, la democrazia
psichica esige il medesimo sentimento di rispetto e devozione.
Il sogno di Anonima è scritto in maniera chiara e scorrevole. La ripetitività di alcuni temi non toglie merito al dire e al narrare della protagonista. Anonima ha fornito elementi psico-culturali universali nello scorrere delle righe che la individuano con il nome ben preciso di figlia.
“Estraevamo con qualche difficoltà degli strani frutti rossi retati delle dimensioni di una mela dal nostro ombelico.
Mio padre ci aveva spiegato il modo di farlo. Per lo più bisognava insistere e soprattutto crederci.
A un certo punto sono seduto sul divano. Mio fratello nudo sale sul ventre di mia madre nuda a cavalcioni come a compiere una specie di copula che non era una propriamente una copula.
Trovo il corpo di mia madre assai giovane.
Giro gli occhi altrove. Poi mi sposto nell’altra stanza dove sulla mia scrivania vedo un cesto di quei frutti. Hanno al centro, nel punto in cui dovrebbe trovarsi il picciolo, una piccola chiazza bianca perlacea, simile ad una stomatite.
Mi avvicino goloso col pensiero di mangiarli, ma pensando all’improvviso al luogo da cui provengono provo un sottile disgusto.”
Gregorio
INTERPRETAZIONE DEL SOGNO
“Estraevamo con qualche difficoltà degli strani frutti rossi retati delle dimensioni di una mela dal nostro ombelico.”
Ecco il portentoso meccanismo onirico della “figurabilità” in azione!
Gregorio elabora una scena di parto, la trasla nell’ombelico al posto della vagina, rappresenta il feto con “strano frutto rosso retato delle dimensioni di una mela”. Il meccanismo funziona ed è creativo, poetico per la precisione, un’immagine che contiene un bel “fantasma” che risponde alla domanda universale: “come nascono i bambini?” Gregorio si fa assistere nel sogno, particolarmente scabroso nella sua semplicità, da altre persone, per mantenere un certo equilibrio nervoso e per non svegliarsi cadendo nell’incubo: la coincidenza del “significato latente” e del “significato manifesto”. Notare, ancora, come la figurabilità onirica rappresenta il feto: “frutto rosso retato” e la vagina nello “ombelico”, l’organo simbolico del potere della madre.
“Mio padre ci aveva spiegato il modo di farlo. Per lo più bisognava insistere e soprattutto crederci.”
Ecco il padre, colui che insegna l’educazione sessuale ai figli, “ci aveva spiegato” come nascono i bambini e anche come si fanno i bambini, “il modo di farlo”. Insomma, il padre di Gregorio ha operato nel migliore dei modi una forma di educazione sessuale, ottemperando beneficamente al suo ruolo. L’elaborazione poetica appartiene al figlio, Gregorio per l’appunto. “Per lo più bisognava insistere e soprattutto crederci” apre lo scenario al coito e alla reiterazione dello stesso, al fine di avere un buon esito per tanta prestazione sessuale. “Crederci” lo decodifico dal latino come “affidarsi” a se stessi e alla donna con cui si è in relazione. Insomma: se vuoi un figlio, procedi con sicurezza e fiducia, sicut pater docet e come figura di riferimento privilegiata specialmente per un figlio maschio. Tutto bene fino a questo punto.
Che il sogno ce la mandi buona!
“A un certo punto sono seduto sul divano. Mio fratello nudo sale sul ventre di mia madre nuda a cavalcioni come a compiere una specie di copula che non era una propriamente una copula.”
Dopo l’insegnamento paterno e l’autorizzazione a procedere arrivano i nostri a cavallo di un caval: la madre dal ventre nudo, il fratello nudo a cavalcioni.
Si copula o non si copula?
Gregorio guarda se stesso “seduto sul divano” perché si proietta nel fratello e realizza con la dovuta censura il desiderio libidico di avere dalla madre l’insegnamento sessuale opportuno e concreto. Il tutto dopo avere avuto la licenza didattica dal padre. E’ assolutamente normale e giusto che ogni figlio e ogni figlia si chieda il perché della censura concreta dei genitori in riguardo alla sessualità e all’erotismo, in riguardo alla vita del corpo neurovegetativo. Gregorio procede con cautela morale e si “sposta” sul fratello. Non poteva essere una “copula” vera e propria perché sarebbe stato un incesto e il “Super-Io”, individuale e culturale, non sarebbe stato davvero contento.
