LA STANZA ROSA

SALVATORE VALLONE & ANTONIA SOARES

LA STANZA ROSA

PSICODRAMMA DELLA SCHIZOFRENIA

EDIZIONI PSICOSOMA

SALA FUMATORI

“Sala fumatori”.

Finalmente qualcosa di non vietato: questo è il posto ideale per chi tenta di pulirsi i polmoni con mille accorgimenti.

Vietato ! Vietato ! Vietato !

Una vita impossibile.

Ci sarà in questo buco dell’universo un paese della cuccagna dove le case sono ancora di marzapane e le strade non portano inesorabilmente in cielo ?

Ci sarà un luogo dove ti asciughi il culo con le contravvenzioni dei vigili urbani ?

Ci sarà un luogo senza padri e senza madri, senza giudici e senza professori, senza preti e senza politici, senza psichiatri e senza giornalisti ?

Tutto intorno a me dice che siamo condannati a bere acqua minerale e a curare un cancro in uno squallido ospedale ripieno di camici bianchi svuotati di umanità che la domenica vanno in barca a vela con i tuoi quattrini.

“Sala fumatori”.

Venite, venite gente costretta da forze psichiche misteriose a uccidersi con il tabacco dello Stato; almeno questo ci è concesso in questo luogo, almeno qui il pavimento è freddo, almeno qui le pareti sono bianche e nessuno ti rompe i coglioni.

Voglio un’autorità autorevole che mi insegni tutto ciò che non si deve fare: un padre, un santo, un poeta, un navigatore.

“Sala fumatori”.

Mi guardo attorno, mi guardo e dagli occhi in giù il mio corpo è uno strato sottile di atomi opachi del male, forse una scatola, una scatola cinese ripiena soltanto di altre inutili scatole.

La mia fronte ha un cerchio che non è un’aureola, ma una massa di ferro che schiaccia, una morsa d’acciaio che stringe; dentro la mia fronte c’è un cervello grigio con trecentomila pensieri affastellati uno sopra l’altro come i mattoni immaginari della casa di una strega.

La mia fronte ha un cerchio che non è un’aureola, ma una massa di ferro che schiaccia, una morsa d’acciaio che stringe; ci vuol poco a riconoscere che non sono una santa, ma una puttana gonfia di sperma e di disprezzo, una donna gravida di trecentomila sensi di colpa.

Trecentomila è il numero giusto; trecentomila persone, trecentomila emozioni si spingono, si urtano, si schiacciano dentro la mia testa: troppe !

Sono troppe e la mia testa di freddo alluminio non le può contenere.

Ogni tanto dal cervello cola giù qualcosa, un personaggio, un ruolo, uno schema, un movimento, un cane, un gatto, una merda, un quadro, un pregiudizio, una preghiera e tutto finisce spiaccicato sul pavimento di marmo lindo come il bancone di un obitorio.

E quello che cola dal tuo cervello è come la bava della tua bocca che scivola indiscreta dopo aver ingoiato cinque “anafranil” nel vano tentativo di star meglio.

Tira lo sciacquone e tutto va giù nella fognatura della memoria con un poco di zucchero per i tuoi trigliceridi.

Qualcosa hai inevitabilmente perso, qualcosa che ti mancherà nella vita al momento opportuno e quando meno te l’aspetti.

Perché ?

Devi sentirti albero per essere un albero, devi sentirti arido per essere un deserto, devi sentirti una merda per essere risucchiata dal vortice dell’acqua che gorgoglia nella bianca porcellana del water.

E se hai perso l’albero, il deserto e la merda non puoi neanche disegnarti a matita, a pastello, ad acquerello, a olio, a tempera; non puoi più neanche disegnarti perché non hai una qualsiasi identità.

Anche questo ti è vietato.

Chi sei tu ?

Il mio corpo era il deserto, la mia testa era l’albero, la mia mente era la merda.

Ancora e per fortuna posso essere uno stagno.

In questo stagno si sentono voci, rumori, echi, gorgheggi, ritornelli, picconate, esplosioni; tutto disturba e interferisce come i lampi nel cielo o i pescecani nel mare.

Le mie orecchie sentono molto bene, ma non mi resta che comprare i tappi perché ho bisogno di disintossicarmi.

Pensavo di essere cambiata non mischiando la solita lattina di “coca-cola”con il prodigioso cannone di hascisc: era ora di smettere, ma come, come, come si fa ?

Le lezioni arrivano da tutte le parti, precise, rigide, perbeniste, scassacazzo, ma come, come si fa ?

Tu che sai, non parlare, ti prego; fammi vedere.

Voi che sapete, non parlate, vi prego; fatemi vedere.

Le orecchie sono buone, ma gli occhi sono assatanati, pronti per un esorcista di primo pelo; se mi sai toccare viene fuori un diavolo con il cazzo duro e dritto come un fuso.

Io sono stata perforata da tanti diavoli e me ne vanto, ma tu stai sempre attento al culo.

Sono in vena di bestemmie; dove abito, la bestemmia è buona come la mortadella di Bologna in mezzo a due fette di pane pugliese.

Da piccola sono stata infarcita di bestemmie, sempre le stesse e per niente originali.

La creatività abitava nei manicomi e anche questi sono stati chiusi.

Cosa ci resta adesso ?

La chiesa e il nuovo centro di igiene mentale.

Il manicomio chiude, ma la chiesa resta sempre aperta agli uomini di buona volontà; per noi derelitti sono aperte le porte di un “super-discount” che offre un litro di “whisky” a seimila lire.

Gli extracomunitari disadattati e i tossico in astinenza fanno la fila per un viaggio discreto in Africa o nei paradisi artificiali della psiche in cerca di un momento di benessere dopo tanta tempesta.

La nostalgia è sempre puttana.

Questa notte mi sono svegliata, mi sono alzata dal letto, mi sono seduta sul cesso, ho appoggiato i gomiti sulle ginocchia ed era buio, era notte; mi sono ritrovata rincoglionita chissà dove e chissà quando, ma sono sicura che non ero io, perché io ero quel poeta di Lisbona, sì, ero quello lì.

E poi, se ci ripenso, non ero neanche lui, ero un altro personaggio, un impiegato del comune che abita in una stanza d’albergo e guarda fuori dalla finestra mentre caga.

Le imposte di quella finestra si aprono nei due sensi, si aprono per di fuori e per di dentro; tutta un’altra cosa.

Quello che è giusto è giusto: ogni cosa al suo posto e il suo posto a ogni cosa.

Così va meglio e anche la pena di morte si può tollerare tra gli uomini civili.

La mia bocca è priva di voce, emette solo suoni; i suoni sono sempre gli stessi, sono poveri, sono vuoti, sono niente: vuoti a perdere come le lattine della birra che ti scoli quando sei in vena di sballo con quattro pasticche di estasi.

Il mio cervello lascia passare sempre i soliti messaggi, i soliti pensieri; non ho più niente da pensare e niente da dire.

Attenzione !

Qualcuno e qualcosa sono entrati da qualche parte.

Silenzio.

Il cuore batte.

Il respiro si fa più pesante.

Silenzio.

Cos’è ?

Un essere umano, una statua, una sedia !

Silenzio.

Qualcuno sta fumando, respira, aspira, respira, aspira, ancora aspira.

Esce e sbatte la porta.

E’ la spia di X-File, quello che fuma Marlboro e spegne la cicca sul culo dei bambini cattivi.

Di nuovo il silenzio e poi un sospiro lungo come quello delle puttane che smettono di lavorare e tornano a casa dai loro figli.

Mi sento svuotare mentre cerco di stampare in questo foglio bianco tutta la confusione che ho in testa, ma l’impresa è impossibile; è come cercare di descrivere il giorno, è come cercare di descrivere la notte: si tralascerebbe sicuramente qualcosa.

E’ semplicemente impossibile.

