LA MATERNITA’ EDIPICA

TRAMA DEL SOGNO

“Camminavo da sola a passo svelto per le strade di una periferia cittadina, costeggiando una massicciata ferroviaria e arterie a scorrimento veloce, fino ad arrivare in un bellissimo acquitrino con un’erba verde brillante.

C’era una luce fredda, invernale. Era giorno.

In questa lunga camminata incontravo molte persone della mia vita, da quelle importanti a quelle marginali, ma restavano ai bordi del mio passaggio.

Infine giungevo in una bellissima città, che aveva come punto di accesso un largo su cui si affacciavano le case. Due di queste, affiancate, mi colpivano per la loro bellezza: una, la più grande, era color blu pavone e l’altra era giallo zafferano. Due meravigliosi colori resi più intensi da una luce che dal mare, che era alle mie spalle, si stampava sulla loro facciata.

Era l’ora che precede di qualche minuto il tramonto, fine estate. Sapevo di trovarmi a Siracusa (ma niente della città del sogno assomigliava alla vera Siracusa) e ad un tratto vedevo un uomo camminare a passo sicuro lungo la leggera salita che portava dal largo alle viuzze della cittadina. Non lo conoscevo, però io lo notavo.

Salendo a mia volta vedevo davanti a me, su una curva a tornante, due ragazzini, un maschio e una femmina di circa 8 e 10 anni e dicevo a quest’uomo, che era ricomparso, che erano i miei figli, avuti da due uomini diversi, dei quali non ricordavo né sembianze, né nome.

Poi lo guardavo ed ero così innamorata di lui che mi sentivo felice. Gli dicevo che ero incinta di lui e che, anche se non eravamo più giovani, io questo bambino l’avrei tenuto e non avrei fatto come con gli altri padri dei miei figli, non me ne sarei andata.

Era titubante, ma nel sogno anche lui mi amava e non diceva di no.”

Così e questo ha sognato Baba.

INTERPRETAZIONE DEL SOGNO

Camminavo da sola a passo svelto per le strade di una periferia cittadina, costeggiando una massicciata ferroviaria e arterie a scorrimento veloce, fino ad arrivare in un bellissimo acquitrino con un’erba verde brillante.”

Baba è in introspezione, sta viaggiando dentro se stessa per trovare i suoi tesori nascosti, ha una buona confidenza con se stessa e con il suo mondo interiore: “camminavo da sola a passo svelto”. “Le strade di una periferia cittadina” disegnano il progetto onirico di Baba: partire dal presente psichico per addentrarsi possibilmente in qualche arteria che velocemente porta all’immagine dello stato psichico in atto: “un bellissimo acquitrino con un’erba verde brillante”. La meta non è poi male anche se Baba ha “costeggiato una massicciata ferroviaria”, ha intravisto i suoi “fantasmi di morte” e le sue perdite depressive, tutte esperienze vissute che portano a un presente psicofisico in cui a un ristagno delle energie vitali si oppone una vivida carica di “libido”, di vitalità del corpo che vuole e della mente che desidera: “un’erba verde brillante”. E tutto questo andare avviene secondo le direttive di “arterie a scorrimento veloce”, di una consolidata “coscienza di sé” che spazia e si muove con disinvoltura e speditezza. L’introspezione iniziale viene confermata insieme alla “brillante” confidenza che Baba ha con se stessa.

C’era una luce fredda, invernale. Era giorno.”

Baba rievoca con la giusta freddezza l’evento psichico che sta preparando in sogno con tutte le precauzioni per non fare scattare il risveglio tramite la coincidenza del “contenuto latente” con il “contenuto manifesto”, il cosiddetto incubo. La “luce fredda” è dovuta simbolicamente a una “razionalizzazione” ormai stagionata dei vissuti in questione: la ragione senza emozione, una forma metallica di rivivere le esperienze significative occorse nella vita. “Invernale” ha una chiarezza depressiva, come un voler dire “nella caduta della vitalità, nella senilità, nella stagione del tramonto”. Baba è fortemente consapevole, “era giorno”, che le emozioni sul fatto in questione sono state stemperate e addirittura liquidate, per cui può andare avanti e oltre con la massima tranquillità. Tutto è sotto il controllo dell’Io vigilante e cosciente.