Vediamo dove va a parare il nostro eroe puritano.
“Trovo il corpo di mia madre assai giovane.”
Che bella immagine!
Che bel vissuto!
La mamma bella e il desiderio bello del corpo vivente sono recuperati dall’età in cui il figlio aveva l’età giusta per desiderare sfacciatamente con pudore. Da bambino Gregorio ha desiderato il corpo della mamma. Freud lo chiamò “complesso di Edipo” e costruì un mare di teorie sopra tragedie antiche e moderne. Immarcescibile questa “posizione psichica” dell’infanzia in universale, al di là delle razze e del censo, al di là delle ipocrisie e delle verità filosofiche, al di là del gusto e del sapore.
Guai al bimbo e alla bimba che non hanno desiderato fisicamente il padre e la madre!
Quasi in un nuovo vetusto e attuale comandamento si coniuga questo “desidera e riconosci il padre e la madre” per avere anche una fausta vitalità sessuale all’interno di una armonica “organizzazione psichica”.
“Giro gli occhi altrove. Poi mi sposto nell’altra stanza dove sulla mia scrivania vedo un cesto di quei frutti. Hanno al centro, nel punto in cui dovrebbe trovarsi il picciolo, una piccola chiazza bianca perlacea, simile ad una stomatite.”
“Rimozione” e “spostamento” sono due ben precisi “meccanismi di difesa” dall’angoscia di aver tanto peccato nel pensiero e non nell’opera: giro gli occhi altrove” o non ci rifletto e dimentico e “poi mi sposto”, dopo il fratello, “sulla mia scrivania”, mi riapproprio dell’alienato in maniera delicata e compatibile al mio vissuto psichico e ai mie “fantasmi” edipici. Ricordo che il “fantasma” è una rappresentazione primaria della realtà psichica, il nostro modo infante e bambino di pensare che non si abbandona mai, neanche dopo il benefico avvento della razionalità, un pensiero fantasioso e caldo oltremodo ricco di allucinazioni e di emozioni, una modalità onirica di inquadrare i propri vissuti, un essere poeti e “criatori”, come diceva Giambattista Vico. Insomma il “fantasma” è una rappresentazione della realtà psichica sempre e in ogni caso. “L’altra stanza” in cui Gregorio si sposta, quella dove è posizionata la “scrivania”, rappresenta l’attività razionale adulta, quella con cui ha proprio razionalizzato i suoi “fantasmi edipici”, le rappresentazioni fortemente emotive e simboliche delle sue varie relazioni con i genitori e nello specifico la madre. “Quei frutti” sono le rappresentazioni simboliche del feto con tanto di cordone ombelicale: “Hanno al centro, nel punto in cui dovrebbe trovarsi il picciolo, una piccola chiazza bianca perlacea, simile ad una stomatite.” Sono in un “cesto” che rappresenta simbolicamente il grembo materno, l’apparato genitale femminile, il sistema ovarico riproduttivo. Ricordo che il cordone ombelicale è il tramite che lega il figlio alla madre e che dopo il parto si taglia ma non si scinde il rapporto simbiotico psichico con l’augusta genitrice. Io sono ancora affetto da un meraviglioso “complesso di Edipo” e ho un altrettanto meraviglioso rapporto con mia madre, ho un cordone ombelicale ancora ben funzionante e attivo. Di mia madre, fuori di me, conservo la reliquia nel cimitero di Siracusa. Ma questo è tutto un altro discorso e un altro discorrere.
Via con il sogno di Gregorio!
“Mi avvicino goloso col pensiero di mangiarli, ma pensando all’improvviso al luogo da cui provengono provo un sottile disgusto.”
Ecco la gola e i suoi peccati, ecco la vitalità sessuale, ecco l’erotismo, ecco il corpo campo d’amore, ecco la “libido” e l’energia vitale di Dioniso e di Sigmund, di Darwin e di Nietzsche e di Bergson. “Goloso col pensiero” ossia il sistema neurovegetativo e il sistema nervoso centrale, la vitalità e la razionalità, l’emozione e la ragione, Dioniso e Aristotele, Giordano Bruno ed Hegel, la poesia e la filosofia, l’essere umano, il vivente per quello che restrittivamente di esso conosciamo e possiamo dire. Dell’altro e di altro non so fin adesso, ma sto cercando con la lanterna di Diogene, sto ricercando con il metodo di Aristotele e di Renè Descartes.