Io sono mio padre, io sono mia madre, io sono Pablo Neruda, io sono mia zia, io sono i colori di tutti gli altri, io sono la Marzia, io sono mio fratello, io sono mia sorella, io sono la Nicoletta, io sono tutto e niente, io sono una merda puzzolente e gli altri si sono ben ricordati di tirare l’acqua; qualcuno ha tirato l’acqua e io sono scivolata giù, giù, giù nelle fogne che scaricano nel Piave, un fiume sacro alla patria e carico di merda.

Io sono Pirandello: uno, nessuno, centomila.

Non so più come vestirmi, non so più cosa mangiare, non so più che parte recitare.

I miei libri li ho letti tutti; dovrei leggerne altri, ma non ne ho voglia.

Non ho più voglia di niente.

Sento il mio respiro; è pesante e non è mai profondo.

Devo fare lunghi sospiri per andare fino in fondo e far suonare la fisarmonica dei miei polmoni con i suoi fischi e il suo catarro.

La mia mano trema dallo sforzo, ma è viva.

E’ ancora viva.

Silenzio.

O penna nera che come lama d’acciaio scalfisci la carta, tu sola puoi liberarmi da quest’ansia, l’ansia di esistere, l’ansia di dover chiudere gli occhi per poi riaprirli al mattino in un mare di pipì.

Sento dei passi sulle scale; le porte sbattono, voci, tante voci: la paura di esserci, il desiderio di non esserci.

Ascensore.

Silenzio.

E poi ancora silenzio.

Il silenzio degli innocenti.

L’unica cosa che mi fa sentire di esistere è questa puzza che mi porto addosso; soltanto allora mi sento viva.

La mia testa si sta lentamente svuotando; ci vuole una stanza bianca sopra un pavimento freddo, ma non ci deve essere nessuno.

“Sala fumatori”, addio.

Chissà se ne troverò un’altra carina e accogliente come te.

SUPERMERCATO

Ho sognato di trovarmi in un supermercato, avevo il carrello della spesa vuoto e lo riempivo pescando a caso dai carrelli degli altri.

Ho preso la candeggina della nonna, i tortellini del buongustaio, il caffè del professore, il dopobarba dell’uomo virile, i cavoletti di Bruxelles, la crema della donna matura, i biscotti del mulino bianco, il prosciutto di Parma; tutto dai carrelli degli altri.

Nessuna iniziativa !

Anche in questo caso niente di mio e tutto degli altri.

Poi come una ladra sono arrivata alla cassa e ho visto un paio di pantaloni di plastica trasparente; li volevo subito e la commessa mi ha detto che non erano pantaloni, ma bottiglie di coca-cola vuote e mi ha insultato gridando: “voi, gente di plastica, avete perduto l’anima e i vostri figli !”

Parole dure ed enigmatiche.

Io appartengo alla gente di plastica ?

Io sono di plastica ?

Odio quella donna, quella brutta vacca schifosa che mi ha fatto saltare i nervi.

Come si permette di darmi una lezione in mezzo alla gente e di chiamarmi per nome e cognome ?

Prima si comporta come se io non esistessi, all’improvviso si sveglia e mi dice: “voi, gente di plastica, avete perduto l’anima e i vostri figli !”

Cosa sa della mia solitudine una cassiera che passa otto ore della sua giornata a strofinare i codici a barre dei detersivi e delle aranciate sull’occhio di vetro di un

computer ?

Anche mia sorella mi dice sempre “fai questo e fai quello” e taglia giudizi sul mio conto come le etichette sui pomodori pelati.

Io non sono una scatola di maionese e neanche un pacco di assorbenti; io sono una donna sola, lasciata sola a invecchiare con i suoi vent’anni.

Io non voglio far niente, voglio solo sparire, dissolvermi nell’aria, sciogliermi nel mare.

Non sono di plastica, ma di carne e ossa purtroppo e soffro tanto proprio per questo.

Magari fossi di plastica; almeno non sentirei quel dolore sordo che mi prende la gola e mi attanaglia la bocca dello stomaco.

E’ troppo comodo insultare i deboli solo perché non sono fatti di plastica; io ho ancora quattro figli, due al cimitero e due in istituto, e di anime ne possiedo trecentomila.

Cosa va blatterando quella stronza !

Pensi a far la fotografia ai codici a barra dei preservativi come una deficiente !

Ho bisogno d’aiuto; mi è saltato il sistema nervoso e ho bisogno di un cesso.

Devo scaricare la tensione, devo evacuare.

Ehi fratello, almeno tu, avvicinati !

Penso di non puzzare.

Sai, tutto è così lontano e freddo e io avevo solo bisogno di un bagnoschiuma per una doccia rapida, una doccia che spazza via dal mio corpo tutti i sensi di colpa e li trascina lungo il tubo dello scarico fino a dissolverli nelle fogne.

C’è silenzio in questo supermercato; che silenzio !

Anche i calcolatori tacciono in segno di rispetto: un minuto di raccoglimento in memoria di una povera tossica morta per fatalità in droga party.

Fermiamoci un attimo ogni cinque minuti e solo per pensare alla morte.

Dove andiamo con i nostri carrelli pieni di inutilità e di vizi ?

Un giorno o l’altro scoppieremo come Ciccio bomba in preda al raptus dell’hamburger.

Mi sento troppo vuota e troppo piena; ho una cosa solida nel cervello, un macigno dentro la testa.

A questo punto inevitabilmente arrivano le mosche; quando le mosche si avvicinano troppo al tuo corpo vuol dire che stai per morire, morire dentro, morire per davvero.

Ma che differenza c’è tra il vivere e il morire ?

Essere quello che gli altri vogliono, non è forse la morte peggiore ?

E’ così che bisogna vivere ?

Ricordo che una persona importante, uno che la sapeva lunga, beh, ecco, mi disse che si può fingere per tutta la vita e arrivare tranquillamente alla pensione.

Lo Stato paga sempre, non fallisce mai e lo puoi fottere in qualsiasi modo quando vuoi.

Sì, penso che in maniera diversa tutti fingono, questi tutti che mi fanno schifo e pena allo stesso tempo perché, diversamente da me, sono capaci di fingere.

Sono convinta che soltanto il malato di mente non finge perché non sa fingere; io non sono malata di mente, ma non so fingere perché non so neanche chi sono.

Dov’è il mio posto ?

In un supermercato o in una corsia d’ospedale ?

Il mio posto non esiste e io non sono nessuno: non sono una suora, non sono una moglie, non sono una madre, non sono una drogata, non sono una puttana, non sono una ladra, non sono una carcerata, non sono un’omosessuale.

Il mio posto non esiste perché io non sono nessuno.

La mia casa non esiste neanche dentro un supermercato dalle mille luci e dalle mille etichette.

E allora, se questa è la verità, dove andrò a finire ?

CAMERA

Camera mia, letto grande, letto rosa, impregnato di pensieri e di borotalco; camera mia.

Silenzio.

Non c’è nessuno in camera mia.

Un rumore di piatti e di bicchieri echeggia dal lavello inox di chissà quale cucina.

Questa sera penso che non mangerò; c’è troppa confusione a tavola e io non ho niente da dire.

Il vino non mi entusiasma più e non mi tira dalla parte giusta.

Non ho niente da dire.

Non ho niente da dare.

Non ho niente da fare.

Non conosco nessuno.

Io sono uno dei tanti cuscini che si trovano indifferenti sopra il divano.

Non ho niente da dire.

Non ho niente da dare.

Non ho niente da fare.

Non conosco nessuno.

Camera mia, letto grande, letto rosa, impregnato di pensieri e di borotalco; camera mia.

Che silenzio !

E soprattutto non c’è nessuno; almeno così mi sembra.

Sto scoppiando, sto letteralmente scoppiando.

Devo scrivere.

Stavo scrivendo le mie cose e mio figlio voleva leggere, ma non doveva leggere; così gli ho risposto che le cose che scrivevo erano mie.

E’ andato a riferire a mia sorella, la madre putativa.

Lei è arrivata visibilmente alterata e mi ha detto: ”esci da questa stanza; il computer non lo usi più !”

Capisci ?