Che tristezza, ragazzi!

In questa lunga camminata incontravo molte persone della mia vita, da quelle importanti a quelle marginali, ma restavano ai bordi del mio passaggio.”

Baba cammina tra l’imperioso e il solenne e al centro della sua vita in atto, delle esperienze in ballo e dei vissuti coinvolti, logicamente i suoi e soltanto i suoi. Tutto il resto e tutti gli altri sono “ai bordi del mio passaggio”. Importante e degna d’interesse è soltanto la madama che, tra il riflessivo e lo ieratico, avanza al centro della sua strada, delle esperienze in atto nella sua vita. Baba è tutta presa da sé senza narcisismo, ma con tanta buddistica consapevolezza, una “coscienza di sé” che oscilla tra la nostalgia e l’attesa, tra il dolore del ritorno e il desiderio dell’avvenire. In questo riattraversare le persone importanti e marginali della sua vita e in questo renderle presenti nella panoramica mentale del ricordo emerge la protagonista del sogno con tutta la tristezza della rievocazione e la percezione gioiosa della propria consistenza psicofisica. La santa passa e la processione avanza con la statua in prima fila. Tutto resta ai bordi del suo passaggio. Non è narcisismo, è tristezza, è l’allegoria della nostalgia. Non resta che attendere dove Baba va a parare in pompa magna.

Infine giungevo in una bellissima città, che aveva come punto di accesso un largo su cui si affacciavano le case. Due di queste, affiancate, mi colpivano per la loro bellezza: una, la più grande, era color blu pavone e l’altra era giallo zafferano. Due meravigliosi colori resi più intensi da una luce che dal mare, che era alle mie spalle, si stampava sulla loro facciata.”

La tristezza è propedeutica alla Bellezza. Non si può gustare il Bello ridendo e tanto meno sorridendo. La dimensione estetica abbisogna di quella riflessione matura che, a sua volta, ha bisogno del tempo adeguatamente vissuto nell’attesa di arrivare “in una bellissima città” e di “un largo su cui si affacciano le case”. E la Bellezza immancabilmente arriva giustamente sollecitata dal paesaggio e soprattutto dal colore, anzi dai colori “blu pavone” e “giallo zafferano”. Baba è più che mai in una “reverie” nel “reve”, in una immaginazione nel sogno, in una serie di immagini che si snoda nel teatro onirico dietro la sollecitazione dell’introspezione, di questo guardarsi dentro con confidenza e con altrettanta confidenza lasciare sfilare i ricordi in questa passerella della nostalgia, di quelle persone e di quelle storie che sono state vissute e ben sistemate nel registro adeguato.

E quale registro poteva essere più giusto di quello della Bellezza?

Baba “sublima” con la leggerezza del suo passo e dei suoi sensi il materiale psichico che tocca e condensa in “due case” e soprattutto nei “colori” di questi ricordi e di queste esperienze, “due meravigliosi colori resi più intensi da una consapevolezza che affonda le sue radici nel Profondo psichico, “dal mare che alle mie spalle”. La Bellezza è la trasfigurazione di persone e di personaggi, di “fantasmi” e di esperienze vissute, che a contatto con la Ragione trovano l’armonia dei sensi in una pacata compostezza che si stampa nella facciata delle case originalmente colorate di esotici “blu pavone” e “giallo zafferano”. Questi due colori e la luce del mare fanno il capolavoro. La curiosità nasce nel prosieguo dell’interpretazione del sogno e nell’attesa di individuare precise sagome e personaggi all’interno di queste due case. Prima è opportuno parafrasare quanto detto in maniera più chiara e pop. Baba ha recuperato dal suo passato esperienze vissute e le filtra con i canoni estetici per viverne la Bellezza, al di là delle connotazioni umane ed esistenziali

Era l’ora che precede di qualche minuto il tramonto, fine estate. Sapevo di trovarmi a Siracusa (ma niente della città del sogno assomigliava alla vera Siracusa) e ad un tratto vedevo un uomo camminare a passo sicuro lungo la leggera salita che portava dal largo alle viuzze della cittadina. Non lo conoscevo, però io lo notavo.”