Convergo sul sogno di Gregorio e analizzo “ma pensando al luogo da cui provengono”, l’ombelico secondo “Gregorio padre” e l’apparato genitale secondo la scienza, “provo un sottile disgusto”. Ancora un “pensando”, anzi un “ripensando” leopardiano, la ragione fredda in atto che stacca dalle emozioni e le abbandona pensando di tenerle sotto controllo e senza sapere che ciò che butti dalla porta ti rientra dalla finestra, come la tanta spazzatura che inonda la mia città greca. Ancora ritorna l’emozione del “sottile disgusto”, un gusto emotivo contrastato e contrapposto, una guerra di gusti, quello emotivo e sensoriale e quello razionale e morale, l’eterna diatriba occidentale e psicoanalitica tra Es e Io alleato del Super-Io in questo caso. E’ questo lo psicodramma onirico di Gregorio, l’essere in conflitto con se stesso e nello specifico tra le sue istanze psichiche della vita istintiva ed emotiva, “Es”, della vita censoria e morale,”Super-Io”, della vita razionale e discernitiva, “Io”.
Mi fermo e consegno quanto emerso dal prodotto psico-poetico di Gregorio.
Croce sulle spalle. Corona di spine. Cadde una prima volta. Parlò con la madre. Cadde una seconda volta. Simone lo soccorre. Veronica lo asciuga. E una terza. Consola le pie donne. Si affida al Padre. In croce. Golgota, chiodi, sete, aceto, invocazione, abbandono. Elì, elì, lama sabactani! Il cielo si fa plumbeo dall’ora sesta all’ora nona, la terra trema. Il Padre non ti ha abbandonato. Ogni stazione è stata raggiunta e intensamente vissuta, ogni treno mi porta da te. Il sepolcro era aperto all’alba del terzo giorno. Un angelo vi sedeva accanto. La madre si avvicina e chiede dove hanno portato il figlio. Ha i profumi e le bende per onorare il corpo ferito. “Colui che tu cerchi, o donna, è risorto, ha sconfitto la Morte e ora siede alla destra del Padre.” E noi miseri mortali? Che sarà di noi? Ogni treno mi porta da te. Il dolore avvicina, l’amore è sempre tragedia. Dolore, amore, amore, dolore. Che ci hanno fatto? Da soli deposti nel sepolcro. Ultima stazione. Vittime di un inganno, siamo umani, siamo in balia dell’attesa di un ritorno, un venerdì santo granitico in mezzo a tutta questa precarietà. Improvvisavano e hanno ucciso diecimila anziani questi assassini di merda, questi impostori del circo, questi imbecilli di sempre. Giocavano, giocavano al rimbalzo da un canale all’altro dell’etere tossico. Non hanno vaccinato subito i vecchi, quelli che viaggiavano dai settanta ai settantacinque. Erano tutti amici miei. Li conoscevo tutti. Li sentivo addosso. Erano sessantottini. Sfogliavo i loro petali uno per uno, giorno dopo giorno. Eran belli e forti, ma sono morti. Una strage di Stato, un’altra strage di Stato. Sul crinale del Golgota e di Bergamo le ombre delle croci sono le insegne per precipitare nel baratro della vergogna, nel precipizio dell’ignominia, nel grande peccato mortale. Ogni treno mi porta da te. Intanto, intanto tutt’intorno sboccia la lussuria della primavera. Eppur io amo.