Mi ha detto “esci da questa stanza, stanza, stanza, stanza.”

Le sue parole violente sono rimbalzate nelle mie orecchie: “più, più, più, più.”

Vorrei andar via e passare la notte all’aperto, vorrei sparire; sento solo odio, rabbia e disprezzo.

Vorrei fuggire, fuggire lontano, fuggire da tutti e là dove anche quella testa di cazzo dello psichiatra non mi può trovare, lontano dalla sua mielata voce che ripete pateticamente: ”ma da chi vuoi fuggire ? Da te stessa ? Da tuo figlio ?”

Brutto figlia di puttana, che ne sai tu di una donna sola e di una madre addolorata ?

Che vada a farsi fottere lui e la sua omicida psichiatria.

E parla, parla, parla, continua a parlare e più parla e più mi sento ribollire dentro; mi alzerei in piedi e gli spaccherei la testa con una spranga di ferro, gli aprirei il cranio e vedrei finalmente le sue cervella spiaccicate sulle pareti della stanza, stanza, stanza, stanza.

Vedrei finalmente di che pasta è fatto il cervello cosiddetto normale di uno psichiatra.

Guardo la scatola azzurra che si trova sopra la sua scrivania, penso al bollino azzurro che c’è sul rubinetto dell’acqua fredda e allora mi raffreddo.

Su quella scatola c’è scritto “xanax”; fisso la scritta e prendo venti gocce di “xanax” mentre lui parla, parla, parla e io ormai non ascolto più.

La sua stanza è rossa e io voglio una stanza con le pareti bianche e il pavimento freddo, ma soprattutto una stanza deserta e vuota.

CASA

Per entrare in casa bisogna fare ancora oggi sedici scalini.

Ricordo nitidamente che ero in cima alla scala con mia madre.

Io la odiavo, volevo eliminarla e così la spinsi giù per le scale.

Lei rotolava, rotolava e gridava.

Io la fissavo fino a quando non è arrivata a terra e allora ha chiamato mio padre gridando: “mi uccide, aiuto, mi uccide !”

Mio padre è arrivato, mi ha picchiato e io sono scappata di casa.

C’è solo un particolare; secondo mia madre questo fatto non è mai avvenuto.

Allora sono mie fantasie aggressive ?

Meglio così !

Se uccido mia madre, potrei pentirmi e il mio posto potrebbe essere occupato irrimediabilmente da un altro e non solo in senso logistico.

Io ho bisogno ancora di lei, ma lei non ha avuto mai bisogno di me; non mi apprezza e non mi ha mai apprezzato.

Eppure mi lavo ogni mattina come lei mi ha insegnato, mi lavo ogni giorno solo per compiacerla, perché io sento sempre una puzza tremenda salire dal mio corpo.

La cosa mi dà fastidio, ma anche no, perché così so che ci sono e sono viva.

Mi sento, mi annuso, mi ascolto e non voglio che gli altri mi sentano, mi annusino, mi ascoltino.

Che silenzio qui; non si sente nessuno e non si sente un rumore.

Si sta bene qui: sssshhhhh, silenzio, silenzio, silenzio.

Ricordo che camminavo per una stradina e mi ascoltavo; dovevo andare al centro di salute mentale e non riuscivo a capire quale fosse il mio stato d’animo.

Forse ero arrabbiata, forse ero triste, forse ero depressa, forse ero normale; non lo so. Non sapevo chi ero, non sapevo cosa sentivo, non sapevo chi e come dovevo essere.

Sono arrivata in preda all’ansia; il cuore mi batteva forte.

Tutto e tutti mi irritavano.

Vecchie poltrone che stanno lì da sempre: puzza di marcio, a volte di cane, a volte di muffa.

Io non voglio essere una vecchia poltrona su cui hanno poggiato il culo puzzolente centomila pazzi.

CAMERA

Camera mia: silenzio.

Il silenzio è il premio dei giusti in un mondo dove i disonesti gridano a squarciagola per uccidere le mamme e atterrire i bambini.

Ho mal di testa e per fortuna non sono in confusione mentale.

Penso che la vita deve andare avanti sempre e comunque, mentre le persone se ne vanno via prima o poi.

Ciao, amico silenzio.

Il silenzio è il sonno degli innocenti.

Ognuno deve seguire la sua strada anche se ci sono ostacoli e si deve rinunciare immancabilmente a qualcosa, la stessa cosa.

Che strano !

Sono sempre le persone alle quali voglio bene che se ne vanno e quando partono è come la caduta di un pino gigante in un verde giardino: lascia vuoto un pezzo di cielo.

Sento che ci sono delle forze che mi trattengono e non riesco a capire se sono positive o negative, interne o esterne.

Forse vivere significa fingere, un fingere sempre e dovunque.

Forse vivere significa tingere, un tingere sempre e dovunque.

Io non sono una brava attrice.

Io non sono una brava pittrice.

Ci sono tante stanze nella mia vita e ognuna ha un colore diverso.

Ogni stanza rappresenta uno stato d’animo, un modo di essere, un personaggio.

La mia camera è rosa.

C’è silenzio; non c’è nessuno, eppure è affollata.

Io parlo, rido, mi arrabbio, faccio a pugni con me stessa e non piango mai.

La camera del dottore è rossa.

Parlo e non parlo, ascolto e non ascolto, ma come al solito mi prescrive dieci pastiglie tutte diverse e tutte compensate; questa per quello, quella per questo e così via.

Il mio fegato è grosso come la chiappa di un culo, ma la mia mente è sempre ballerina.

La camera del Centro è azzurra.

A volte sono un operatore, partecipo alla discussione per far vedere agli altri che bisogna partecipare e in queste occasioni mi sento uno specchio.

Poi lo specchio si rompe e sono solo un mucchio di pezzi che non si collegano più. Sto in silenzio con un senso di tormento e irrequietezza oppure parlo con la testa bloccata; il cervello non filtra i messaggi alla bocca.

Passano sempre le stesse cose nella mia mente; un pezzo di me le vuole dire e un pezzo di me non le vuole sentire.

A volte mi dico di fare la depressa e allora divento depressa; a volte mi dico di essere contenta e così divento contenta.

Il poeta è uno che finge, finge così bene da immaginare che è dolore il dolore che sente, che è piacere il piacere che sente.

Meglio di così ?

E’ uno sballo.

Ma a volte non so come devo essere; osservo gli altri e cammino per la stanza, vado fuori a sospirare, mangio, bevo, mi lamento, rido.

Poi sto vicino agli operatori senza parlare e senza ascoltare, ma solo a osservare.

Lo sballo è già finito.

La camera del gruppo è viola.

Mi sento soffocare, ho la tachicardia, sono paralizzata; le mie mani e le mie braccia si informicolano, non posso muovermi e mi sento braccata.

Ogni tanto parlo, ma il mio sguardo esce dalla finestra ed è un monologo; non voglio e non cerco risposte.

Non vedo nessuno, eppure li vedo.

A volte li sento, ma solo qualcuno.

Quando parlo non c’è nessuno, solo tante sedie vuote; a volte c’è qualcuno.

La cucina di casa mia è grigia.

Non parlo, non vedo, non sento come le tre scimmiette.

Io sono tre scimmiette in una, io sono il padre, il figlio e lo spirito santo in una sola persona.

La cucina di mia zia è marrone e lì parlo, mangio, lavo i piatti, cucino, insomma faccio le cose.

Io ho una grande casa.

La mia casa ha tante stanze e ognuna ha un colore diverso.

Nella mia casa c’è silenzio; non ci abita nessuno, eppure è affollata.

Continuo ad avere mal di testa.

A volte mi sveglio in piena notte con il mal di testa; è insopportabile, ma mi toglie la confusione.

Ma qual’è la notte da vivere e dove devo sentirla ?

SPIAGGIA

Quand’ero bambina costruivo castelli di sabbia in riva al mare e mi piaceva giocarci.

Erano alti, molto alti; io salivo e nessuno poteva raggiungermi fin lassù.

