
“Morire, dormire.
Dormire, forse sognare.
Poche immortali parole e sono lì,
sul palcoscenico che il sogno ogni notte mi offre,
a recitare lo spettacolo che ho scritto e che interpreto,
le mille vite parallele possibili,
il desiderio di non morire mai.
Fin da bambina è stato così,
andare a dormire significava andare a sognare,
vivere altre vite.
Amavo il buio,
nel buio scomparivano i confini
e lo spazio era a mia disposizione,
una infinita via di fuga.
Col buio arrivavano i sogni,
ma non ho fatto altro che sognare anche di giorno,
gran parte della vita l’ho vissuta nella mia mente.
Sono stata una bambina docile e una ragazza esuberante,
due caratteristiche che convivono nella donna che sono diventata;
la sorte è stata clemente e ho amato esserci,
amo la vita,
lo stupore della fioritura della ginestra.
Ho nostalgia,
nostalgia della vita,
dell’amore,
di me bambina e di me ragazza,
di tutte le volte in cui ho stretto il mio corpo a quello di un uomo,
di tutti gli uomini,
di ciò che non ho avuto,
del desiderio,
che è sempre fame di vivere.
E adesso… ‘sto’ tale di cui sento in lontananza la voce,
lui che scandisce il conto alla rovescia
e avanza inesorabile.
Va a finire che dovrò offrirgli un caffè in segno di ospitalità,
e non è nemmeno il mio tipo.
Ho sognato che ero felice.
Questa è la “buona novella” di Sabina
“Morire, dormire.
Dormire, forse sognare.
Il Sonno è da sempre equiparato alla Morte, una breve sospensione della Vita. Non è il Sonno eterno e tanto meno il Sonno dei giusti, è “il Sonno dei sogni”, quello che ti permette di essere un piccolo dio cavalcando superbamente la Fantasia e di non essere un misero mendicante raccattando a destra e a manca con la Ragione. Il Sogno è di tutti anche se tutti non ricordano la trama. Il Sogno è la democrazia universale che dispensa il pane quotidiano come il buon fornaio di Pablo Neruda e non è “La vida es sueno” di Pedro Calderon de La Barca. Il Sogno non è futile e illusorio anche se tocca le note filosofiche della fugacità e della vanità dell’esistenza. Il prezioso sillogismo di Sabina dice che “la Morte è Sonno”, “il Sonno è un Sogno”, “la Morte è un Sogno”. Aristotele ringrazia. Piace pensare con l’audace Sabina che il suo sillogismo sia non soltanto una verità logica, ma anche e soprattutto una verità massiccia come la lava dell’Etna, il vulcano di Ades e la dimora di Persefone, almeno per i sei mesi invernali.
Poche immortali parole e sono lì,
sul palcoscenico che il sogno ogni notte mi offre,
Giovanni non a caso insegna che “In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio”. La Parola è l’energia primaria di quel Principio che tutto contiene e da cui il Tutto scaturisce. La Parola non muore. La Parola si evolve da energia a rumore, da rumore a suono, da suono a significato, da significato a significante “et in saecula saeculorum, amen”: dal Principio si arriva a Sabina passando attraverso le sonorità del Tempo astronomico e del Tempo storico. Questa formidabile donna si attesta nella sua roccaforte di parole “significanti”, i segni e i vessilli che sanno di lei, e si catapulta sul suo palcoscenico notturno seguendo i doni del crepuscolo della sua coscienza, quella sospensione che regala un appuntamento ineludibile a cui la generosità della notte non fa mancare l’intimità e la privatezza di un teatro e di un palcoscenico dove si recita veramente a soggetto nella periferia dei sensi e dei ricordi.
Sia benedetto colui che si vuol bene e non si fa mancare i suoi sogni.
“a recitare lo spettacolo che ho scritto e che interpreto,
le mille vite parallele possibili,
il desiderio di non morire mai.”
Sabina è un’attrice vanagloriosa e vanitosa, esordisce come il “Miles gloriosus” di Plauto e recita il suo canovaccio con la sua soggettività emergente. Le rime traducono le esperienze vissute, i versi trasudano le allucinazioni, il poema contiene quel che “cade dalle stelle”, i suoi “de sideribus”. Sabina sa che i sogni sono suoi e di nessun altro, ma non si ferma a questa consapevolezza perché arriva a echi buddisti di Siddharta Gautama e metafisici di Platone: “le mille vite parallele possibili”.
Quante vite hai vissuto e quante ne vivrai!
Quante scelte farai nelle vite che verranno prima di acquistare quella consapevolezza che fa volare verso l’alto e ritornare nel grembo della Grande Luce!
O forse stai pensando a come puoi riempire questa vita e a quali scelte puoi fare cambiando di un grado la tua prospettiva?
