
Dodecafonia?
Capperi, chi è costei?
Cantami, o diva, dell’infame aedo l’ira funesta
che assommò l’Iliade e l’Odissea
direttamente dalla bocca parlante dei poveri Achei.
Dimmi, o diva, di quel magico sartorello cieco
che cucì, pezza dopo pezza, la veste greca a poema.
Parlami, o diva, di quel grillo loquace
che saltò e risaltò,
pezzo dopo pezzo e sempre sul pezzo,
tra le pieghe del nebuloso Olimpo
a racimolar l’identità di coloro
che coltivarono le ragioni dell’Essere e del Non-Essere
nelle agorà delle polis infettate dai Sofisti.
Dimmi anche di coloro
che seguirono Dioniso tra i pascoli eterni del corpo,
là dove nulla mancherà finché Lui c’è.
Dodecafonia?
Se un filosofo annaspa,
un poeta risorge,
un poeta rinasce sempre,
come il ramarro e come Tazio Nuvolari,
perché un poeta vale più di dodici suoni messi in fila,
anche con il resto di due,
perché un poeta vale più di dodici cafoni messi in fila
e reperiti in abbondanza nella terzultima città italiana vivibile,
molto lontana da Trento,
molto lontana da Bologna.
Tu mi dirai
che il poeta emette soltanto e solamente flatus vocis,
spifferi d’aria contaminata dalle raffinerie dei barili di Brent,
la russa Lukoil di contrada Targia.
Tu mi dirai
che il poeta spara soffioni boraciferi rafforzati dall’alitosi cronica
di uno stomaco dilatato da obesi dolciumi di ricotta.
Tutto qua!
Parole,
sono soltanto verba quae volant,
nient’altro che vortici che si muovono in lungo e in largo
per motivi politici tra i cieli opachi dell’augusta penisola,
voltaggi che volteggiano lungo i canali di etere del perfido mostro,
l’immarcescibile fatto e rifatto nelle cliniche delle parole a vanvera
da parte di servitori solerti e interessati al quibus,
les miserables de Montmartre,
les invalides de la Bastille.
Dodecafonia?
Mi dirai ancora che sono registri diversi
per docenti di lingua italiana in svendita
nelle sfasciate scuole medie della triste penisola.
Insisterai dicendo che sono contagi identici
per gli ubriaconi del nord e i malandrini del sud,
uomini tenuti insieme dall’enorme debito pubblico
che nessuno mai pagherà
e paladini della patria borghese
che tanti odorano perché sa di fasciume.
Quanta miseria nei viali dell’ipocondria mediatica!
Cosa racconteremo ai figli dei figli mai avuti?
Diremo che dodici sono i mesi
che segnano le quattro stagioni di Antonio Lucio Vivaldi,
che otto sono i nani
con l’aggiunta del giornalista sempre in vista,
che sette sono i fratelli per i sette canali dell’etere maligno,
che sette le sorelle per tutti i pozzi di greggio e di fino,
che sette sono le spose per i soliti sette fratelli,
che quattro vale più di tre
e che tre val bene una messa in latino
nella caduca chiesa di san Filippo nel quartiere degli Ebrei.
Cosa posso dire io a te,
mia devota Dodecafonia,
di fronte a tanta tracotanza di donna navigata
nei mari dei Sargassi e degli Smargiassi?
Ma va a cagher,
o commistione e contagio,
o detto e ridetto,
o cotto e mangiato,
o cenere e lapilli!
Dammi sei parole,
soltanto sei parole,
la metà di dodici,
e ti solleverò lo scrittoio dall’impegno della calligrafia,
per scrivere le stesse manfrine dei bambini dispettosi
in cerca di fregole e di fragole trentine.
Grazie tante,
riattraversarti è stato veramente un piacere.
A bientot e a la prochain fois,
avec Juliette,
possibilmente.
Salvatore Vallone
Carancino di Belvedere, 18,12,2020