C’erano le torri, le grandi torri e da lì si poteva avvistare il nemico ed evitare di essere aggrediti.

Quand’ero bambina mi coprivo di sabbia e diventavo grande come i castelli: nessuno poteva raggiungermi perché ero alta, molto alta.

Ma un giorno arrivò una grande onda e distrusse i castelli di sabbia; il mio sogno si sciolse con loro nel mare.

I miei genitori mi hanno ancora portato al mare, ma io non mi sono più divertita.

Mi sedevo sulla spiaggia e pensavo ai miei castelli di sabbia diluiti, granello su granello, nella grande distesa azzurra di acqua salata.

Quanta fatica recuperare e rimettere insieme quegli atomi gialli della mia infanzia !

Convinta dell’impossibilità piangevo e per ogni lacrima che cadeva giù un granello di sabbia saliva e si insinuava nel mio cervello dolcemente senza farmi male.

In questo modo si ricomponevano i miei castelli fino a diventare inutili.

CAMERA

Che puzza !

Che puzza sento in certi momenti; mi dà fastidio, ma anche no.

E’ un odore forte che proviene dal mio corpo, mi arriva alle narici e come una bestia mi annuso per riconoscermi.

Chi sono io ?

Sono una bestia che puzza e si annusa senza nausearsi.

Camera mia, letto grande, letto rosa: silenzio.

Forse ho bisogno della fede.

Tanti credono in un dio e riescono a superare molte difficoltà.

Anch’io una volta credevo in Dio, ma credevo anche in Satana.

Parlavo con Dio e parlavo con Satana.

Satana ascolta di più rispetto a Dio; Satana dà segni concreti della sua presenza.

Io ero diventata portatrice di male.

Tutte le persone, che mi avvicinavano, stavano male come le gerbere nel giardino di mio padre quando sono succhiate dai parassiti.

Una volta un prete, uno che leggeva nel pensiero ed era confidente di Satana, mi disse che, se non mi facevo suora, avrei pianto per tutta la vita.

E così mi sono anche rinchiusa in un convento.

Ricordo che non riuscivo a guardare il prete mentre celebrava la messa e le suore dicevano che ero brava, che ero umile e che mortificavo gli occhi.

Anche adesso non riesco a guardare lo psicologo o lo psichiatra negli occhi, perchè ho paura di cascarci dentro e di non uscirne più.

Ho paura di essere risucchiata dalle loro pupille opache e insaziabili.

Paranoia o solitudine ?

Solitudine !

Ma cos’è la solitudine ?

Io non sono mai sola, c’è sempre una folla insieme a me.

Quand’ero in carcere, in cella d’isolamento, chiudevo gli occhi e vedevo mia nonna piena di luce che mi sorrideva e diceva che sarebbe andato tutto bene, che sarei uscita dal carcere: così è stato.

Solitudine !

Ma cos’è la solitudine ?

Camminavo lungo una strada coperta di neve.

C’era silenzio e non un rumore, solo alberi ai lati e bianco nel mezzo.

Camminavo lentamente, molto lentamente; poi mi giravo all’indietro e c’erano le mie orme sul tappeto bianco, ma erano le orme di un’altra persona.

Solitudine !

Ma cos’è la solitudine ?

Ho sognato di essere un uomo che faceva l’amore con me stessa donna e questa me stessa donna mi guardava negli occhi con disprezzo.

Solitudine !

Ma cos’è la solitudine ?

Una stanza con le pareti bianche e il pavimento freddo.

Silenzio.

Camera mia, letto grande, letto rosa.

Silenzio.

Sala fumatori.

Silenzio.

Ciao amico silenzio; forse ci sentiamo domani.

CASA

C’è il sole fuori ed è un giorno di festa, ma dentro di me fa freddo, tanto freddo.

Le stagioni sono state stravolte dagli scarichi delle vostre automobiline e dai gas dei vostri deodoranti.

Io mi tiro fuori dal massacro della natura perché vado a piedi e puzzo di sudore come una bestia.

La primavera è ormai solo un’opinione e il Veneto d’estate si trasferisce volentieri in Tunisia.

Il sole è una bomba atomica in preda ai capricci della sua stessa energia e non riscalda, surriscalda; lo scudo termico si può trovare ormai nei cartoni animati giapponesi.

Freddo, sento freddo; aridità, mi sento un deserto.

La mia casa è morta e le persone che ci abitano sono morte.

Non c’è luce, non c’è calore; tutto è fermo e sospeso come in un sogno.

Ho mal di testa e non ne posso più.

Devo chiudere gli occhi e staccare la mia mente dall’essere per non essere più qui.

E’ un altro giorno vuoto, un altro giorno fatto di niente.

Devo cambiare vestiti, aprire l’armadio e cambiare vestiti.

Questi colori sono troppo pericolosi; mi avevano detto che il “synflex” era forte, ma io non li ho ascoltati.

Mi sono intossicata nella speranza che esista un farmaco che non mi faccia pensare e ricordare per un solo istante che esisto.

I pantaloni neri con la maglietta rossa sono come il “synflex”, ma lui è arancione.

C’è il sole fuori, ma dentro di me fa freddo, tanto freddo.

Forse devo morire anch’io come sei morta tu e allora non ci saranno più ansie e paure, né puttane e schizofreniche, ma resterà solo l’idea che tutto sia stato e sia ancora un sogno.

Chi custodirà i sogni ?

La fantasia fertile dei bambini o le parcelle salate degli psichiatri ?

In quali libri metteremo ad appassire le violette del pensiero ?

Di chi ci innamoreremo quando il desiderio si dispone lungo il corpo alla ricerca di una carezza ?

Sono domande maledettamente serie, troppo ardue per una malata di mente e troppo

radicate nella morbosa sensibilità di una donna sola.

Tu hai saputo solo abbandonarmi con quattro figli da allevare.

Amore mio, spererei sempre e solo mio, sto male come al solito e non immagini quanto.

Sto male per me stessa, per te e per i nostri figli, dal momento che ancora una volta sento di non essere una moglie dolce e una madre affettuosa.

Vi guardo mentre dormite e mi sento stringere il cuore perché capisco chiaramente che non ho saputo trovare il tempo per raccontarvi la favola di una donna guarita.

Vorrei stringervi tutti mentre dormite, vorrei sottovoce cantarvi una ninna nanna magari per svegliarvi e poi leggere nei vostri occhi la gioia della sorpresa di sentirvi coccolati.

Sto male per voi, amori miei; io navigo in un mare di disperazione e mi sembra di non aver ancora toccato il fondo.

Forse questa è solo una sensazione e vorrei credere che sia arrivato il momento, quel mio domani quando potrò cominciare a risalire piano piano, sì, piano piano e magari fluttuando lentamente per prolungare la gioia certa che al mio riemergere vedrei un orizzonte rassicurante e sorgere finalmente il sole.

Purtroppo non è così e mi sento in colpa perché so di farvi soffrire e voi non lo meritate, non lo meritate no !

A te, mio uomo e padre dei miei figli, dico che non so darmi pace perché mi rendo conto di essere stata e di essere egoista rimuginando i miei problemi.

Per tutti quelli che ti conoscono sei una persona valida, capace e con un cuore grande.

Io ti rimprovero di lasciarmi sola e non faccio niente per avvicinarmi a te; lo meriteresti senza dubbio e soprattutto servirebbe anche ad alleviare le tue preoccupazioni e manifesterei la gioia e l’orgoglio di averti come marito.

Mi rendo conto di essere incapace anche in questo.

Come puoi essere così buono, comprensivo ?

Come posso avere tanto ?

Meriti senz’altro molto di più, amore mio.

Penso che arriverai al limite della sopportazione e ne avresti valide ragioni.

Continuo con questo mio stillicidio che ti fa star male sicuramente e so anche che questa sofferenza che ti provoco ai miei occhi la sai celare bene, perché umanamente non vuoi addossarmi nessuna colpa.

E allora è giusto questo ?