Di certo, hai pensato e desiderato in tutte le tue vite “di non morire mai” e soprattutto di vincere quell’angoscia di morte e di convertirla nella vita eterna, nel tuo “breve eterno” che dura tutto il tempo di una vita e si realizza nello spazio di un Corpo che esige e di una Mente che vuole. Il Tempo non esiste, mia cara, il Tempo si dilata all’infinito e nel sogno si mischia con il passato e il futuro secondo le regole di una buona pietanza.
“Fin da bambina è stato così,
andare a dormire significava andare a sognare,
vivere altre vite.
Se il sonno non fa paura, cosa non riesce a fare l’onnipotenza della bambina!
Sabina è infante, “senza la parola”, ma il suo pensiero vola alto verso le sfere incontaminate dell’autonomia, del far da sé intessendo un sogno nel sonno, un dono a sorpresa da ripetere tutte le notti e secondo i vari copioni da inventare. La realtà non è gratificante e merita una fuga notturna tra i progetti possibili e in attesa di essere realizzati. Sabina si butta in avanti e questo slancio può bastare in attesa di una degna ricompensa.
Ah se avessi avuto un’altra mamma e un altro papà!
Ah se non fossi nata bianca, rossa e verde!
La bambina anticipa giustamente la donna e le scelte possibili e inammissibili. Sabina studia il presente sognando quello che vuole vivere e si prepara al lieto evento di una “nuova sé”, ma una nuova sé “fuori serie”.
“Amavo il buio,
nel buio scomparivano i confini
e lo spazio era a mia disposizione,
una infinita via di fuga.
Sabina segue le sue inclinazioni crepuscolari, le fantasie e le allucinazioni: una bambina dai contorni oscuri in onore a Demetra e a metà tra Athena la “virago” e Afrodite la seduttrice. Già si pensa vaga e vagante negli spazi evanescenti di un “apeiron”, di tanti indefiniti e indistinti spazi tutti da occupare con l’aiuto del buio amico. E le espropriazioni proletarie non finiscono mai.
Quelli erano i giorni, quelli erano i tempi!
Padrona della sua Fantasia Sabina illuminava gli spazi che regolarmente occupava. E l’Infinito non costava niente, era a portata di immagine e di fantasma, ma soprattutto era a gratis. E andava di fuga in fuga come il coniglio di Alice nella ricerca del paese delle meraviglie. Finalmente Sabina è padrona in casa sua. Il buio le ha dato il potere di plasmare il suo spazio vitale.
“Col buio arrivavano i sogni,
ma non ho fatto altro che sognare anche di giorno,
gran parte della vita l’ho vissuta nella mia mente.”
La bambina non ha paura dei sogni, la bambina non ha paura di se stessa, la bambina cresce in bellezza e progredisce in immaginazione. Sabina vive il buio della Notte e la luce del Giorno. Fobetore, Fantaso e Morfeo escono per lei da una porta d’avorio e le portano in dono i sogni veritieri, il suo desiderio di creare e di crearsi. Nel contempo i sensi crescono, si raffinano e allucinano la Fantasia secondo i temi tragici delle fiabe antiche e secondo le trame sornione delle favole moderne.
E la Mente?
La Mente non sta a guardare e partorisce i “fantasmi” e i ragionamenti sul tema “vorrei” o “vorrei vivere”. Non è per niente vero che “l’erbavoglio cresce sempre nel campo del vicino”. Sabina ha il suo bel da fare nel dividere le fantasie e le immaginazioni dai fatti quotidiani dell’avara realtà. Sabina vive tra il Giorno e la Notte, tra le pieghe di una vita che stenta a farsi riconoscere alla Luce del sole.
Benedetto sia il Sogno e chi lo manda!
“Sono stata una bambina docile e una ragazza esuberante,
due caratteristiche che convivono nella donna che sono diventata;
la sorte è stata clemente e ho amato esserci,
amo la vita,
lo stupore della fioritura della ginestra.”
I fiori gialli della ginestra mandano fuori di testa Sabina, una bambina docile, una ragazza esuberante, una donna complessa e dotata di yn e yang, della Notte e del Giorno, della “coincidentia oppositorum”. La ginestra non è quella eroica e triste del combattente Giacomo Leopardi in quel di Napoli e appena sotto il Vesuvio, non è quella del deserto che prospera anche tra le rupi calcaree di Siracusa, la Ginestra è Sabina con i suoi fiori gialli di rabbia e di gelosia, con i suoi slanci vitali e superbi, con le sue cose a posto e tutte da regalare al suo godimento. Sabina è stata anche ai ferri corti con la Vita, ma la Sorte è stata clemente e ha “amato esserci” in questa valle di stupore esuberante. La vena autodistruttiva ha toccato regolarmente le rive narcisistiche di un corpo ancora oggetto d’amore e in attesa di assorbire con gli odori del deserto di lava anche l’amore del proprio destino. Disposta a “sapere di sé” e a imparare, dotata di rotondità e fecondità, Sabina trasborda di ormoni e di sensualità nel suo incedere elegante e con gli occhi sognanti tra le strade della sua contrada natia e della sua straniera città. La ginestra è fiorita e non è ombrosa, tutt’altro, la ginestra è luminosa. Eros trionfa su Thanatos. La Sorte evoca il mito di Er di Platone, così come “l’Esserci” calza bene con il “Dasein” di Martin Heidegger.