Era l’ora che volge al desio e ai naviganti intenerisce il core, il tempo della caduta dei sensi in sul tramontare della vita, prima della morte, prima di godere della vita vissuta e del ricordo dei minuti fermati negli attimi. Baba ha passato i cinquant’anni e ha una piena consapevolezza del suo corpo e dei diritti del suo essere femminile in piena ottemperanza alle leggi di Natura che esigono “un tramonto in una fine estate”. Anche la coscienza del luogo, “Siracusa”, è vivida come il gusto dei vissuti sensoriali che sono associati a “un uomo”, una figura maschile che permette all’amore di Baba di riscattarsi dalle pastoie del tempo andato e delle occasioni mancate tra un dejà vu e un dejà vecu, tra un desiderio che ritorna e una nostalgia che si allontana. Baba riesuma un uomo che ha fatto entrare dentro di lei con la consapevolezza del godimento estetico dei sensi che non vogliono in alcun modo “sublimarsi” nella stagione dei saldi e degli sconti presso il centro commerciale più vicino al luogo del peccato e al suolo francese, meglio mediterraneo, meglio siracusano che non è mediterraneo e neanche francese. Questo è il luogo di Baba, il “topos” in cui ha consumato il più grande peccato della sua vita, notare un “uomo che in leggera salita cammina verso il largo delle viuzze”, un uomo che aveva già conosciuto tra i meandri della sua miscellanea di sensi brillanti e di sensazioni eclatanti, di desideri eccitati e di pulsioni cruente. Il luogo è quello che sbocca nello spazio aperto di un orgasmo vissuto con un uomo sconosciuto ma ben preciso nell’immaginazione creatrice di una bambina arzilla che tanto fantastica e altrettanto allucina. Baba finge di non essere lei la donna inquisita sull’altare dei preti politicanti, ma sa benissimo che quell’uomo è suo padre camuffato dal saio di un frate cappuccino che sale la strada che porta al convento dopo la questua, dopo aver frequentato donne di mercato e uomini peccatori. Baba è in piena rievocazione della sua “posizione edipica” e sta riesumando il padre dalle fondamenta di una città che è il suo corpo, il padre incarnato nei suoi desideri di bambina e ancora irretito nelle maglie della donna di oggi, un tempo che volge al desio e a Baba intenerisce il core. Ma Baba finge di non riconoscere le fattezze del padre, ma non può fare a meno di conoscere i segnali della sua eccitazione, del suo pentolone che bolle e ribolle tra ricordi antichi e lontani e tra desideri presenti e urgenti.

Salendo a mia volta vedevo davanti a me, su una curva a tornante, due ragazzini, un maschio e una femmina di circa 8 e 10 anni e dicevo a quest’uomo, che era ricomparso, che erano i miei figli, avuti da due uomini diversi, dei quali non ricordavo né sembianze, né nome.”

Ecco che Baba sale a sua volta e ha la piena consapevolezza che negli amplessi pericolosi, “la curva a tornante”, si corre il rischio di avere dei figli, “due ragazzini, un maschio e una femmina”, si rischia l’incesto e di avere un figlio dal padre, anzi due figli da “fantasmi” diversi ma sempre riconducibili alla figura paterna. E proprio perché si tratta del padre, la funzione onirica provvede a rappresentarlo senza rappresentarlo, senza “sembianze” e senza “nome”. I padri “ricompaiono” sempre sul luogo del delitto consumato dalle figlie birichine e vogliose, così come i figli inanellati con uomini diversi, a che non si riconosca il vento di tramontana che ha lasciato immancabilmente il posto allo scirocco dopo un periodo di bonaccia. Legge universale onirica impone che le persone senza volto e senza nome siano i genitori. Tutto merito del buon funzionamento della censura onirica e dei meccanismi di formazione e confezionamento del sogno. Nello specifico, a che non si fosse ancora capito, Baba sta sognando le pulsioni e i desideri edipici, la pulsione sessuale e il desiderio di donare un figlio, anzi due, al padre in riconoscimento del suo valore di donna matura.