Certamente no, ti meriti molto, molto di più.

E allora fino a quando riuscirai ad accettarmi così ?

Non mi sento moglie e madre come sarebbe giusto che io fossi, non mi sento un’amante che ti sappia dare, non mi ritengo un’amica che ti sappia ascoltare e allora chi sono io ?

Un qualcosa che esiste con un senso di inadeguatezza, con l’incapacità di amare e con la paura di vivere.

Scusami e scusami ancora per quello che non ti so dare.

Vorrei inginocchiarmi ai tuoi piedi, aggrapparmi per poter affondare il viso tra le tue ginocchia in un pianto liberatorio.

Ti guarderei poi con occhi ancora umidi e annebbiati, ma con la speranza che il mio sguardo possa diventare cristallino e nel silenzio di una complice intesa dirti che voglio imparare ancora ad amare.

MARE

Era nato un bambino, un cucciolo d’uomo.

Era ancora sporco di sangue.

C’era un cane, un gran bel cane; lo stava lavando, lo stava pulendo, lo stava leccando.

Poi il bambino si alzò in piedi, cominciò a camminare, si diresse verso la montagna, la scalò e si mise nel nido di un’aquila.

L’aquila lo nutrì e il bambino si alzò in piedi un’altra volta, si buttò giù e cominciò a volare.

In picchiata verso il mare si tuffò nella grande distesa d’acqua e andò a nuoto fino in fondo.

Poi guardò in alto e la luce del sole lo richiamò; cercò di risalire, ma il mare era profondo, nuotava, nuotava, nuotava, ma il mare era profondo.

Cominciarono a mancargli le forze; nuotava, nuotava, nuotava, ma il mare era profondo.

Guardò fisso la luce del sole.

Incominciò a bere; le braccia e le gambe si dimenavano, poi niente, perché il mare era profondo.

Povero cucciolo d’uomo !

CAMERA

Tra non molto ritornerà la psicologa.

Non ricordo più il suo viso e la sua espressione; la sua figura è lontana, offuscata dal fumo della depressione.

Quando mi trovo nella sua stanza non riesco a pensare nessun colore e non so come comportarmi.

Non capisco chi o cosa devo essere, ho un vuoto alla testa, guardo fuori dalla finestra; c’è un albero con tanti rami.

I miei pensieri vanno su quei rami e la psicologa resta lì, sempre lì e non si muove; è inebetita come se avesse ingoiato dieci “tavor”.

Le ho detto che mi sembrava un armadio, ma non è vero; non parlavo con lei, parlavo con la Nicoletta.

Alla Nicoletta ho detto che mi sembrava un armadio, un armadio marrone di legno e con le ante aperte.

Il marrone non mi piace, ma non è vero; non piace alla Karin.

Io preferisco il bianco, ma non è vero; piace alla Marzia.

Lei si veste di bianco e porta un braccialetto giallo al polso destro; io mi vesto di bianco e porto un braccialetto al polso destro perché faccio la Marzia.

Camera mia.

Silenzio.

Io sono in questa stanza e tutto il resto è fortunatamente fuori.

Io sono qui ad ascoltare l’eco di questa carta solcata dalla penna e tutto il resto, tutto il resto è fortunatamente fuori.

MURO

I colori sono cibo.

Io mangio colori, bevo colori, vorrei che i colori diventassero me stessa, che io diventassi i colori e che non ci sia più differenza tra me e i colori.

Quando sono colorata vorrei spaccarmi in tanti pezzi e mangiarmi uno a uno, lentamente per gustarmi meglio.

Vorrei mangiare la stanza dello psichiatra e la stanza del gruppo, la camera mia e tutto il Centro di salute mentale.

Vorrei divorare tutta questa gente che formicola per i corridoi.

Il ronzio dello sciame d’api ti avvolge, ti prende, ti soffoca.

Fatelo smettere, per favore.

E’ semplicemente insopportabile.

Tu stammi lontano, ma anche vicino; senza di te mi sentirei sparire.

Il ronzio si scioglie, si disfa.

Stabiliamo un confine tra me e te; questo confine diventa un muro, diventa una finzione e non si può più entrare e non si può più uscire dalla scena.

Si sente solo l’eco di tutti i miei pensieri rinchiusi dentro la testa come un fruscio della “tv”.

Spegnilo, spegnilo, fallo tacere !

Tu che sai, tu che puoi, spegnilo e fallo tacere !

Io conosco il copione di certe commedie e lo conosco a memoria; la prima, la seconda e la terza scena sono andate in onda.

Io non ho più niente da dire e non ho più niente da fare; io devo solo osservare.

Due metri quadrati sono un piccolo spazio, quello che si dà ai cadaveri in un cimitero.

C’è una luce giallognola nella stanza e una goccia esce dal rubinetto dell’acqua; c’è puzza di cane, c’è puzza di merda e i miei pensieri sono solidi e fanno rumore, troppo rumore.

No !

Ti prego di non entrare; non bussare alla mia porta; la strada è troppo affollata da visi che non riconosco e non ricordo.

Io non ricordo i tuoi occhi, amore mio.

E non c’era stato niente ancora tra noi due e tu mi dicevi: “ ti apprezzo perché sei una ragazza pulita”.

Non è poi durato tanto questo patto e “ci siamo caduti dentro”, proprio dentro.

Scusami, ma sono troppo brutte queste parole; intendevo dire “ci siamo cercati”.

Quando ieri sera al telefono mi hai detto che mi avresti baciata, ho provato dentro una gioia infinita.

E’ tutto così bello perché, anche se inebriati dal nettare dei nostri corpi, sappiamo rispettarci.

Ti ho scritto e tu hai condiviso i miei messaggi, ma seguendo il nostro istinto abbiamo condiviso la teoria di resistere ancora pochi minuti, sì, pochi minuti, perché, mentre ci salutavamo, sentivamo che il nostro abbraccio era diverso dal solito.

Mi stringevi forte, mi accarezzavi i capelli, indugiavamo a sfiorarci il collo, si rubava uno sguardo alla penombra.

Poi ci siamo baciati sulle labbra, come è successo altre volte con altri, ma, quando ho sentito l’umore della tua lingua che si insinuava, ho capito che era tutto nuovo.

Cercavi, poi, di guidarmi e io ritrosa mi irrigidivo, ma, annusando la tua pelle, scoprivo che avevi un profumo diverso.

Era sconvolgente quando, stuzzicandoti l’orecchio, dicevi: “non mi puoi provocare in questo modo”.

Eravamo emozionati come due quindicenni, ma la cosa ci piaceva e tanto.

Per me quella era un’altra prima volta, una prima volta inedita e sconosciuta, ma mi sentivo convinta delle mie emozioni, mi batteva forte il cuore, non sentivo di tradire ed ero serena.

Ci siamo incontrati “da Gennaro” la volta successiva e tutto è stato bello: una serata piacevole, buona la panna cotta, buoni i baci perugina, candidamente intrigante e allusiva la proposta di finire la notte a casa tua.

Comunque, il seguito è stato solo nostro e coinvolgente; io l’ho vissuto con un sentimento vero, emozionante, bellissimo e non mi sento affatto di essermi regalata.

Tutto questo mi ha fatto conoscere una donna che credevo non potesse mai esistere, ma sicuramente non mi ha delusa.

Ci siamo appartati ancora, sapevamo vivo il desiderio di voler fare l’amore e ci siamo riusciti in modo spontaneo, naturale, amandoci e non usandoci.

Una parentesi, se mi consenti: pensandoci bene, non credo sia tanto adatta la tua espressione “ci sosteniamo a vicenda”, perché sembra sminuire la qualità del nostro rapporto.

In fondo, allora, se così fosse, perché non cerchiamo altrove quello che ci diamo e viviamo ?

Comunque siano interpretati i sentimenti, poco importa.

Conta quello che è certo, il piacere di sentirci, di comunicare, la curiosità dei messaggi, il desiderio di incontrarci, il piacere di ascoltare la musica insieme, il solletico sul palmo della mano che ti fa fantasticare; tu fingi di ignorarlo, ma si sa già che sentiamo l’attrazione irresistibile di baciarci appena sarà possibile e magari intensamente.