“Ho nostalgia,
nostalgia della vita,
dell’amore,
di me bambina e di me ragazza,
di tutte le volte in cui ho stretto il mio corpo a quello di un uomo,
di tutti gli uomini,
di ciò che non ho avuto,
del desiderio,
che è sempre fame di vivere.”
La nostalgia è il dolore del trasognato ritorno, è la “sindrome di Ulisse”, di ogni uomo e di ogni donna che cerca Itaca per ritrovare le sue radici e per definitivamente reciderle. Sabina desidera soffrire per tornare a vivere la sua bambina e la sua adolescente dentro, quelle che avevano sempre qualcosa in più da chiedere e da vivere. Sabina desidera soffrire per rivivere la “se stessa” adulta nel trionfo dei sensi e nel calore erotico di una fusione del suo tipo: l’androgino è ricostituito, andate in pace. Sabina è ormai intera, mille volte intera, tutte le volte che ha sentito il suo maschio e la sua femmina calzare a fagiolo com’era in principio e prima che l’invidia degli dei separasse la loro quasi perfetta unione, la loro quasi perfetta intesa.
Quanti sono gli uomini di Sabina?
Uno, nessuno, centomila grida il drammaturgo alla ricerca della vera identità di una donna che del vivere ha fatto un’arte di pienezza e di abbondanza. La fame del desiderio la sostiene e la tiene dritta con la schiena anche se il “non nato di sé” ancora addolora e copre di uggia le giornate dedicate alla paturnia.
“E adesso… ‘sto’ tale di cui sento in lontananza la voce,
lui che scandisce il conto alla rovescia
e avanza inesorabile.”
La dialettica tra Kronos e Thanatos è da Titani e non s’addice a piccole donne che crescono in un cortile alle spalle di una collina e tanto meno sotto una montagna del Trentino. Il Tempo regala la consapevolezza della Morte non prima di aver concesso un qualche sentore del “chi sono io?” e una qualche avvisaglia del “conosci te stesso”. Fortunatamente la Morte sarà quella di un’altra vita scelta tra le tante vite possibili e di un’altra morte liberamente scelta per questa vita. Anche la fine aspira a diventare un desiderio di rinascita, una Pasqua. Pitagora e il grande Buddha ringraziano per la preferenza accordata, così come è scritto sulle carte oleate delle migliori pasticcerie siciliane.
“Va a finire che dovrò offrirgli un caffè in segno di ospitalità,
e non è nemmeno il mio tipo.”
Sarà l’uomo del definitivo orgasmo questo Kronos maschio che si presenta con un Thanatos altrettanto maschio?
Sarà ancora quel maschio da accogliere per il definitivo congedo dagli inganni di un caffè sorbito a gocce nel bistrot del lungomare di Marina di Melilli?
Ma a quanti uomini Sabina ha detto di no?
“Ho sognato che ero felice.”
La felicità è “eudaimonia”, è presenza di un buon demone dentro, è sentire la vitalità dei sensi e la forza dei sentimenti prima di bere la cicuta.
Sogno, oh sogno delle mie brame, dimmi, chi è la più bella del reame?
LA NOTTE DI ANTONIA SOARES
Io cercavo da tempo una stanza, ma la stanza non c’era.
Vorrei andarmene e passare la notte all’aperto, vorrei sparire e farmi inghiottire dal buio, vorrei andare in Portogallo a trovare Fernando Pessoa, vorrei dormire sulla sua tomba…, sento solo odio, rabbia, disprezzo, fuggire via, fuggire lontano.
Fuggire dove?
Vorrei sparire e farmi inghiottire dal buio.
E quell’ombra ritorna.
Si era nascosta dietro a una nuvola,
ma ora ritorna.
E tu continui a dare la colpa alla gente,
ma forse non ti accorgi
che sei tu a non valere niente.
Vattene gatto nero,
vattene all’inferno,
vattene ombra scura lontano dai pensieri,
ma quando tutto tace e tutto dorme,
ecco che allora si risvegliano i sospiri,
che come forte vento ti portano via la pace e la luce del sole.
La notte ti è amica,
la notte ti è vicina,
non ti lascia mai sola,
ma ti accompagna alla scoperta di una nuova vita.
Ma quell’ombra scura ti mette paura,
ti porta lontano,
ti toglie il respiro,
ti soffoca
e tu guardi fuori e c’è la notte.
Ma la notte è buona.
da “La stanza rosa” di Salvatore Vallone