Ciao Fernando, sono Antonia e ho deciso di scriverti perché ho bisogno di fermarmi un attimo. In questi giorni corro troppo con il cervello, quasi il galoppo di uno stallone di razza. Penso all’euro, alla fesa di tacchino, al telefonino da mettere in carica, al culo a mandolino di mia sorella, al teatro con i burattini e le marionette, alla zucca gialla ricca di carotene, alla cieca fortuna che ci vede da dio. So pensare a tutte queste cose e mi ricordo anche di spegnere la moka prima che il caffè venga su come uno zunami e inondi il piano della cucina. Penso, mi ricordo anche di portare dentro la legna per la stufa e di svuotare la vaschetta della cenere. Penso, ma non sono. Mi ricordo, ma non sono. Dentro di me sono confusa come una mentecatta e di per me stessa mi sento sguazzata come una lattina di coca cola. Non so pensare o capire come sto, non riesco a mettere in ordine le mie idee. Ma cosa voglio? Non so pensare al lavoro, alla comunità alloggio, non so pensare a un programma, se un programma io posso pensare. A volte sento che il mio corpo funziona, funziona anche bene se vogliamo, ma c’è un nastro in testa che mi frastorna e mi rimescola, un nastro di pensieri come un film, una pellicola di celluloide che scorre girandomi e rigirandomi dentro. Nessuna immagine si può fermare perché il nastro deve scorrere e non si può fissare. E così so che di corsa sono finalmente andata in farmacia a prendere lo Xanax per mia madre e l’Efferalgan per me, che si sono tenuti cinquanta centesimi di resto e che mi hanno fottuta con questo maledetto euro che non capirò mai perché la morte della lira mi ha mandato in confusione. E così so che alle tre di notte mi sono bevuta una moka express, che ieri ho fumato meno di un pacchetto e mezzo di sigarette, che venticinque euro non corrispondono alle cinquanta mila lire che mio padre mi dava per il lavoro in serra, che la fesa di tacchino non equivale al petto di pollo soltanto perché costa meno. Ma io dove sono? Dove sono? Io sono dietro, dietro i pensieri, dietro il corpo, dietro la faccia, dietro questa facciata esterna di benessere, dietro le faccende quotidiane, dietro le attività del centro diurno, ma sono così dietro che mi sono persa di vista. Ho bisogno di sentire, di sentirmi, di fermare questo film, questo nastro che scorre indipendentemente da ciò che faccio, ma che è così confuso che non riesco a proiettarlo in uno schermo grande per poterlo focalizzare. Ci sono due Antonie, una fa e partecipa attivamente alla vita quotidiana e in qualche modo funziona, e una sta dietro la fronte perché non le è possibile stare altrove. Questa Antonia qualche volta scende da dietro la fronte e va tra la pancia e il cuore. E allora un senso di tristezza la invade e tutto sa di tristezza, ma questa Antonia non sa darle un nome, non sa capire. E tutto diventa così pesante, così inumano da uscire fuori di testa e fuori dalla testa. Le pareti della mia stanza sono tutte bianche e senza quadri, ma c’è una minuscola macchiolina nera che tempo fa ho fatto con i colori a olio e io qualche volta sono lì, sono in quella macchiolina e sono quella macchiolina. La cosa mi aiuta a sentire che non tutto funziona perché c’è sempre qualcosa di nero. Quella macchiolina è più nera di tutti i miei vestiti che sono sicuramente più grandi ma che ormai sono diventati parte di un esterno e che quindi io non sento più come miei perché tutto di me fa parte di un esterno forse ancora sconosciuto. La mia posizione non è ancora definita in questo esterno e parto sempre svantaggiata. Leader o merda? La leader non sono capace di farlo, ma mi piacerebbe, mi piacerebbe un casino. La merda sono capace di farla, ma non mi piace, non mi piace per niente. O forse si è comunque e sempre unici senza correre il rischio di perdersi nell’omogeneità di tutti gli altri. La partecipazione è comunque e sempre un rischio, ci si può perdere come sta succedendo a me, non ci si trova più, non ci si sente più perché importante è stare con gli altri, sentire gli altri, essere con gli altri nelle attività mie e degli altri. Ma io, io quella di sempre, quella che conosco o credo di conoscere da anni, quella che sente l’angoscia e che vive il nero come unico spazio, quella che è tutto e quella che è niente, quella che preferisce essere niente perché il niente è l’unica cosa possibile, un’assenza assoluta eppure una presenza, un essere in tanti da tutte le parti senza esserlo, un eppure niente, insomma io dove sono? Si, forse mi trovo in una posizione scomoda, forse