Sai che sarà inevitabilmente innegabile il desiderio di coccolarci ancora, di scoprirci, di voler rifare l’amore.

E allora, al di là di ogni situazione, se questo ci fa star bene, egoisticamente dico che non bisogna pensare a tante altre cose, se in questo momento abbiamo la fortuna di sentire noi stessi e di assaporare la genuinità delle nostre emozioni.

Allora, coccolo mio, io dico che grazie a te mi sento una donna privilegiata.

Da una donna fragile tu hai saputo tirar fuori una donna determinata.

GIARDINO

Le cose che ho scritto sono tutte balle.

Quando penso all’amore mi sento lucida e sto bene.

Ogni cosa che scrivo cessa di avere il suo significato ancor prima di esistere sulla carta.

Appena i pensieri sono stampati, non hanno più valore e così è anche delle mie parole quando parlo, figuriamoci dei sentimenti d’amore.

Ma chi sono io ?

Sono un niente dentro tutto ciò che sta fuori.

Ma chi sono io ?

Sono un tutto in questo involucro vuoto.

Ma che parte sto interpretando ?

Parlo con i miei fantasmi, con il letto e con la sedia.

Anche loro sorridono o ridono di me.

Non so chi ha vinto; forse il letto, letto grande, letto rosa.

Ma ci deve essere sempre un vincitore ?

Sono fuori in giardino e il sole mi scalda la pelle; non c’è nessuno e c’è silenzio.

E’ tutto verde e sono tranquilla.

Sssshhhh.

Fate piano per favore, il gatto sta dormendo; non svegliatelo, si potrebbe spaventare.

E’ un gatto senza nome ed ha faticato tanto per arrivare in questo posto; adesso che ha raggiunto il traguardo vuole solo dormire.

Fuori c’è un colombo impettito che cammina veloce becchettando a sinistra e a destra con circospezione.

Con il becco si procura ramoscelli per costruire il nido.

Sta arrivando l’inverno ed è tempo di pensare alla sopravvivenza.

Anch’io devo costruirmi il nido; arriva l’inverno ed è tempo di pensare alla mia sopravvivenza.

Tutto è verde attorno a me e io sono tranquilla.

A cosa pensi ?

A niente.

Non ho più voglia di pensare e di parlare, perché le cose che penso e che dico sono tutte balle.

Buongiorno dottoressa Isabella, ben tornata.

Prende un caffè ?

Si, grazie; senza zucchero e con un po’ di latte.

Beh, fumiamoci una sigaretta e poi chissà che non mi venga in mente qualcosa da dire.

“In un posto lontano, in un posto qualunque sembra proprio che sia nato un bambino.

Non ha niente di anormale, non ha niente di strano, tranne un dentino.

Come foglia staccata dal ramo, il tuo pensiero passa, tiepida pioggia e lama tagliente; il veleno scorre nella mente e nel tempo fermato da palpebre chiuse.

Così il corpo del bambino composto giaceva.

Gli dicevo di dormire, ma il bimbo non aveva sonno; gli dicevo di tacere, ma il bimbo voleva sapere; ora dorme e ora tace perché il bimbo adesso giace.”

Basta non ne posso più; sta arrivando l’inverno ed è tempo di pensare alla mia sopravvivenza.

La ringrazio dottoressa Isabella; è stato un piacere cazzeggiare con lei.

Il piacere è tutto mio.

REGNO

La mia testa è piena di frammenti, frammenti di pensiero, persone, immagini che si muovono, si urtano e fanno rumore.

Non c’è niente di intero in me; tutto è spezzato.

C’è una “me” incazzata.

E molto incazzata, ma con chi ?

Con il dottore o con la mamma, con il papà o con lo psicologo, con tutti gli altri o con un’altra “me” stessa ?

Siamo in tanti, siamo in troppi e siamo tutti fuori.

Mi guardo, mi vedo, mi osservo; dentro non c’è proprio un bel niente.

Io sono gli Stati uniti d’America, ma non c’è il presidente.

Ogni Stato ha un colore, ma non c’è un presidente.

Questo è il mio regno; con uno starnuto farei sparire un po’ di gente.

Ci sono le mosche; quando le mosche si avvicinano, vuol dire che stai per morire.

Le mie mani puzzano di cane, ma non ci sono cani intorno a me.

Ho detto che mio padre non esiste, ma è anche l’unica persona che esiste.

Mio padre è buono; mia madre dice che pensa solo a se stesso.

Mio padre, di nascosto, mi dà i soldi per comprare le sigarette; mia madre dice che non contribuisce economicamente al mantenimento della famiglia.

Mio padre ha giocato con me; mia madre dice che con i suoi debiti ci ha praticamente rovinati.

Mio padre dice che quando è fuori casa è sempre gioioso e che in casa è sempre serio.

Io ho tanti padri e forse neanche un padre.

Una volta ho detto: io sono la televisione di papà e la cacca della mamma.

Io sono una televisione; si può cambiare programma tutte le volte che si vuole.

Puoi fare “zapping” tranquillamente senza nessuno che protesti.

Io sono tanti programmi, ma non so chi ha il telecomando in mano.

A volte sono una merda, sento la puzza e penso di dare fastidio agli altri.

Ho conosciuto una mamma sola, ma non era quella vera.

La mamma vera è rimasta nascosta.

Diciamo che io ho metà mamma.

Ci sono le mosche e quando le mosche si avvicinano vuol dire che stai per morire.

CENTRO DI SALUTE MENTALE

Il Centro di salute mentale è azzurro.

C’è tanta gente attorno a me e vorrei essere invisibile, vorrei che non mi chiamassero e che si comportassero come se io non esistessi.

Tutti parlano, parlano, parlano senza avere la bocca; eppure tirano fuori dalle labbra parole, parole che non ho voglia di ascoltare perché mi urtano i nervi.

Lascia stare; non importa.

Scusa, hai da accendere ?

Giallo e rosso fa arancio, arancione è uguale a “synflex”, ma questo è un’altra persona.

Sono cascata dentro una scatola.

Per un momento penso.

E’ una questione di principio, forse.

E’ un’esperienza, credo.

Lascia stare, non importa.

Che marea di vanità c’è fuori di me, dentro di me, attorno a me.

Cambiamo programma, per favore; fai pure “zapping” sopra di me.

A pagamento, s’intende.

CAMERA

La zia parla, parla, parla sempre e io non riesco a seguirla.

Quante parole nella bocca di mia zia !

Quasi come tanta merda nel pannolino del mio bambino.

E lei parla, parla, parla ancora, blattera, pontifica, ripete, dilata le mandibole come le chiappe del culo quando va a cagare.

La mia testa vola, vola via e non so dove; la mia bocca ogni tanto sorride, ma è una reazione meccanica, una smorfia di dolore.

Non la digerisco più; devo fuggire, devo salire le scale e andare in camera, in camera mia dove c’è il letto grande, il letto rosa, il letto nero, il letto arancione, il letto blu, il letto bordeaux.

Adesso sono chiusa in camera mia e sono solo mia; nessuno mi può toccare, nessuno mi può parlare, nessuno mi può sentire.

E’ come se fossi qui da sempre; chissà perché mi viene in mente che tanti uomini equivalgono a tanti soldi.

In questa camera ci sono gli stessi mobili e gli stessi affreschi.

In questa camera c’è il mare e in questa camera ci sono le montagne; in questa camera c’è una casa tutta nera con il tetto marrone come nella favola di cappuccetto rosso.

Lasciami qui !

Lasciami stare !

Non importa se fra poco arriverà il lupo cattivo; spero che il cacciatore non ritardi.

Vorrei chiudere gli occhi per non pensare a niente, per non pensare alla gente.

Vorrei andare in un posto lontano dove il buio è sovrano e dove non c’è poesia.

