
IL NOSTRO PANE QUOTIDIANO
Alla fine, come sempre del resto, il sentimento d’amore esce dal ghetto e trionfa tra la brava gente nei nobili gesti del quotidiano vivere.
Nonostante i menagrami, che dagli schermi televisivi pontificano sul loro nulla e soltanto per ritirare dal capo l’obolo serale, il popolo unito avanza e combatte il tiranno, il virus, la vanagloria degli imbecilli e la malasorte delle brutte compagnie.
E allora?
Allora tutti a fare il pane!
Noi siamo dei lavoratori, dei gran lavoratori, come diceva mia madre.
Non potendo andare in nessun luogo, tanto meno al mare a mostrar le chiappe chiare, si resta tutti in casa e si va in cucina a fare il pane insieme ai nostri affetti più veri.
Questo è il primo comandamento che spontaneo scatta dal sistema neurovegetativo appena si sente la costrizione del corpo in una gabbia di ferro o d’oro.
Il giorno si illumina d’immenso tra gli odori intimi della casa che amorosamente protegge e con la stessa facilità costringe.
Non tutte le case sono le stesse e diversi sono coloro che le abitano, ma tutti amano il pane, tutti vogliono il pane, tutti sono fornai. E tutti hanno i segreti familiari, quelli della nonna e della mamma, quelli del paesello natio o del borgo antico, quelli del signor Drago o della signora Romico. Tutti conservano la pozione magica, combinano le farine giuste, le impastano accortamente con l’acqua e il lievito, con il latte e le noci, con le olive e i pomodori secchi, le lasciano riposare nei tempi raccomandati da madre natura e dalla zia Assuntina. Tutti si sbizzarriscono nel dare forma all’impasto, nella perizia d’infornarlo e di sfornarlo secondo tradizione e necessità. Il travaglio del fare il pane è un arcobaleno variopinto sospeso nel tinello sulle memorie che ci portiamo addosso come il marchio di fabbrica. In compenso il modo di mangiare il pane è quasi universale. In ogni caso l’originalità del fornaio è sempre il prezzo da pagare al narcisismo.
Quale magnetismo scatta nel riappropriarsi del rito più antico del mondo e nel metterlo in moto con il concorso allegro di tutta la famiglia?
Ogni mito ha il suo rito e insieme esorcizzano un divieto, un tabù: vietato morire!
Il pane è corpo, il nostro corpo, la metafora del corpo, il sostituto magico del corpo, la causa della colpa, la riparazione dell’angoscia, il nutrimento spirituale della materia, la trasfigurazione della morte, la vita eterna. Il pane è la Pasqua dei poveri di spirito che si nutrono di quotidiane rinunce e di eterne virtù.
E allora avanti con il Santo, altrimenti la processione s’ingruma.
La corsa al supermercato è di quelle senza fiato. La ricerca della migliore farina è d’obbligo, almeno fino a quando gli scaffali sono pieni. Di poi, qualsiasi intruglio di grano e di cereali andrà bene per celebrare il laico rito e fino alla contesa dell’ultimo pacco e prima dello scaffale vuoto.
Il lievito!
Ci vuole il lievito per fare il pane.
Quello di birra o quello chimico?
Meglio il lievito madre, quello liofilizzato che costa tanto perché fatto come madre natura comanda.
E la farina?
La zero o la doppio zero, la semola rimacinata di grano tenero o di grano duro?
Meglio la semola rimacinata di grano duro della Sicilia o del Tavoliere della Puglia?
Meglio quella della Sicilia.
Nella Trinacria i contadini sono poeti e sono talmente poveri che non hanno i soldi per comprare il disseccante o il pesticida. I contadini siciliani sono all’antica, come lo zio Nino Schiavone, dalla schiena ricurva ad angolo retto per colpa del manico corto della sua zappa e della terra bassa, il pioniere dei pomodori genuini e rossi, quelli concimati con il letame e non con le polveri chimiche della Montedison.
Intanto, tra un discorso e l’altro, è finito anche il lievito, qualsiasi tipo di lievito, naturale e innaturale. Non si trova più il lievito. Non importa si va avanti.
E il sale?
Tradizionale o trattato, grosso o fino, forse oltremodo iodato?
E l’acqua deve essere naturale o frizzante, quella dell’acquedotto o quella di Fiuggi?
Basta con i dubbi e le perplessità!
Noi siamo dei lavoratori, specialmente oggi, e non dei pelandroni, tanto meno dei ciarlatani.
A questo punto serve soltanto olio di gomito e amore per la Specie, serve la fame di una volta, quando il pane era l’unico alimento che si accompagnava al salato di qualche oliva o di un filetto di acciuga o di aringa.
Adesso che siamo quasi tutti chiusi in casa, curiamo il nostro corpo pensando anche all’anima. Tutti vogliamo sopravvivere e dotarci del pane quotidiano. Le mamme sono adibite al corpo e ai suoi bisogni, le mamme sono le panificatrici, le impastatrici della sacra combinazione di farina, acqua, lievito e sale. Tutti abbiamo una mamma fuori o dentro di noi.
Questo è l’immediato vaccino, quello che basta. Questa è l’Eucarestia degli ultimi, il buon nutrimento. Questo è il grembo della madre che ci ingravida e ci dà il pane in segno di amore. Questo è il profano mistero che fa bene a tutti perché si condivide e non richiede la fede.
La febbre da panificazione ha colpito l’italianità.
Un’ultima nota è d’obbligo.
Ricordate che non si butta il pane e si mette sulla tavola sempre nel verso giusto, non si capovolge mai. Il pane è Provvidenza, come il bastimento dei Malavoglia. Il pane non si disprezza. Ricordatevi sempre di Pollicino, altrimenti le fiabe a cosa servono.
Un consiglio è altrettanto d’obbligo.
Quando ti sei calato un “paninazzo cunzatu” con olio extravergine di oliva, origano, sale, pecorino fresco, peperoncino rosso e datterino di Pachino, sei in pace con te stesso e con il virus. Ti sei calato anche le tradizioni, le radici, il Cristianesimo e i valori mai perduti.
Buon appetito e ricordate sempre che, finché inforniamo il pane, è severamente VIETATO MORIRE e soprattutto in guerra.
“…
pace per il fornaio e i suoi amori,
pace per la farina,
pace per tutto il grano che deve nascere
…”
Così parlò Pablo nell’Ode alla pace.
Salvatore Vallone
Pieve di Soligo (TV), giorno 1, del mese di Maggio odoroso, dell’anno 2020