Il prosieguo lo dirà nei termini chiari come l’acqua di fonte che scende dalla montagne del Trentino e che con la fantasia arrivano alle pendici di Buccheri, la dove nasce l’Anapo e dove inizia il lungo travaglio di ricerca della sua Ciane, prima della fusione acqua con acqua, prima di inabissarsi e scomparire nelle falde calcaree del vallone di Carancino.

Poi lo guardavo ed ero così innamorata di lui che mi sentivo felice. Gli dicevo che ero incinta di lui e che, anche se non eravamo più giovani, io questo bambino l’avrei tenuto e non avrei fatto come con gli altri padri dei miei figli, non me ne sarei andata.”

La felicità è la presenza di un demone dentro, l’innamoramento e l’amore sono i tormenti consapevoli di questo spirito vitale che Freud volle chiamare “libido” sulla scia di Dioniso, di Epicuro, di Nietzsche. Il demone non si lascia suggestionare dai doni della Ragione di Apollo, il demone è birichino e gode alla visione del tormento procurato per grazia ricevuta. Baba è felice perché ha una prospera vitalità che l’assiste nel cammino del tramonto e che non disdegna di abbandonarsi alle dolci trame del ricordo. Baba è incinta di lui e vuole dare parola, “gli dicevo”, a questa nuova consapevolezza di avere ancora un figlio a strascico di quelli paterni, di essersi fatta ingravidare da un uomo in proseguimento della processione del Santo paterno. Dopo due figli edipici Baba è riuscita a concedersi un figlio tutto suo che sa e odora del dopobarba di suo padre: la consapevolezza di questo mondo incubato e tenuto a lungo nel sicuro delle grate e delle griglie oniriche è la novità del tempo maturo, della terza età, quella che viene sempre prima della quarta età e dopo la seconda. Mi spiego e mi rispiego: Baba sa del suo forte e contrastato legame con il padre e del perché non si è mai legata abbastanza agli altri uomini della sua vita al punto di avere gravidanze, travagli, parti e figli da svezzare e accudire sin dal primo mese, doni dell’amore “genitale”, quello che viene dopo quello “edipico”.

Una domanda sorge spontanea come nelle migliori dizioni del giornalista nel suo antico “mi manda Lubrano”: ci sono le uova per fare la frittata adesso che non si è più giovani?

Dopo tante fughe in avanti e in retro la donna si accorge del suo amore variegato nei confronti del padre e della sua realtà di un nostalgico desiderio di potenza e di onnipotenza. Per fortuna oggi la gravidanza può essere “assistita” in onore al padre e senza quell’uomo che non è necessario in un universo in cui i figli sono delle madri e in attesa di essere di se stessi.

Era titubante, ma nel sogno anche lui mi amava e non diceva di no.”

Con i conforti religiosi si è spento il desiderio di una donna edipica e si è ricomposta la salma del padre come nelle migliori tradizioni popolari e nei più brillanti riti profani. La titubanza è la sorpresa che si mangia a piccoli bocconi prima del piatto forte e risolutivo, “anche lui mi amava”, ma soprattutto prima del “silenzio assenso” tanto caro ai prefetti della Repubblica quando non sanno che pesci pigliare, quando ignorano di saper leggere e scrivere. Baba finalmente ha sciolto il nodo e ha tagliato la testa al toro: l’immagine paterna mi ha affascinata nel corso della mia vita e adesso ho la piena consapevolezza dei condizionamenti esistenziali che mi sono data da sola ristagnando creativamente in questa “posizione psichica edipica”. E’ oltremodo ovvio che “non diceva di no” è la classica “proiezione” che si può usare come esempio illustrativo nella didattica dei novelli psicoanalisti, quelli che non ci sono più e che sicuramente non sono mai esistiti dopo di Lui. Il “controtransfert” del padre non lo sapremo mai, ma piace immaginare che il vecchio marpione sapeva ben calibrare il suo intervento in maniera compiaciuta verso la figlia procace, al fine di renderla fascinosa quel che basta per diventare una maliarda.

Buon viaggio e buon appetito, Baba!

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