Vorrei spezzare i fili che legano la mente e lasciarla vagare nello spazio come un burattino abbandonato dal burattinaio nel carrozzone in attesa di un nuovo spettacolo.

In questo modo almeno si rendono felici i bambini con le labbra impiastricciate di zucchero filante.

Ho un grande senso di vuoto; il mio cervello è giallo, il mio fegato è viola, il mio stomaco non c’è più e ho la nausea come quand’ero incinta.

Se hai freddo, prenditi la coperta bianca .

No, grazie; non ho freddo e sto bene così.

Nell’astuccio delle “ MS” c’è giustamente scritto “nuoce gravemente alla salute”; almeno lo stato ha deciso di non prenderti per il culo.

Se ti uccidi son cazzi tuoi.

E anche questo è giusto.

“MS”: M come Malavasi, S come Samperi.

Due grandi teste di cazzo !

Sono medici in carriera, bravi medici; niente da dire, ma sono psichiatri.

Malavasi è solo metà e Samperi è tre contemporaneamente, insieme sono due, ma due diversi; parli con uno, risponde l’altro.

Due grandi teste di cazzo !

E’ giusto così.

Il primo è schifoso e bastardo, ma lo amo.

E’ l’unica persona che riesco ad amare, ma è anche l’unica persona che potrei ammazzare.

Un giorno l’ho visto e abbiamo parlato; dopo l’avrei pugnalato ventisette volte.

L’avrei sventrato, squartato, fatto in mille pezzi.

Quell’uomo ha il potere di rompermi.

Venezia è una città morta; Venezia è una città psicotica; Venezia è un corpo umano con le vene e i globuli rossi, ma a Venezia perdi l’anima.

CASA

Quanta gente in questa casa !

Parole, rumori di macchine, campane che suonano.

Fateli smettere !

Mi fanno male le ossa; penso che tra un po’ pioverà.

Non ho voglia di scendere in sala riunioni.

Buongiorno dottoressa Isabella.

So che lei ha cucinato la solita minestra, ma io devo proprio mangiare ?

Sono una stronza, sono cattiva, sono egoista.

No, non è vero; invece è vero.

Devi solo trovare la tua strada.

Io una strada ce l’ho già; ho casa, figli e famiglia.

Ma non stai bene con noi ?

Dovrei adattarmi, collaborare, trovare un lavoro.

Se avessi un mio spazio, sarei più presente in casa; così com’è adesso, non va.

Lo vedi da te che non va.

E cosa faccio allora ?

Me ne vado ?

Sarei egoista.

Non sei egoista con il tuo comportamento ?

Lo sono !

Andate in culo tutti e due; mi avete rotto !

ONDA

Un’onda, un quadro, un pittore omosessuale, un critico d’arte, una pranoterapeuta con

la smania di dipingere.

Devo spegnere la sigaretta perché è vietato fumare; un personaggio sornione osserva la scena.

Il pittore omosessuale dipinge, mentre il critico d’arte gli fa delle “avances”.

Come un vampiro vuole bucargli il culo.

La pranoterapeuta è serena e non pensa più al fidanzato, di trentanni più giovane, che ha sperperato lo stipendio al casinò di Venezia, dove tu perdi anche l’anima.

E’ felice perché ha scoperto la persona che ha rubato tre milioni al critico d’arte.

Il portacenere è rosso, ma è vietato fumare.

La radio continua a suonare musica italiana; l’onda è bella e massiccia.

Io preferisco il rock duro dei “Prozac +” tanto per restare sul mio.

Il polpettone è buono, ma senti che tosse !

Betty dice di essere tossica, ma guadagna tanti soldi con i c.d. e per questo non è credibile.

Eva canta con la voce impastata di acido e canta proprio “acidì, acidà, acidì, acidà”.

L’osservatore, sempre più sornione, ride ed ha una risata meccanica; si guarda intorno e non capisce dove si trova.

Ditegli, per favore, se si trova al centro commerciale “Giotto” o nella discoteca per sole lesbiche.

La radio continua a suonare musica italiana e il critico d’arte vuole lasciare il quadro a metà perché gli piace così; intanto il ladro dei tre milioni è fuggito in Grecia per sniffare cocaina in tranquillità dentro il Partenone.

Sento la solitudine anche in mezzo alla gente e ho un senso di vuoto; mi manca la roba.

Tutto è così lontano, così strano, così irreale e sembra un sogno a occhi aperti.

Mi passi l’accendino per favore ?

La scatola è nel cassetto.

Certo, tieni.

Arancione ovviamente.

LETTO

Adesso sono in un letto che non è mio e vedo i miei figli; non posso chiudere la luce perché al buio vedo i loro volti.

Non ho il coraggio di affrontarli; io li ho uccisi o li sto uccidendo.

Non ho più voglia di andare a casa, non ho più voglia di andare al centro diurno, voglio restare in questa camera con la luce accesa tutta la notte e scrivere su questo quaderno la mia sporcizia interiore nell’estremo tentativo di ripulirmi.

Voglio tornare linda e casta come nel giorno della prima comunione, quando la paura di rompere la particola mi faceva sentire in bocca il gusto del sangue di Cristo.

Quante paure inutili e gratuite mi hanno propinato da bambina.

Maledetta quella suora che terrorizzava i bambini !

All’inferno !

Vada all’inferno !

Quella suora la voglio incontrare all’inferno per poterla seviziare con il consenso di Satana.

Spegni la radio, per favore; mi distrae e io devo scrivere.

Scrivere è come cagare quando hai la dissenteria da astinenza: ti fa solo bene.

Quando hai il male della scimmia ti viene fuori dal buco del culo anche l’anima.

Chiudo gli occhi con la luce accesa per non vedere nessuno, ma gli occhi restano sbarrati e io sento un bisogno impellente di scrivere o di cagare.

Il cuore mi batte forte; ho il nodo alla gola e non riesco a deglutire.

Ricordo che mio figlio dormiva e io mi masturbavo; lo accarezzavo, lo abbracciavo e lui dormiva, lui dormiva e io mi masturbavo come facevo da bambina davanti al televisore guardando i cartoni animati di “Candy Candy”.

Che gusto !

Mi rilassavo a tal punto che mi addormentavo.

Mi è sempre piaciuto far sesso, mi piace far sesso anche con i gatti; a differenza degli uomini non ti penetrano, al massimo ti leccano.

Gli uomini mi fanno schifo, le donne mi fanno schifo.

Ho fatto sesso con molte cose e con molte persone.

Mio figlio dormiva e io mi masturbavo, lo accarezzavo, lo abbracciavo e lui dormiva.

Credo che questa notte mi sia venuto in mente il sesso perché mi trovo nel letto dove intrattenevo i clienti, non tutti, ma solo gli ultimi della nottata perché così mi portavano a casa.

Era più comodo farlo nel letto, ma era anche una rottura perché durava di più ed era più coinvolgente a livello affettivo: la mia vagina era un accessorio del mio corpo e uno strumento per procurare i soldi della quotidiana eroina.

I tossici pensano solo al presente; il passato e il futuro sono optional per i deficienti.

Quando mi appartavo in macchina con il cliente e lui cominciava a spogliarsi, io diventavo un automa; il corpo non era più mio, con la mente uscivo dalla macchina, mentre la figa dava le sue prestazioni.

Lo sentivo entrare dentro di me e lo stomaco si rivoltava, ma non m’importava niente.

A volte sentivo male; le mie mandibole si irrigidivano, ma non m’importava niente.

Io con la mente stavo fuori e non si vedeva quello che succedeva dentro la macchina perché i finestrini erano appannati, ma in ogni modo non m’importava niente.

Avevo un’amica che lavorava con me; l’hanno uccisa, ma non mi è importato niente.

Certo non avrei mai pensato che il buco che ti fa pisciare valesse tante foto di Michelangelo

Fumo un’altra sigaretta e poi cercherò di dormire.

Hai bisogno di lavorare, di guardare avanti e non di ritornare indietro.