la mia è una posizione scomoda, ma è meglio così sicuramente, perché adesso la mia posizione è più funzionale o comunque adesso ho più possibilità di arrivare da qualche parte. Partecipare alla vita è sempre più funzionale, perché la vita è fatta per essere vissuta e non per essere sfibrata, ma credo che per vivere la vita bisogna essere in equilibrio con se stessi e con gli altri e io non sono in equilibrio con me stesa e forse non lo sono nemmeno con gli altri. Non lo sono con me stessa perché comunque sento che c’è una parte di me che sta dietro a tutto e che forse si fa avanti solo qualche volta quando scrivo, quando mi sento triste o nervosa, quando mi vengono le mie cose, quando vado al supermercato per comprare la fesa di manzo. Forse è così che devono andare le cose, devo trovare a quella parte di me uno spazio adeguato e compatibile, devo trovarle la misura giusta, devo lasciarla vivere qualche volta e nella giusta misura perché non vada a invadere tutto. Questa invasione potrebbe essere distruttiva, se non per me, per le relazioni che ho con gli altri. Ma sai una cosa? Qualche volta mi manca questa parte di me, perché sono io comunque e questa sua presenza in sordina dietro i pensieri, dietro la pancia a botte, dietro il sedere a cofano, non mi fa stare bene perché mi fa sentire nell’esigenza di sentire, di sentire più me stessa, di sentire dove sto andando e non di andare e basta, perché io e lei siamo corpo e mente, materia e spirito e non può funzionare il corpo mentre la mente si sente triste, non può funzionare la materia mentre l’anima si sente in fallo. La mia mente è divisa tra due correnti di pensiero, una di tutti i giorni che nasce con l’euro e che sembrerebbe funzioni, una che sta dietro e osserva e che forse si sente anche trascurata. La mia anima è malata di peccato perché la mia materia ha tanto peccato in parole, omissioni e opere e forse si sente inadeguata agli entusiasmi dell’unità europea o della fesa di tacchino impanata alla milanese. La mia materia ha peccato e la mia anima si è ammalata. Questa è la verità, la mia verità, la mia elementare verità. Infatti io sono fatta dei quattro elementi. Il mio corpo è la terra, il mio spirito è il fuoco, la mia mente che funziona è l’acqua, la mente che contempla è l’aria. Tutto questo fa parte di un unico pianeta e l’unico pianeta è l’essere umano e io sono un essere umano. Si, siamo fatti così e nello spazio c’è spazio per tutti. Importante è vivere in armonia con tutte le nostre parti e dare a ognuna lo spazio giusto. Ma non è sempre facile. So mettere tutto a far parte di un gioco armonioso, ma a volte funziona a settori e uno esclude l’altro. Ci si sente facilmente un tutto unico di notte, quando tutto tace e il buio occulta le parti, ma la luce del giorno porta con sé la disgregazione ed ecco che allora si diventa un corpo che funziona, uno spirito che dorme, una mente che viaggia come l’euro in Europa, un pensiero che è agli albori e partecipa alle relazioni con tutti gli elementi. Così inevitabilmente c’è un’altra me stessa che si sente esclusa e che osserva tutto, non una sola me stessa ma tante me stesse che sentono e che osservano. Lo psichiatra dice che l’identità dell’essere umano non è assolutamente monolitica, ma è costituita da tante parti, da tanti modi, da tanti modelli. E allora va bene così, sono nel giusto e sono nel normale. Ti ringrazio, amore mio, perché mi dai la possibilità di riflettere e di stare bene nella mia confusione, perché mi dai la possibilità, scrivendoti, di mettere ordine nel mio piccolo caos anche da sola e senza farmaci, soltanto con la certezza che comunque tu ci sei. Ciao, sempre tua Antonia & Antonia, l’unica e la doppia.
Anankè, mio caro Democrito? Dimmi orsù, o brutto cagnaccio materialista di Abdera, di questa eterna naturale Necessità che tende i rigogliosi atomi verso la vita del nostro Tutto e li combina in colossali e variate fusioni come uno chef vanaglorioso e volgare che insulta dagli schermi televisivi la memoria delle nostre gloriose madri con l’inciuciare il superfluo e il banale in un piatto di oscure tendenze e di incerte disposizioni. Dimmi orsù, o rude composto di morbida carne, di quest’anima materiale coesa, di questa materia animata intrippata e sempre in odore di universale santità. Dimmi, orsù e suvvia, di questo umano travagliato peregrinare che ottunde e disgrega il composto degli atomi con il peso degli anni e la malasorte dei borghesi politicanti e lo destina a quella Morte da cambiamento d’insieme