
Invoco invano la mia immaginazione
per rievocare la tua immagine.
Il mio cuore è un manto erboso
mosso dai caldi venti di caduta,
la mia testa una fitta foresta di pensieri,
alcuni fedeli,
altri mercenari e altri prigionieri.
Io sono un mistero per me stessa.
Si fa buio,
si ammassano i ricordi.
Mi abbandono alla malinconia,
che è nemica dei sogni.
Nelle infruttuose speculazioni notturne
frugo all’interno dell’anima
per capire se ti ho inventato
solo per stare dentro lo sguardo di qualcuno.
L’eco delle nostre conversazioni rimbalza
sui tronchi dei miei alberi secolari
e si perde nel fiato che espiro.
L’erba si muove, sei arrivato.
Respiro.
Polmoni, sangue, cuore.
Devo aver letto
che attendere significa aspettarsi qualcosa
che non succederà,
ma ho letto molte cose
e ho perso il filo.
Mi visitano i personaggi dei romanzi,
i loro discorsi riempiono le distanze,
sovrapponendosi in epoche disuguali.
Ho risentito Anna Karenina
che insegna la preghiera della sera al suo bambino:
“Proteggi tutti i conoscenti e gli sconosciuti”.
Non c’è altro da dire,
altro da fare.
Tutto questo tempo,
tanto e tutto uguale,
troppo per poter creare.
Ho bisogno di non avere tempo
per fare quello che voglio fare,
di ritagli di minuti tra la fine del pasto
e il letto per poterti scrivere.
Ho bisogno di rubarlo, questo tempo.
Invece adesso lo perdo soltanto
e non sono in grado di mettere sul banco
il fardello delle mie passioni.
Forse non c’è bisogno di quello che posso creare,
è tutto fermo,
permane l’assenza,
scompare l’illusione che sia reciproca.
Ma esiste sempre un elemento imprevisto
e torneremo nel continuo esordio.
Voglio lasciare andare i morti.
Voglio che tu stia in ascolto mentre piango.
Sara
Treviso, lunedì 20 del mese di Aprile dell’anno 2020