Cosa te ne fai di questi ricordi; il passato è fortunatamente passato e il presente non è certo il paradiso sulla terra.

Hai ragione, ma c’è una forza dentro che mi spinge giù in fondo, in un vortice che mi aspira e io non ho la forza di reagire.

A questo punto voglio solo dieci “tavor” come antipasto.

CARCERE

Questa mattina eravamo in riunione.

Mi sentivo strana e mi chiedevo perché mi sentivo così.

E’ entrato Enrico e mi sono resa conto che stavo facendo Enrico e allora ho smesso di fare Enrico e ho cominciato a odiare tutti; tutti mi davano fastidio perché erano macchinette che recitavano un parte, ognuno la sua e io le conoscevo tutte a memoria.

Che cosa bevono i bambini ?

Sangue !

I bambini sono vampiri e ti succhiano il sangue sin da quando li porti nella pancia.

I bambini ti rubano il sangue e per questo sono sangue del tuo sangue.

Per perdonarli c’è sempre tempo: cuore di mamma non inganna.

Ho rubato una penna al Centro e ho rubato dei soldi a mia sorella.

Quando ero in carcere pisciavo nel letto e avevo paura di tutti.

Sentivo che l’odio e la rabbia mi sfioravano la pelle e avevo paura di tutti.

Mi hanno tenuto quattro mesi in infermeria perché non riuscivo ad andare in sezione; avevo paura di tutti.

Mia sorella mi ha portato le sigarette, i colori e i pennelli.

Dove sono ?

Li rivoglio indietro, tutti, subito e subito.

VENEZIA

Quanto mi faccio schifo !

Quanto mi detesto !

Continuo a scrivere e non so perché lo faccio; forse è una necessità, mi serve per svuotare la testa dalle tante ragnatele che l’avvolgono.

Ma quello che scrivo è privo di sostanza: un mare di cazzate da svendere in un congresso di psichiatria insieme agli psicofarmaci e all’elettrochoc.

Scrivere mi fa sentire qualcuno tra i vivi ed è sicuramente meglio essere chiunque nella fantasia che nessuno nella realtà.

Se poi scrivendo riesco a pensare, ecco, io penso che il ricovero nella comunità di Venezia mi ha rovinato l’esistenza.

Com’è triste Venezia, non soltanto un anno dopo, come dice una vecchia canzoncina, ma sempre.

Venezia è sempre triste, è una città morta abitata da morti.

Venezia ti uccide piano piano e senza farti male, ma ti uccide inesorabilmente prima o poi con i suoi ponti che congiungono sponde, con le sue calli che opprimono il respiro, con i suoi campielli che illudono gli stranieri.

Venezia ti uccide e Venezia mi ha ucciso.

La mia vita ?

Adesso la mia vita non so in quale calle, sottoportego, ponte, campo, campiello, sestriere l’ho perduta.

Probabilmente è affondata nel fango delle fondamenta, un fango molle e untuoso.

Adesso io vedo sabbie mobili dappertutto e ogni volta che giro la testa vedo la cartolina del ponte di Rialto; il mio psichiatra dice che sono i segni della depressione.

Lo psichiatra dice, dice, dice, parla sempre e se non parla non ascolta, pensa ai farmaci miracolosi che gli danno potere e ai soldi benedetti che serviranno per l’acquisto della barca a vela.

Senza farmaci e barca a vela lo psichiatra sarebbe come me: un niente.

La mia vita ?

Per il momento devo solo sopravvivere.

Tutti hanno dei doppi, dei tripli e dei quadrupli.

Tutti sono poliedrici e a volte mimetici.

Anch’io voglio essere doppia, tripla, quadrupla, poliedrica e mimetica se è necessario.

Al mattino mi sveglio, indosso il vestito di un uomo e la sera mi addormento con quello.

Ma forse questo è normale.

E’ la vita; “c’est la vie”, l’importante è star bene sempre e comunque.

Bisogna capire i bisogni degli altri e soddisfarli, non pensare più a se stessi; in un certo senso bisogna morire dentro per vivere fuori insieme agli altri.

Ma la mia testa cambia idea così spesso che non capisco niente.

Essere per gli altri è diventare gli altri.

I miei figli mi hanno succhiato il sangue e il latte.

Le mie tettine di adolescente si sono trasformate in due bidoni e adesso mi arrivano all’ombelico.

In passato andavo a prendere i bambini a scuola; li aspettavo fuori e diventavo ansiosa, mi si annebbiava la vista e avevo paura di non vederli, di non riconoscerli.

Allora dovevo pensare di essere mia sorella e in quella parte mi tranquillizzavo.

Quando sono in gruppo e divento ansiosa punto qualcuno e lo riconosco nel mio agire e nel mio sentire; così mi tranquillizzo.

Forse è così che bisogna essere per vivere.

Bisogna accettare di essere morti da tanto tempo, accettare di non essere mai nati come i miei due figli, vivere liberamente la vita degli altri e dimenticare quella parte di noi che soffre; in ogni caso c’è sempre una parte di noi che si sente esclusa da tutto, quella parte deve vivere di notte o dentro una tazza di caffè all’arsenico.

Ho bisogno di una pausa e di non scrivere più; voglio aprire le finestre di questa stanza perché c’è aria viziata e bisogna farla circolare.

Devo far entrare gli ultimi raggi di sole prima che arrivi l’inverno.

CIMITERO

Il mio colore preferito è il viola, il colore della morte; quella è una “o” e questo è un qualcuno.

Quando parlo non ci sono solo tante sedie vuote, a volte c’è un qualcuno o una “o”.

E così stiamo bene in compagnia: una bella manica di ex-matti che si sono ritrovati per la cena della follia al ristorante “da Lino”.

Poi c’è la cucina di casa mia ed è sempre la cucina di mia zia, quella marrone.

Le ore sono tutte diverse e non sono mai le stesse.

Nella mia casa c’è un gatto, ma non ci abita nessuno, neppure un cane.

Così tutto è più giusto.

Così tutto è più lontano, troppo lontano; così tutto è più vicino, troppo vicino.

Forse quel tipo che ho incontrato ieri al supermercato è omosessuale: sculettava troppo e mi faceva i versi.

La mia casa non c’è e io oggi mangerò da sola; laggiù c’è troppa confusione.

Mangerò uno dei tanti cuscini che sono sul letto, il grande letto, il letto rosa.

C’è silenzio e soprattutto non c’è chi legge i miei pensieri.

Mio figlio non doveva leggere i cazzi miei.

Mio figlio ha riferito tutto a mia sorella e lei mi ha detto: “esci da questa stanza, tu il computer non lo userai più, psichiatrica.”

Psichiatrica !

Che bel soprannome.

Me lo porterò sulla tomba.

Voglio che sulla mia lapide ci sia scritto soltanto questo bel nome: “psichiatrica”.

E lui parla, più parla e più guardo una scatola azzurra e penso al bollino azzurro che c’è su quella fredda scatola piena di mortiferi farmaci.

C’è aria; è meglio uscire nella notte con quel mal di testa che toglie la confusione.

Ma qual’è la notte da vivere ?

Finalmente l’ho trovata, finalmente sono lucida.

Chi mi raggiungerà adesso sulle torri, le grandi torri ?

Da lì qualcuno potrà vedermi perché sono molto alte.

Da lì qualcuno potrà venirmi incontro, prendermi per mano e dirmi: “adesso non avrai più paura, figlia del sole”.

Mi sono liberata della pelle di plastica e adesso mi sento a mio agio.

Hanno suonato alla porta.

E’ arrivato il mio sogno ed è giusto che lo riceva e vada via con lui senza fastidio.

Mangerò qualcosa questa sera; c’è troppa confusione laggiù ed è meglio andare lassù.

Mangerò uno dei tanti cuscini che sono sul letto, il grande letto, il letto rosa.

C’è silenzio e soprattutto nessuno potrà leggere ormai i miei pensieri.

Io avevo sempre detto che erano cazzi miei.

E meno male che almeno questo, in una vita piena di inganni, si è rivelato vero.