come in un nuovo arredamento d’ambiente nel migliore showroom di Nervesa della Battaglia, quello propinquo al cimitero monumentale della vittoriosa guerra 15-18, la Guerra Granda, dove Pasquale Squillaci da Siracusa riposa con le sue ossa rotte e il baricentro sfondato da una crucca granata. Dimmi orsù, caro il mio filosofo materialista del cazzo, dell’angoscia del tempo che verrà in questa breve stagione di vita mortale che tarda a veder l’oblio del risveglio, che s’inarca nel cielo stellato delle tre sorelle, Cloto, Lachesi e Atropo, colei che fila, colei che intreccia, colei che taglia, le ineffabili Moire che abitano quel Cielo dove Orione pose li suoi riguardi e i suoi intrighi erotici luminosi: tre stelle in fila e sempre disposte. Dimmi orsù, o generoso benefattore della tua angoscia, dimmi dell’attesa del Nulla eterno e della malattia mortale di Epicuro e di Soeren, di Martin e di Jean Paul, della follia da fantasma di morte di Friedrich quando abbraccia in piazza Savoia il cavallo frustato dal nerboruto infame cocchiere, dimmi di coloro che hanno fatto senza viltà il gran rifiuto, come Cesare e Cesarina, come Michele e Michelina, come Luigi e Gabriella, come tutti quelli che l’animo schiudono alla buona novella al pensiero che gli atomi sono ciambelle con il buco. Dimmi soltanto se si tratta di nobili unità senza parti, uniche ed eccezionali, diverse per forma, posizione e ordine, come spiegò l’insigne Stagirita prima di essere eletto nell’agorà di Roma nella lista dei fancazzisti e dei crumiri, nella lista degli sposi e dei firmati, nella lista dei chirurgi estetici e degli esteti castrati dalle madri. Dimmi, o gran figlio di una mignotta, se il tuo Tutto inizia da una spruzzata di sangue mestruale e di merda infantile nell’ampio lenzuolo bianco che la Carmela da Calascibbetta ha steso sul suo letto verginale per dimostrare domani al mondo la sua verginità e la sua capacità di concepire bambini felici. Ma tu insisti e persisti nel dire che è tutta una questione di atomi e io non reggo più le prediche dei preti in quest’Italia garibaldina e a misura di talent scout. Io, intanto e per gradire, ascolto Quinto Orazio Flacco, l’epicureo romano de Venosa, il basilisco de Roma che fa il tifo per la società sportiva Lazio, il football club della via Prenestina, là dove i bambini e le bambine giocano con palle di ruvida pezza, con palle di gomma bianca e puzzolente. All’uopo e alla bisogna dice il suddetto: “aequa lege Necessitas sortitur insignis et imos, omne capax movet urna nomen. La Necessità con giusta Legge trae a sorte i grandi uomini e gli umili; l’urna capace agita ogni nome.” La Necessità è l’Anankè e l’Anankè non è il Fato, non è la Parola che è stata detta, profferita, sigillata, l’inequivocabile Verbo incarnato e imposto semplicemente perché è la sola e l’unica Verità. La Necessità è nei corpi che anelano quel divenire che conduce alla Morte: punto e basta! Dimmi allora dell’Uomo, del suo Verbo. Dimmi anche del gatto Coraggiosetti e del suo Verbo miagolato in moduli ironici o in caselle contrassegnate degnamente da Arcaplanet. Quali Parole e quale Anankè in noi miserabili umani che uccidiamo un povero rapinatore, anche due alla bisogna e all’americana, senza colpo ferire e inneggiando alla sacralità della proprietà privata? Quali Parole e quale Anankè nel gatto Pietro sempre in cerca di potta negli anfratti del suo podere di tre tummini e negli scaffali di Amazon & compagnia cantante? Ma tu non parli e sei sordo alla mia gioia, tu non parli e sei muto al mio cantare di uomo che sogna e sognando trascolora in attesa del sogno ultimo e dell’ultimo sogno, il Bardo.
dedicata alla mai abbastanza compianta Mara Eli chiedendo aiuto a Orazio
La luce della consapevolezza è emersa dalle profondità e tu, mia bellissima donna, sei ancora immersa nel sonno dei sensi. Il maschile orgoglio è stanco di desiderarti e senza il calore della passione attende fuori e al freddo, si mostra e si pavoneggia in attesa che ti apri alla gioia dei sensi. Abbandona questa indolente inerzia e accorgiti di me e del mio desiderio che attendiamo in questa strada la rivelazione della tua bellezza. Io non vivo e non dormo nell’attesa che tu ti sveli e ti riveli. Tu sei fatta per il maschio e per il suo orgoglio, per la passione e non per l’inerzia. Il mio corpo sa trattenere il desiderio in attesa che ti disponi a ricevere quel mio fuoco nascosto che aspetta e che soltanto tu puoi spegnere.
Salvatore Vallone
pose dolente in Pieve di Soligo e nell’aprile del 2018